Capitolo ventesimottavo
Questa storia di bassi fondi non giungeva sino a noi.
Quello che c’era di novità non ci attirava, perché già da lungo tempo ci
eravamo messi in una nuova atmosfera letteraria, con serietà d’intenti e di
studi, e ci parevano ridicoli i pretesi novatori, non vedendo in loro che
ignoranza e superficialità. L’inverecondia delle polemiche ci moveva disprezzo
e disgusto. La persona di Basilio Puoti c’era divenuta piú veneranda, appunto
per le basse contumelie di cui era fatto segno.
La conclusione fu che ci demmo con piú ardore agli
studi, cercando con avidità tutti i libri nuovi intorno ai problemi letterari,
di cui allora si parlava molto piú con presunzione che con competenza. Questi
libri circolavano nella scuola; se li prestavano, ne disputavano; io i miei li
prestavo volentieri, e ne parlavo sempre, e non tacevo mai le fonti ove
attingevo.
Quest’anno il mio corso fu intorno al genere narrativo,
sotto il quale compresi il poema epico e la leggenda, il romanzo e la novella,
la storia e la biografia, il romanzo storico. Continuavo lo stesso metodo.
Prima era l’esame del contenuto in sé e nelle sue condizioni di tempo e di
luogo, da cui si derivavano le forme, cioè a dire la situazione e l’ordine, i
caratteri, lo stile, ecc. Per dare un concetto adeguato del poema epico nelle
sue vicissitudini, feci una specie di quadro storico dell’umanità, andando
dalla famiglia al comune, dal comune alla nazione, dalla nazione ai grandi
centri di civiltà. Cosí classificai Omero, Virgilio, Dante, Ariosto, Tasso,
Milton, Klopstock. Toccai del Camoens come tipo di poeta nazionale.
Precedettero alcune considerazioni generali:
1. Derivando le forme dal contenuto, nessun poema può
essere tipo e modello di tutti gli altri, perché ciascuno ha un contenuto suo,
e perciò forme sue.
2. In poesia non ci sono tipi, ma individui, e nessun
individuo somiglia a un altro. I tipi sono astrazioni della critica. Il tipo è
una data qualità accentuata, com’è anche nella vita reale. Il poeta non deve
avere innanzi tipi, ma individui. Il carattere tipico è insito nella persona
poetica, senza consapevolezza del poeta. Dire che Achille è il tipo della forza
e del coraggio, e che Tersite è il tipo della debolezza e della vigliaccheria,
è inesatto, potendo queste qualità avere infinite espressioni negl’individui.
Achille è Achille, e Tersite è Tersite, e appunto per questo sono compiute
persone poetiche, le quali possono giovare ai poeti, non come esemplari da
copiare, ma come ispirazione a invenzioni simili, a quel modo che la natura
ispira i poeti, e i modelli sono utili ai pittori.
3. Parimente l’umano, l’homo sum, fondamento
assoluto e perciò immutabile di tutta la vita umana, reale e artistica, non
esiste in natura e non esiste in arte. Gli elementi etici e patetici che fanno di
sé bella mostra nelle rettoriche, non sono che astrazioni; tolti dal vivo
dov’erano incorporati, non sono che pezzi di anatomia, frammenti cadaverici.
L’uomo, come il tipo, è insito in ciascuna persona poetica, e senza coscienza
dell’artista.
4. Le regole sono anch’esse lavoro posteriore all’arte,
e perciò sono anch’esse astrazioni. Le regole piú importanti non sono le
generalità, che si accomodano ad ogni contenuto, ma sono quelle che traggono il
loro succo ex visceribus causae, dalle viscere del contenuto.
5. Perciò il vero in arte non è assoluto come nella
scienza, ma è relativo al contenuto, nelle condizioni in cui lo concepisce il
poeta. Le rappresentazioni poetiche sono vere, anche quando il contenuto è
riconosciuto falso. Gli Dei non esistono piú innanzi alla nostra coscienza, ma
restano immortali in Omero.
6. Il poema epico suppone una storia tradizionale,
contemperata con l’atmosfera sociale in cui vive il poeta, e con le qualità del
suo ingegno. Suppone anche tutto un ciclo di poesie anteriori, una lunga e
lenta elaborazione della materia, alla quale esso dà l’ultima forma.
Queste considerazioni, ch’io trovo nei sunti lasciatimi
dai miei discepoli, sembrano oggi luoghi comuni. E questo è il progresso. Ciò
che un giorno è una tesi lungamente dibattuta e studiata, fra venti anni
diventa un luogo comune, che sarebbe pedanteria dimostrare e illustrare. A quei
tempi queste cose parevano bestemmie a molti; e io mi trovavo tra due fuochi,
tra i classici e i romantici, o quelli almeno che si decoravano con questo nome
senza alcuna serietà di studi. La impostura è cosa vecchia. Anche allora si
empivano la bocca di autori neppur leggicchiati, e si apriva facile mercato di
scienza raccolta negl’indici e ne’ dizionari.
A quel tempo correvano certe opinioni tenute dogmi,
nelle quali io stesso ero cresciuto. Lascio le piú dozzinali e pedantesche, che
si connettono ai primi anni de’ miei studi scolastici. Pochi anni piú tardi ero
pieno di molte opinioni apprese nella scuola del Puoti, e ancora piú nelle
rettoriche e poetiche dal Cinquecento in poi. Il discorso del Tasso sul poema
epico era per me un oracolo; mi piaceva anche la Perfetta poesia del
Muratori, leggevo le opere del Castelvetro, e mi stillavo il cervello in quelle
sottigliezze. Pure ressi alla fatica, e v’imparai molti fatti peregrini,
grammaticali e poetici. La Ragion Poetica del Gravina mi parve un
avvenimento, per novità e finezza di osservazioni e per chiarezza di
esposizione, che mi dava quasi una illusione di posatezza e coerenza
scientifica. Il marchese lo ammirava molto, e finalmente trasfuse in me la sua
ammirazione. Poi mi vennero a mano le polemiche sull’unità di tempo e di luogo,
e lessi con avidità i giudizi di Pietro Metastasio, il cui fare libero e
spregiudicato mi piaceva: ma studiavo di occultare questa mia impressione al
marchese, al quale Metastasio era antipatico. Anche celatamente divorai le
opere del Bettinelli, dell’Algarotti, del Baretti, del Cesarotti, scrittori
barbari al dir del marchese, ma ne’ quali sentivo piú piacere che in que’
faticosi cinquecentisti. Al contrario non mi fu possibile leggere sino alla
fine il Napione e il Perticari, cosí cari al marchese. Tirai fino a Vincenzo
Monti, le cui polemiche con la Crusca mi riuscirono gustose. Queste letture
avevano prodotto un guazzabuglio nella mia mente. Molte opinioni e pregiudizi
furono scossi, ma non cancellati.
Cominciò in me l’età benefica del dubbio e dell’esame.
Il progresso naturale del mio spirito, e piú che altro la mia abitudine alla
meditazione, il non fissarmi in alcuno scrittore, e il pensare da me, mutarono
in gran parte le mie impressioni e i miei giudizi. Sentivo nelle sottigliezze
del Castelvetro il lambiccato e il falso, e nella gravità del Gravina il
presuntuoso e il pedantesco. Nelle opere spigliate o scorrette del Metastasio,
del Bettinelli, del Monti sentivo leggerezza e superficialità, con un odore
talvolta di ciarlataneria. Quando cominciò la mia scuola, mi capitarono le
critiche del Galilei sulla Gerusalemme Liberata. Alcune mi parvero
stiracchiate; ma in altre trovai garbo e buon senso piú che in nessun altro
nostro scrittore, e capii l’eccellenza dell’Ariosto sopra i suoi precursori e
imitatori, e sopra il Tasso. Fino a quel tempo leggevo l’Ariosto come un poeta
piacevole nella sua stranezza, e non ci avevo mai pensato sopra, e talora mi
domandavo, maravigliato, in che fosse superiore all’Amadigi o all’Orlando
innammorato, ch’io leggevo con ugual piacere, e perché molti lo ponessero
innanzi al Tasso, delizia dei miei primi anni e modello di perfezione agli occhi
miei. Basti dire che sapevo a memoria dal primo all’ultimo verso la Gerusalemme,
e dell’Orlando furioso appena alcuni brani mi rimanevano impressi. Debbo
al Galilei un concetto piú sano e piú preciso dello scrivere poetico.
Questo era lo stato del mio spirito, quando diedi
principio alle mie lezioni. Intorno a me si aggirava il rumore delle vecchie
opinioni. L’unità d’azione, di tempo e di luogo era un assioma; l’Iliade era
il modello immutabile di tutti i poemi possibili. C’erano regole fisse, dalle quali
non era lecito scostarsi. Sotto nome di princípi correvano generalità
applicabili a tutt’i casi, come certe ricette. La Divina Commedia non
era un poema, l’Orlando furioso neppure: poesie divine sí, ma
contro alle regole; e non sapevano raccapezzarsi sotto qual genere andassero
allogate. C’era la gran lite degli episodi, e si pretendeva che la Divina
Commedia fosse una serie di episodi, e non si leggevano che alcuni di essi,
stimati piú belli. Dante era poco meno che un barbaro. Poco si leggevano gli stranieri;
Shakespeare passava addirittura per barbaro, e Lope de Vega per un ciarlone.
Rousseau e Voltaire erano nomi scomunicati. Ignoti quasi una gran parte degli
scrittori dal secolo decimottavo in poi. Poco si leggeva, meno si studiava,
molte erano le chiacchiere. La nostra ignoranza degli scrittori stranieri dava
proporzioni eccessive al merito degl’italiani. Alfieri era superiore a tutti i
tragici, e Goldoni a tutti i comici, e la Basvilliana veniva comparata
alla Divina Commedia: non si distingueva il mediocre dall’eccellente.
Queste tendenze erano pure nei miei scolari, e si può
comprendere il perché di quella mia introduzione, che oltrepassava nei suoi
intenti il poema epico, e abbracciava tutta l’arte. A tale generalità di regole
e di modelli io sostituivo la particolarità di un contenuto determinato dalle
condizioni esterne e dalle facoltà del poeta. Ciascun contenuto ha la sua
situazione, la sua forma organica, e in quell’organismo bisogna cercar la sua
regola. Il contenuto è come un individuo, il quale, appunto perché individuo, è
dissimile da ogni altro, e ha nel suo organismo il segreto de’ suoi pensieri e
delle sue azioni. Facevo notare del pari la grande analogia tra le formazioni
poetiche e le formazioni naturali. Come la materia, determinata dalle sue forze
o leggi, e dalle condizioni esterne, raggiunge una forma vitale; cosí il
contenuto poetico, la materia cioè o l’argomento, determinato dalle forze del
poeta e dalle condizioni esterne in cui egli vive, si specializza, prende una
data situazione, acquista la sua forma, diviene un organismo. La poesia, come
la natura, è un lavoro di concentrazione e di diffusione insieme, e lo
paragonavo a un circolo, dove la concentrazione nel centro produce la
diffusione ne’ raggi, e anche al sole, luce concentrata che si diffonde nei
pianeti.
Io metteva molto calore in queste lezioni, con un moto
di braccia, con una energia d’accento, come se avessi un avversario dinanzi a
me. La gioventú mi seguiva con attenzione religiosa, come s’io fossi un
predicatore di culti nuovi. Certo, in quella estetica improvvisata, ch’io
andava predicando da tre anni, c’era un tantino di esagerazione. Invaghito
della individualità di ciascun contenuto, davo poca importanza alle specie e a’
generi, al comune e all’universale, alle relazioni, alle somiglianza, a’
contrasti. Ma la conseguenza fu buona. I giovani si avvezzarono a far getto
delle vuote generalità, a metter da parte regole e modelli, a studiare gli
scrittori, inviscerandosi in essi. C’era meno presunzione e piú studio.
Quelle generalità non erano solo nella scuola antica o
classica. Peggio facevano certi novatori, i quali cercavano il segreto
dell’arte nei concetti e ne’ tipi. Si fondavano sul Vico, che cercava nell’arte
le idee e i tipi, e giudicavano il valore delle opere poetiche secondo la
verità e la grandezza delle loro idee e l’eccellenza de’ loro tipi, trascurando
in tutto la forma e l’espressione. Perché s’era abusato delle forme, essi le
cancellavano, e riducevano la poesia a concetti e tipi generici. Questo pareva
a me una esagerazione peggiore, perché, se quelli guardavano nella poesia le
forme piú grossolane, questi le sottraevano tutta la parte viva, sí che ella
vania in astrazioni filosofiche. Ora io combattevo anche con maggior calore queste
esagerazioni. Non potevo con pazienza sentir dire che l’ Iliade rappresenta
lo stato di famiglia, e che Achille rappresenta la forza. Mi pareva che tutte
queste rappresentanze fossero generalità astratte, e che a dir questo non si
dicesse ancor nulla che valesse a darci un giudizio adeguato dello scrittore.
Mi trovavo tra i retori e i filosofi, e mostravo il viso agli uni e agli altri,
studiando di tenermi in bilico tra i due estremi, coi miracoli del mio
contenuto. E mi messi a studiare l’organismo de’ poemi, derivandolo dal
contenuto cosí com’era situato e formato nella mente del poeta.
Quel mio quadro storico dell’umanità dava il contenuto
in sé o astratto; ora io considerava la sua vita nelle forme poetiche.
Analizzai il contenuto pre-omerico, secondo le orme di Vico, e ne dedussi che
Omero era la mente di quel contenuto. Escludevo che l’Iliade fosse
compilazione di rapsodie, fatta da qualche erudito. Le grandi poesie hanno le
loro fonti in cicli poetici anteriori, perché tutto si lega, e la storia, come
la natura, non procede per salti: gradazioni progressive generano da ultimo il
gran poeta, che dà a tutta la serie la forma definitiva. Cosí Dante è il gran
poeta delle visioni religiose; Petrarca è il gran poeta dei trovatori; Ariosto
dié l’ultima mano alla serie cavalleresca. Chiamare compilazioni le ultime e
grandi poesie, solo perché non sono creazioni miracolose, ma produzioni di
lunga e lenta elaborazione, è una esagerazione manifesta. Come l’uomo è
l’ultima e piú progredita forma della serie animale, cosí le grandi figure
storiche dànno, ciascuna, l’ultima mano alla elaborazione de’ secoli. Citavo il
motto del mio caro Leibnizio, che il presente è figlio del passato e padre
dell’avvenire. Esposi la potente unità organica dell’Iliade, e, ricordando
un detto del mio buon maestro Fazzini, dicevo “essere cosí impossibile che quel
poema fosse un accozzamento di rapsodie, come è impossibile che il mondo fosse
un accozzamento fortuito di atomi”. Venendo a’ tipi omerici, dicevo che
bisognava tenere un procedimento contrario a quello del Vico. Vico tirava dal
vivo della poesia i tipi e le idee, perché costruiva una scienza della storia;
noi dovevamo rituffare nella forma quei tipi e quelle idee, per avere
l’intendimento dell’arte. Perciò polverizzavano l’arte quelli che la riducevano
a concetti puri, fraintendendo il Vico. Mostrai che Achille non era un tipo
generico ed esemplare, ma un tipo individualissimo, prodotto da que’ tempi,
come gli Dei e gli eroi, foggiato dal poeta in quell’atmosfera, della quale
viveva egli medesimo; perciò non possibile ad imitarsi in altri tempi e da
altri poeti. Raffrontai quella forza barbara, indisciplinata e appassionata,
co’ sensi umani e anche delicati di Ettore, e commossi la scuola leggendo il
famoso addio di Ettore, dove si rivelano il marito, il padre e il patriota.
Di Virgilio lessi il sogno del terzo libro e il fatto
d’Eurialo e Niso, tirandone argomento a varie osservazioni di stile, giudicando
io Virgilio come il piú grande stilista dell’antichità. Feci l’architettura
della Divina Commedia, mostrando quanta serietà di disegno era in quel
viaggio, base sulla quale si ergeva l’edificio della storia del mondo, e piú
particolarmente italiana e fiorentina. Notai nell’Inferno una legge di
decadenza sino alla fine, e nel cammino del poema una legge di progresso sino
alla dissoluzione delle forme e alla conoscenza della immaginazione, superstite
il sentimento. Mi preparai la via, combattendo i metodi de’ piú celebri
comentatori, che andavano a caccia di frasi, di allegorie e di fini personali.
Notai che la grandezza di quella poesia è in ciò che si vede, non in ciò che
sta occulto. Lessi la Francesca, il Farinata, l’Ugolino, il Pier delle Vigne,
il Sordello, l’apostrofe di San Pietro e altri brani interessanti, facendovi sopra
osservazioni che non dimenticai piú, e furono la base sulla quale lavorai
parecchi miei Saggi critici. Posso dire che la mia Francesca da
Rimini mi uscí tutta di un getto in due giorni, e fu l’eco geniale di
queste reminiscenze scolastiche. È inutile aggiungere che queste lezioni
novissime sulla Divina Commedia destarono vivo entusiasmo. I sunti,
fatti da’ miei discepoli e rimastimi, ne rendono una immagine pallidissima e,
come dice Dante, “fioca al concetto”.
Originali furono pure le mie lezioni sull’Orlando
furioso. Analizzando le qualità di quel contenuto cavalleresco, ne dedussi
che quello che la turba chiamava disordine era ordine, e quello che la turba
chiamava irregolarità era regola. Tirai da quel contenuto la situazione e la
forma di quella vasta varietà; e, posta quella situazione, trovavo regolare
quella pluralità di azioni, che a’ piú sembrava un peccato mortale. Confutai le
argomentazioni del Tasso nel suo Discorso sul poema epico, e chiamai lo
scrittore un gran poeta e un mediocre critico. Questo mi tirò addosso una
tempesta. Stefano Cusani, Giambattista Ajello, soprattutto Stanislao Gatti, dal
piglio impertinente e ironico, me ne vollero, quasi avessi profferita una
bestemmia. Non potevo patire che il Tasso chiamasse l’Orlando furioso un
poema senza principio e senza fine, e ci sentivo quella pedanteria che lo
condusse alla Gerusalemme conquistata. La controversia s’infuocò, e finí
con un distinguo, ammettendo io che il Tasso era un critico valoroso secondo
que’ tempi.
In quella varietà ariostesca mostrai che avevano la lor
parte legittima il licenzioso ed il ridicolo, dato sempre quel contenuto e
quella situazione. Notai che quel suo cotal riso a fior di labbra, quasi
volesse prendersi beffe del suo argomento, era una ironia spontanea e incosciente
di tempi adulti, che si rivelò con chiarezza riflessa nel Don Chisciotte.
Notai infine l’inesauribile varietà de’ suoi colori, la limpidezza delle sue
fantasie e delle sue forme, la forza fresca e allegra della produzione. Lessi
la famosa scena della Discordia, l’entrata di Rodomonte in Parigi, la morte di
Zerbino, la pazzia di Orlando, l’andata di Astolfo alla luna, il combattimento
di Biserta, Olimpia e Bireno, Cloridano e Medoro, la morte di Rodomonte. In
queste letture io ero minuto ne’ piú delicati particolari dello stile e della
lingua; e dicevano ch’era un altro, perché pareva che dalle piú alte
contemplazioni scendessi nelle piú umili sfere. La verità è ch’io mi sentivo
sempre il maestro, sempre in contatto co’ discepoli, e in quelle letture m’ingegnavo
d’accostarmi piú a loro, di dir cose che non avevano trovato luogo nelle
lezioni.
Esaminando il contenuto nella Gerusalemme,
m’incontrai nella grossa questione dell’influenza del Cristianesimo sull’arte.
Allora non conoscevo ancora i fanatici panegirici, mescolati con sottigliezze
dottrinarie, di Guglielmo Schlegel, e m’aiutavo da me. Notai il carattere
cosmopolitico, universale, cattolico della nuova religione, che oltrepassava le
nazioni e creava l’umanità; i grandi centri di popoli, che allargavano
l’orizzonte del poema epico; il concetto di fratellanza e di carità, che
aboliva la schiavitú e stringeva in un solo patto tutti i figli di Eva; la
consacrazione del dolore e del sacrificio, come via di redenzione;
l’emancipazione dello spirito dalla materia; l’aspirazione a forme piú elevate
e piú musicali, sino al puro sentimento. Questo fu materia di parecchie
lezioni. E mi ci scaldai tanto che, dovendo padre Juppa, mio discepolo e uomo
serafico per mansuetudine e innocenza di costumi, fare una predica su’
benefizii del Cristianesimo, volli fargliela io medesimo, e riuscí un bello e
dotto panegirico, molto lodato. Mostrai quanta potenza l’idea cristiana ebbe
nello spirito di Dante, e come la Divina Commedia fosse appunto la
storia ideale del Cristianesimo. Da questo desunsi i caratteri del contenuto,
che il Tasso avea scelto per argomento. Ma il Tasso non si obbliò in esso, e
non lo fece suo, come Dante fece nella Divina Commedia, e come fece
l’Ariosto nell’ Orlando furioso. Il Tasso non vi entrò con animo
libero, e portò seco appresso le regole di Aristotile e la voga cavalleresca.
Cresciuto in mezzo a’ retori, che si vantavano critici, volle fare un poema
secondo le regole, e, scegliendo una materia nuova, volle innestarvi la parte
cavalleresca. Voleva in somma conciliare Omero e l’Ariosto, fare un Ariosto
corretto e regolare, piú conforme alle leggi del verisimile e al senso storico.
Fu punito, perché trovò critici piú severi di lui, che accusarono il poema di
scorrezione, e non lo trovarono né omerico, né aristotelico. La parte
cavalleresca fu trovata una intrusione e una dissonanza in argomento sacro, e
si aggiunse che, diminuendo le proporzioni di quella fantastica cavalleria, per
ridurle piú vicine al probabile, immeschiní la materia, senza farla piú
corretta. Cosí avvenne che parecchi gli preposero per regolarità il Trissino,
e, quanto alla cavalleria, l’Ariosto gli rimase al di sopra. E, poiché il suo
spirito partecipava a quella critica ne’ punti fondamentali, dopo vana
resistenza, vi si rassegnò; e, per correggere gli errori del poema, volle
rifarlo di pianta, e scrisse la Gerusalemme conquistata. Il poeta
era scomparso sotto la rigidità del critico. Volendo accostarsi piú al
verosimile e allo storico, guastò la verità poetica, e, correndo dietro
all’ombra di bellezze teologiche, fece olocausto di bellezze profane, ch’erano
la parte piú geniale del poema. Seguendo regole convenzionali, perdette
d’occhio le regole eterne dell’arte. Non corresse, ischeletrí il poema.
Il Tasso era un poeta geniale, di molta immaginazione e
sensibilità, dotato piú di dolcezza che di forza, e altissimo a far sue tutte
le idee cristiane, la cui nozione fondamentale è la carità. Abbattutosi in quel
contenuto cristiano, ebbe poca virtú di trasfondersi in esso e cercare ivi le
sue ispirazioni. Si fece trascinare dalla moda e dalla critica, e, spirito poco
resistente, visse in perpetua lotta tra questi elementi ostili. Volle
sottoporre a modelli omerici un contenuto di natura affatto diversa, e la moda,
tirandolo appresso a’ poeti cavallereschi e tormentandolo con l’immagine rivale
dell’Ariosto, gli velò in parte la novità e la divinità del suo contenuto.
Quando, in età piú matura, volle porvi rimedio, era troppo tardi, e non attinse
del nuovo contenuto che le parti esteriori e accidentali. Nondimeno si deve
alla ispirazione cristiana la parte piú eletta del suo poema: il fatto di
Sofronia, la morte di Clorinda, e un cotal poco anche il suo Tancredi. Lessi
l’episodio di Sofronia, e mostrai l’intima sua commessura col poema, indicando
la vanità di quella rassegna militare a imitazione omerica, ch’egli vi sostituí
nella Gerusalemme conquistata. Notai certi moti psichici, indizio di una
intimità rara nei nostri poeti. Cosí Tancredi prende superbia a vedere in
maggior copia il sangue del suo nemico; Solimano piange alla vista del suo
paggio ucciso; Argante, cominciando il duello, guarda a Gerusalemme caduta.
Anche è notevole una certa serietà di sentimento, quantunque l’espressione sia
rettorica, com’è ne’ lamenti di Tancredi e ne’ furori d’Armida. L’organismo del
poema, come tessitura, è perfetto, e l’ottava, se non ha l’onda melodica del
Poliziano e dell’Ariosto, è però piú nutrita e s’imprime piú facilmente nella
memoria. Nel vezzoso e nel molle non ha eguale, come si vede anche nell’Aminta.
Il suo viaggio alle Isole fortunate è un capolavoro, e le molli lascivie di
que' giardini e di que' palagi magici sono una vera magia di stile. Conchiusi
che il Cristianesimo, nella sua ingenuità e spontaneità, aveva avuto la sua
poesia nel Vangelo; e che quel contenuto, calato in mezzo a un’atmosfera
ostile, impregnata d’indifferenza, di superstizione e d’ipocrisia, sperduto tra
elementi poetici e critici, alieni dalla sua natura, non poté assimilarsi uno
spirito entusiasta e malato, naufrago fra quelle correnti.
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