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Francesco De Sanctis
La giovinezza

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  • Capitolo primo MIA NONNA
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Capitolo primo

MIA NONNA

Ho sessantaquattro anni, e mi ricordo mia nonna come morta pur ieri. Me la ricordo in cucina, vicino al foco, con le mani stese a scaldarsi, accostando un po’ lo scanno, sul quale era seduta. Spesso pregava e diceva il rosario. Aveva quattro figli, due preti e due casati. Uno era in Napoli, teneva scuola di lettere e si chiamava Carlo; gli altri due stavano a Roma esiliati per le faccende del 21, ed erano zio Peppe e zio Pietro, il quarto era papà, che stava a casa e si chiamava Alessandro. Mia nonna era il capo della casa, e teneva la bilancia uguale tra le due famiglie e si faceva ubbidire.

I primogeniti erano Giovannino e Ciccillo, ch’ero io. Si stava allegri, e si faceva il chiasso, correndo per l’orto, e l’inverno riempiendo di allegria i sottani di casa. Molti fanciulli si univano a noi, e si faceva un gran vociare, sotto la guida di Costantino nostro cugino già grandicello e malizioso, che ogni giorno inventava qualche nuovo trastullo. Si giocava alle bocce, alla lotta, alla corsa, al salto sulla schiena, a nascondersi, a gatta cieca. Io nella lotta usava una cotal malizia, che faceva tutto lo sforzo da un lato e chiamava là tutta l’attenzione dell’avversario, e poi d’improvviso urtava dal lato opposto e lo gittava giú. Mi facevano gli occhioni, e non capivano perché cosí mingherlino dovessi vincere. E Costantino, quando si vedeva per terra, si levava tutto rosso e mi dava di gran pugni. Alla corsa poi andavo cosí in furia che non mi giungeva nessuno. Parecchie ore si passavano a scuola, e Pietro Donato che era il maestro e c’insegnava a declinare e coniugare, ci dava le spalmate, e ci prendeva per il collo, quando si voleva scappare. Non c’era dí che non si facesse qualche rottura, e la nonna a correrci dietro, e ci strillava e ci tirava le orecchie. A me voleva un gran bene, perché diceva ch’io non rompeva mai niente, e mi stavo quieto: e in verità innanzi a lei faceva il santo, e naturalmente era tranquillo, e non mi movevo se non mosso dagli altri. “Vedete Ciccillo se rompe mai niente”, diceva stizzita la nonna a Giovannino; e la madre di Giovannino rispondeva: “Gli è che Ciccillo non fa mai niente, e Giovannino fa tanti servizi di casa, Giovannino di qua, Giovannino di là”. Ed era la verità: quando Giovannino metteva la tavola, e rompeva piatti e bottiglie, io me ne stavo in un cantuccio a leggere: facevamo Marta e Maddalena. Nonna e mamma mi volevano bene; ma i compagni che mi vedevano cosí restio, mi chiamavano uno stupido, e Costantino diceva: “Non sa neppure il pane che si mangia”. Mi piaceva piú fare il tric trac o la dama con zio Francesco che correre e vociare con Costantino. Parlavo poco, avevo la faccia malinconica. “Sempre con questo libro in mano”, gridava papà, che era uomo allegro e turbolento e spesso si mescolava coi fanciulli a fare il chiasso.

Tra i miei piccoli amici c’era Michele Lombardi, a cui volevo un gran bene, ed era un nostro vicino figlio d’un contadino. Andavo spesso a visitarlo, e sua mamma Rachele mi faceva trovare la migliazza, e quei cibi grossolani e quelle maniere alla buona mi piacevano assai, e stavo piú volentieri e mi sentiva piú io in mezzo a quella gente tutta alla naturale, che in mezzo ai galantuomini, coi quali dovevo studiare i modi e le parole per non parere un male educato.

A nove anni passò questa vita allegra. La nonna ci condusse a Napoli, me e Giovannino, e ci consegnò a zio Carlo. Lo zio aveva per lei venerazione grande, e la tenne seco due mesi. Nei dí festivi ella ci menava a chiesa, e ci faceva fare le orazioni e sentire la messa. Noi stavamo ginocchioni, con le mani giunte e la testa bassa, pregando accanto a lei. Un dí volsi un po’ la mia testolina e vidi vicino a me un lazzarone, che stava tutto disteso per terra e diceva Avemarie. Non so come mi venne in capo di fare lo stesso, parendomi che quello star cosí disteso fosse segno di maggiore umiltà al cospetto di Dio. E mi posi lungo lungo per terra, con le mani in croce. E mia nonna mi guardò e disse: “Che fai?” “Fo come quello”, diss’io, indicando il lazzarone. “Ma tu devi pregare Iddio da galantuomo e non da lazzarone”, disse ella ridendo. Ed io mi feci tutto rosso, e mi rimisi inginocchio, e non dimenticai piú quel riso soave. Fu l’ultima impressione che mi lasciò mia nonna. Non ricordo altro. Ed ora che mi sta innanzi con quella sua faccia rimpiccinita, rugosa e tranquilla, la vedo che mi ride con quel riso soave.

 

 




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