CANTO II
1.
Sempre che Giove da l'empirio cielo
porgere vuol soccorso al seme
umano,
o vibrar contra quel l'ardente telo
con l'irata, potente e giusta mano,
per levarne da gli occhi il folto
velo
de l'appetito disfrenato e insano,
con varii segni n'ammonisce e
mostra
la mal sicura e torta strada
nostra.
2.
Ché pur
vorrebbe ritirarne al vero
de la mal conosciuta vertú segno:
e, 'nanzi che si scopra crudo e
fiero,
il tutto fa per darne l'arra e
pegno
ch'egli è somma bontá, mite e
sincero,
e che per forza adopra poi lo
sdegno,
quand'aspettato ha lungo tempo e
vede
ch'a li suoi segni non si presta
fede.
3.
E prima che si
mova a far vendetta,
e 'l folgore vibrar ardente e
forte,
a lento passo va, e tarda, e
aspetta
che lasci l'uom del mal le strade
torte;
ma crescer poi veggiendo l'empia
setta
ch'al vizio corre e a sempiterna
morte,
la tarditá col fier martír
compensa,
che quanto tarda piú, piú fier
dispensa.
4.
Ch'innanzi
ch'ei la terra sommergesse
ed annegasse l'uom per rinovarlo,
per mirar le sceleratezze espresse
che si facevan venne a ritrovarlo,
e segni diede, acciò si correggesse
ed ammazzasse il fier, rodente
tarlo
che rode la ragion e ammorba il
core,
e presta al vizio aíta e dá favore:
5.
andò lustrando
Giove in ogni banda
e fu da tutti sempre disprezzato,
onde l'acque mandò con sí miranda
copia che fe' morir il seme ingrato.
Cosí creder si de' che l'ira spanda
a questi dí del mondo in ogni lato:
e fará certo, se l'uom non
s'ammenda,
e da man destra l'erta strada
prenda.
6.
E quando mai
bisogno fu maggiore
del soccorso divino a nostr' aíta?
E quando mai fu 'l mondo in
tant'errore,
com'oggi d'ogni parte, ahimè,
s'addita?
Ecco come di Dio la gloria e onore
nulla oggi cura chi si trova in
vita,
ché 'l men che prezzi l'uomo
ingrato e rio
è 'l divin culto e 'l venerar
Iddio.
7.
I sacri tempii
e li divini altari
con Cristo l'Alemagna a terra
getta:
i santi simulacri singulari
di porr' in fuoco a gara ogni or
s'affretta:
il casto sacerdote vuol che impari
figli nodrir, e moglie a lato
metta:
discioglie e taglia le supreme
voglie,
ch'ancor tiranno non dirrompe o
scioglie.
8.
Quell'ignorante
poi senza dottrina
interpretar la legge al mondo
suole:
d'approvati dottor la disciplina
scherne e le tanto dottrinate
scole.
Un lanio, un fabro, un guattaro in
cucina
illuminar le sacre carte vuole,
e non s'avede il miserel che corre
al vizio sempre, e la vertute
aborre.
9.
D'ogni ora e
d'ogni tempo a voglia loro
mangiar, ber e dormir vogliono
questi:
han sol per fine e ricco lor tesoro
viver disciolti e sol al senso presti:
di sacre mariali il casto coro
cercan stuprar con lor dannati
incesti:
il confessarsi e tòr la penitenza
istima nulla questa rea semenza.
10.
Ciò che
tant'anni e tanto lunga etate
al ben oprar è stato dritta guida,
le sante cerimonie consacrate
col sangue de la fede antica e
fida,
questi mostri, quest'anime dannate
voglion che l'uom disprezzi e se ne
rida,
e segua lor chimere e vani sogni,
né di schernir i santi si vergogni.
11.
E ch'altro fine
cercan questi tali,
se non trovarsi d'ogni legge fòri?
Aver licenza a stender le false ali
a profanate leggi e gravi errori?
Lasciar il freno a tutt'i vizii e
mali,
e le terre levar a i ver signori?
Ma per adesso piú giá non si parli
di questi lupi ed ammorbati tarli.
12.
Or sendo
alquanto riposata quella
che mi cantava quant'udito avete,
riprese la sonora lira e bella,
e 'l canto cominciò com'udirete.
– Turbato è 'l ciel, – mi disse, –
ed ogni stella,
né so come piú Giove omai
s'acquete,
che 'l folgor suo tremendo non
diffonda
ove sí 'l mal ed ogni vizio abonda.
13.
Ma prima vuol
provar se per costei
il mondo può tirarsi a buona via,
ché tanta la vertú sará di lei,
(mercé di Giove), che bastante fia.
Però nel gran consiglio de li dèi
ei disse quanto giá t'ho detto
pria.
Ed or attendi a quanto ti vuo'
dire,
ché l'alta istoria m'udirai
seguire.
14.
I' ti diceva
com'il dio di dèi
al suo divin consiglio dimostrava
essere il mondo pien di vizii rei,
e la gente mortal corrotta e prava:
onde di ciò turbato e 'n ira, ch'ei
voler disfar il mondo menacciava,
facendo come giá sdegnato fece
quand'in Grecia i giganti ruppe e
sfece.
15.
Ma sperando che
questa verginella
a' vizii debbia por la mèta e 'l
freno,
vuol che sia saggia quant'è onesta
e bella,
col petto d'ogni grazia colmo e
pieno;
ond'il suo sacro concistoro
appella,
acciò che dica quanto porta in
seno,
mostrando di decreti l'alma legge,
con cui conserva il mondo e ogni or
lo regge.
16.
Del sommo Giove
al dir tutti prestaro
i dèi del ciel benigno assenso
allora,
ed il fatal decreto commendaro,
con desir aspettando il tempo e
l'ora
che con sí bella figlia a paro a
paro
del carcer la vertú venisse fòra,
e si levasse con le Grazie a volo
lasciando il vizio in sempiterno
duolo.
17.
Onde a Mercurio Giove rivoltato
con quella maiestá che 'l tutto
frena,
«Figliuol mio,» disse, «il carco a
te fia dato
che questa nasca d'ogni grazia
piena:
questa di cui nel ciel giá s'è
fermato
che levi il mondo fòr d'affanno e
pena».
E poi gl'impose ciò ch'a far avea
nel nascer de la nova e bella dea.
18.
Cillenio allor,
per ubedir il padre,
si pose a i piedi le bell'ali
d'oro,
con cui ne l'aria le fumose ed adre
nubi sovente giá spezzate fôro:
e poi le bionde chiome sue
leggiadre
d'un capèl copre di sottil lavoro,
la verga tol che 'l sonno apporta e
cose
fa sovvra il corso uman
meravigliose.
19.
Con quella
l'alme da l'inferno toglie,
l'alme pallenti, e le ritorna al
cielo:
altre poi manda fra l'eterne
doglie,
ove si sente ogni or e caldo e
gielo:
con quella i venti move, frena e
scioglie,
e de le nubi rompe il folto velo
e l'aria rade liquido e soave,
né di contrasto si sgomenta o pave.
20.
Cosí volando
cala, e d'Apennino
scorse il piú grande ed eminente
corno
che sovvra tutti un sasso duro e
alpino
copriva con gran boschi attorno
attorno.
E 'l capo d'atre nubi cinto un pino
ombrava, e un faggio, un'elce, un
cerro e un orno,
e su le spalle molte selve avea,
che quinci e quindi il vento ogni
or scuotea.
21.
L'ispida barba
il mento li copriva,
di dure pietre tutta folta e piena,
l'aperta bocca dava d'acqua viva
fiumi correnti con perpetua vena:
quivi di Maia il figlio, com'arriva,
il lungo volo a poco a poco frena,
e da la cima il bel paese vede
ove Gazuolo in riva d'Oglio siede.
22.
Indi si leva a
volo e com'augello,
che presso 'l lito o tra piscosi
scogli
vicino a l'acque porta il corpo
snello,
per tòr il pesce al fondo de li
scogli,
ne vien Mercurio tutt'ardito e
bello,
frenando al vento gli aspri e duri
orgogli,
e tra la terra e l'aria il mezzo
rade,
poi su Gazuolo lievemente cade.
23.
Cosí veduto il
bel castello altiero,
ove nascer devea la cara figlia,
il passo verso quel tutto liggiero,
a mortal occhio non visibil,
piglia:
e giunto al ricco limitar primiero,
in gioia trova tutta la famiglia,
che di madonna aspetta il partorire
ch'or tutto 'l mondo fa di sé
gioire.
24.
Era del giorno
giunta l'ultim'ora,
quando Febo s'attuffa e 'l dí
s'annera:
allor Mercurio senza far dimora
innanzi al bel castello posto
s'era;
ma fin ch'appaia 'l sol dopo
l'aurora,
(tempo che nasca l'alma figlia
altiera),
giva facendo molte sante cose,
ch'a voi mortali sono in tutto
ascose.
25.
Avea Cillenio
seco assai liquori
che d'erbe sono, còlte a piena
luna,
e di vermigli, azurri e gialli
fiori
il caro suco mastramente aduna.
Né vi mancaro quanti buoni odori
possa il Sabeo mandar da parte
alcuna,
ed altre cose assai portate avea,
ch'al parto levan l'aspra doglia e
rea.
26.
Ch'era fermato
in l'alto concistoro
ogni doglia levar nel partorire,
ed a la madre tal donar ristoro
che noia allor non soffra né
martíre.
Onde trovate da Mercurio fôro
le cose ad opra tal stupende e
mire,
odori, unguenti, suchi, pietre ed
erbe,
u' vuol il ciel che tal vertú si
serbe.
27.
Or qui mi par
lasciar Mercurio alquanto,
ché tosto a lui col dir farò
ritorno,
ch'io penso ben ch'aspetti che 'l
mio canto
volga al signor del bel Gazuolo
adorno.
Tu brami udir chi sian cui si dá
vanto
aver il mondo di tal figlia adorno,
e parmi il tuo disir ch'al giusto
quadre,
di quella il padre udir, udir la
madre.
28.
Ché l'uno e
l'altro a par de gli occhi tuoi
amasti, mentre in vita dimoraro,
e riverisci ogni or ed ami, poi
che di lor alme il terzo ciel
ornaro;
ché Venere tra tutti i servi suoi
forse non ebbe in terra un altro
paro,
che fiamma marital sí dolce ardesse,
come costor che fur le fiamme
istesse.
29.
T'amâr anco
egli e caro t'ebber sempre,
e prima e poi che fur congiunti
insieme,
ché tu per far che l'un de l'altro
tempre
sí dolce ardor e fiamme
tant'estreme,
allor che par che l'aria il mondo
stempre,
quando la terra sotto 'l Sirio
geme,
a tesser cominciasti il caro nodo
che poi fu sempre cosí stretto e
sodo.
30.
Fu Pirro di
Gonzaga il padre ch'io
or dir ti vuo', che generò costei.
Ch'acceso d'un ardor, d'ogn'altro,
oblio
ebbe mai sempre, e ricordar ten
déi.
Che per temprar l'ardente suo disio
consigliasti che fesse gli imenei
con la gientil Camilla Bentivoglia,
che per questi d'ogn'altro amor si
spoglia.
31.
Ma ritornando a
ciò che dir volea,
il padre canterò col ceppo antico
di questa bella de le donne dèa,
che con le stelle il ciel ha
tant'amico.
Fêr suoi maggiori come fece Enea,
che, per fuggir il greco suo
nemico,
nuovo regno cercò, nuovo paese,
e sovvra il Tebro la sua stanza
prese.
32.
Da la Cimbrica
Chersoneso ch'ora
Dacia si chiama, o Dania, come
vuoi,
partí dolente un giovanetto allora,
seco portando li tesori suoi,
ché Carlo lo cacciò del regno fòra,
Carlo che magno nominate voi,
e, l'ocean Germanico lasciato,
venne in Italia a prender nuovo
stato.
33.
Ei d'una bella
ninfa del paese,
lá presso l'ocean giá detto,
nacque,
ninfa che Marte d'alto amor accese
sí ch'egli seco sovra 'l lito
giacque:
indi si diede a bellicose imprese:
tanto l'arme vestir a quelli
piacque
ch'altro non fea, la notte e tutto
'l giorno,
che tra le spade e trombe far
soggiorno.
34.
In la Sassonia
il giovane decoro
piú volte fe' meravigliose prove,
ed in Norvegia conosciute fôro
di lui le forze inusitate e nove;
onde mertò di trïonfale alloro
le chiome ornar in ogni luoco, dove
uopo li fu con mano e col consiglio
romper nemici, antiveder periglio.
35.
Egli sí forte e
di tal nerbo fue
che ben mostrò di Marte esser
figliuolo.
Un indomito toro, un grande bue
gettava in terra al suon d'un pugno
solo:
qual piú gagliardo fosse, a l'una o
due
scosse, stendeva su l'erboso suolo,
e nel corso maggior d'ogni cavallo
posta la man nel crin facea
fermallo.
36.
Ma Fortuna, che
spesso cangia stile,
Italia volle ornar di tanta prole,
che d'Austro a Borea, dal mar Indo
a Tile,
è de le prime che rimiri il sole:
e fe' ch'ardito il giovane e
virile,
per aggrandir il regno, come suole
ogni animoso cor armato fare,
cominciò Carlo in campo a
contrastare.
37.
Al fin da Carlo
superato e vinto,
venne in Italia e sovvra 'l Mencio
stette,
ove per non lasciar il nome
estinto,
in mezzo a le campagne e selve
elette,
di mura un nuovo e vago luoco
cinto,
ch'a gli abitanti approdi e ancor
dilette,
nel fertile, gientil e aprico suolo
fondò il famoso e bello Marmiruolo.
38.
E de la stirpe
de l'antica Manto
una ninfa per moglie quivi prese,
e con l'arme e figliuoli ei fece
tanto,
che si fe' donno quasi del paese:
indi passato 'l Po, ne l'altro canto
a far un nuovo e bel castello
attese,
e di sua gente il nome sí l'appaga,
che lo chiamò la terra di Gonzaga.
39.
Per lungo
spazio dopo lui successe
l'onorato suo seme in quelle bande,
cui valor e le prodezze espresse
la chiara fama in ogni parte
spande.
Ma chi cantar il tutto ti volesse,
fatica avrebbe faticosa e grande:
tante fur l'opre glorïose e tali,
che le memorie ancor sono
immortali.
40.
E ben mostraro
che dal fiero Marte
sceser per dritto e nobile
legnaggio,
perché d'Europa non v'è luoco o
parte
u' del valor non mostrino paraggio.
Ma ne l'Italia son piú chiare e
sparte
l'opre di questo sangue altiero e
saggio,
che mastri fur di guerra singulari,
prodi e prudenti, sempre invitti e
rari.
41.
Al fin Luigi
col famoso coro
de gli onorati figli pose il freno
a' suoi nemici, e fe' del sangue
loro
correr il Mencio sanguinoso e
pieno.
E diede a' mantovani tal ristoro,
ch'ogni discordia in lor venir fe'
meno,
ch'ivi lo scettro senza lite tenne,
e la cittá con pace ogni or
mantenne.
42.
Indi egli e
suoi figliuoli e li nipoti
crebber l'imperio d'ognintorno ogni
ora,
e furon da vicini e da remoti
temuti, amati e riveriti ancora.
Sallo Ferrara cui fur gravi e noti,
sallo Cremona che si lagna e plora.
Ebber di Reggio e molte terre
appresso
lo scettro a lor da i cittadin
commesso.
43.
Cosí l'eccelsa
stirpe di Gonzaga
fu con le grandi de l'Europa unita,
onde la fama che d'intorno vaga,
la prima fra le prime quella
addita.
Ma dove 'l Mencio i grassi campi
allaga,
si vede piú famosa e piú gradita:
e mentre il corso suo fará lo sole,
che chiara sempre regni Giove
vuole.
44.
E da sí degno e
glorïoso seme
nacquero grandi ed infiniti eroi,
che dier al mondo sí vivace speme
di restar sempre eterni qui fra
voi,
che per l'opre di guerra alte e
supreme
dal Carro a l'Austro e da Calpe a
gli Eoi
son chiari sí ch'ancor il nome
dura,
cui non fa morte o 'l tempo mai
paura.
45.
I' ti potrei nomar
mille Feltrini,
Gioan, Franceschi, Caroli e
Gualtieri,
Guidi, Alessandri, Corradi e
Ugolini,
Annibali, Federighi e Ranieri,
Ferrandi, Galeazzi e Filippini,
Marchi, Guglielmi, Gentili e
Roteri,
Giacomi, Giulii, Ippoliti e
Odoardi,
Cesari, Orlandi, Gismondi e
Ricardi.
46.
Ché tanti fòr
di quell'ordigno strano
ch'arse poi Troia non uscîr baroni,
quanti 'l buon sangue Gonzaghesco e
umano
ha dato al mondo e vuol il ciel che
doni;
che saggi di consiglio e son di
mano
forti, veloci, prodi, arditi e
buoni;
ma chi volesse quanti furon dire,
non si vedrebbe al fine mai venire.
47.
E dir l'imprese
ti potrei che fêro
in l'Africa, in l'Europa ed altre
parti,
come ne l'armi fu ciascun sí fiero,
ch'Ercoli tutti fur stimati e
Marti:
e quanto fur graditi da l'impero
per l'alte imprese bellicose ed
arti,
e quanti giá ne furon tra costoro
di palma coronati e verde alloro.
48.
Si vide
Galeazzo altiero e forte
piú volte nel duello farsi onore,
ché tanti e tanti ne condusse a morte,
ei sempre di periglio in tutto
fòre.
Bucicalo tentò provar sua sorte
contra costui, ma vinto al fin ne
more,
ché fu da Galeazzo su la guerra
a pugna singular tratto per terra.
49.
E quante rocche
con armata mano
preser Gonzaghi e insieme le
cittati!
Piú volte in largo ed or in stretto
piano
fur lor nemici rotti e dissipati,
né questo de' parer ad altri
strano,
sendo da Marte in prima generati;
ché se i trïonfi lor ti vuo'
cantare
uopo sarebbe novo canto fare.
50.
Ti dirò quando
i Vescontei Colubri
cinser d'armati a Mantova le mura,
che v'era tutta Italia con
gl'Insubri
a far la guerra perigliosa e dura.
Saldi i Gonzaghi stero, onde
lugubri
nemici si partiro con paura,
e per terra e per acqua fur
cacciati,
e' mantovani in tutto liberati.
51.
Da l'insegna e'
Gonzaghi allor levaro
la Vipera che prima amavan tanto,
e co i signor vicin si collegaro,
per dar al fier Biscion tormento e
pianto.
Cosí molt'anni lieti dimoraro,
e fêr piú bell'ogni or la dotta
Manto;
ma di lor molti per adesso i'
passo,
ed assai cose glorïose i' lasso.
52.
Gian Francesco
vi fu che mertò prima
con titol di marchese esser
signore,
e fu di tanto pregio e tanta stima
che tutt'Italia li fe' sempre
onore,
e da nemici l'alta spoglia opima
s'acquistò con prudenza e con
valore,
e vide sempre la sua fida terra
in pace starsi priva d'ogni guerra.
53.
Ed a sí alto
grado il ciel sortillo
per la vertú che 'n lui l'albergo
avea,
ch'a questi in cura il primo suo
vesillo
Vinegia dè, del mar potente dèa;
da quella invidia altrui poi
dipartillo,
che sí grande vederlo non volea;
ma la vertú non teme alcun terrore,
ché sempr'è salda e sol produce
onore.
54.
Lodovico dapoi
lo scettro tenne,
che di giusticia fu novo Aristíde,
e sí quïeto il Mencio ogni or
mantenne
ch'odio o discordia mai non vi si
vide.
Quivi l'Europa al gran concilio
venne
con Pio pastor, che sempre par che
gride:
– Ite soperbi, o miseri cristiani,
che 'l sepolcro di Cristo è 'n man
di cani. –
55.
Fece ogni cosa
il vero pastor Pio,
per che s'unisse tutt'Europa
insieme
a prender l'arme contra il popol
rio,
da cui la terra santa ogni or si
preme.
Ma fin lodato cosí buon disio
aver non puote, ond'or sospira e
geme
il cristianesmo tutto in Orïente,
che lacerar, schernir da i can si
sente.
56.
Voleva Pio
pastor passar il mare,
e por la mitra a rischio e la
persona.
E cominciato avea giá caminare,
bramoso di compir tant'opra buona.
Seco vedevi tutt'Europa andare,
e giá tremava il Cairo e Babilona,
quando da febre il pastor assalito
morí d'Ancona su l'ondoso lito.
57.
Tant'era il
buon disir di far l'impresa,
per liberar di Cristo u' nacque il
nido,
ch'essendo quasi morto, ancor
l'accesa
mente spignea la voce al santo
grido.
– Figliuoi, – dicea, – com'ho
quest' alma resa,
che vola a quel Signor in cui mi
fido,
andate a ritrovar il re Corvino,
che sempr'è stato a' turchi aspro
vicino. –
58.
Era Mattia
Corvino allor armato,
e da sé lunge i turchi discacciava,
né palmo di terren gli era levato,
sí fieramente il regno difensava.
Tenea Belgrado e l'Istro sí
guardato
che lá d'intorno turco non
trescava:
or quasi è turco tutto quello
regno,
e giá su l'Austria il turco fa
dissegno.
59.
E chi devrebbe
porvi e cor e mano
par che non curi la roina espressa.
Si vede l'Ongaria a brano a brano
a dura servitú star sottomessa.
Piú si rinforza e s'erge l'otomano,
e verso Italia quanto può
s'appressa.
Ov'arde il fuoco alcun l'acqua non
getta,
u' non bisogna par ch'ogni un si
metta.
60.
Che fai, sacro
di Roma imperatore?
Usar qui ti bisogna diligenza.
Odi la furia, ascolta il gran
romore,
che fa di Sciti la mala semenza:
ha giá ne l'Ongaria fermato il
core,
e poca se le scopre resistenza,
nessun di Paulo terzo ode la voce,
che su Monte Sion vuol por la
croce.
61.
Ben s'affatica
il gran pastor e vuole
unir l'Europa e conservar la fede;
ma getta al vento tutte le parole,
ché nessun move a tant'impresa il
piede.
Il gran gallico re si lagna e duole
che, sendo di Milano il vero erede,
convenevol li par aver di prima
l'ereditá d'Insubria grassa e
opima:
62.
e che di Franza
la real corona
è spada e scudo a la romana chiesa,
che i reggi Galli andarono in
persona
a Roma armati sol per sua difesa,
e che la fama ancor per tutto suona
aver il Gallo terra santa presa,
n'a la fede di Cristo mai mancato,
quando bisogno di soccorso è stato.
63.
Cosí far
s'offre e presto si ritrova,
pur ch'abbia ciò che de', non
altrimenti.
L'imperator non vuol che si rimova
l'augel di Giove da l'insubre
genti;
onde far pace indarno il pastor
prova,
e insieme unir le cristïane menti:
e l'eresie in questo mezzo vanno
crescendo d'ora in ora a commun danno.
64.
Né per tanto
devrebbe il cristïano
lasciato il buon camin pigliar la
strada
che par sí piana, u' corre il
luterano
e vuol che seco tutto 'l mondo
vada.
Ben Cristo vi porrá un dí la mano,
vibrando la crudel fulminea spada,
com'altre volte apertamente ha
fatto,
che tanti eresiarchi ha giá
disfatto.
65.
Né sol i capi
di sí falsi errori
fará morir con morti orrende e
crude,
ma pèsti manderá, guerre e terrori,
con quanti morbi l'atro inferno
chiude.
E tanti ne trarrá del mondo fòri,
che fian deserte le cittati e
ignude,
e forse co l'ardente e vivo fuoco
di mortali fará l'ultimo gioco.
66.
Ma dove mi
trasporta il buon disire
ch'ho di veder fedeli tutti
insieme,
e pace tra' cristiani attorno gire,
spargendo di concordia il vero
seme?
Non piú di questo, ch'io ti vuo'
seguire
tutto ciò che nel petto ancor mi
preme,
per dir de li Gonzaghi altieri e
illustri,
che son famosi giá cotanti lustri.
67.
Lodovico morí,
a cui succede
il magnanimo primo Federico,
non sol del stato universal erede,
ma del valor e di vertute amico:
egli a l'Italia il nuovo Marte
diede,
che può paragonarsi ad ogni antico,
con l'opre di milizia sí mirande
che tra li grandi il primo fu piú
grande.
68.
Dico Francesco
glorïoso e invitto,
che 'n pace Giove fu, fu Marte in
guerra,
i cui trofei il Carmelita ha
scritto,
e lo tien vivo ancor che sia
sotterra.
E se 'l maligno morbo per despitto
al fin oppresso nol teneva in
terra,
tant'era umano, saggio e sí robusto
ch'era un Scipio, un Cesar ed uno
Augusto.
69.
Ei de l'Italia
in ogni luoco e parte
chiari segni lasciò del suo valore.
Son le sue glorie largamente
sparte,
ove nasce il Sebeto ed ove more:
le sente il Tarro che l'ingegno e
l'arte
di lui conobbe con sí grand'onore,
l'Arno, il Tesino e 'l Po tutti lo
sanno,
che molte volte liberò d'affanno.
70.
Ma chi volesse
dir i suoi trofei,
del mar l'arena annoverar potrebbe:
ed io di lui cantar non saperei
quanto al suo gran valor si
converrebbe.
Ché s'io sapessi dir quanto devrei,
in colmo d'ogni gloria ei si
vedrebbe,
che fu sí liberal, largo e cortese,
ch'a par d'ogn'alto re donò e
spese.
71.
De le sue lode
ed opre militari
tu giá facesti lungo e vero tema:
ivi dimostri gli atti singulari
degni d'Omero e di maggior poema,
ch'or son sí noti, sí famosi e
chiari,
com'è la sua vertú chiara e
suprema;
ché meritò per l'alto suo valore
quanto possa mertar un uom onore.
72.
Successe a questi
il generoso figlio,
Federico secondo, che si vede
giovanetto con mano e con consiglio
tener sicura la romana sede,
ed armato serbar da gran periglio
la terra ch'al Tesin vicina siede,
ed or gioioso si riposa e vive
del chiaro Mencio su le verdi rive.
73.
Tu de' saper
com'egli il primo è stato
che l'onorato titolo di Duce
fra' suoi per sol vertú s'ha giá
acquistato,
sí presso Carlo il suo valor
riluce.
E con prudenzia tanto s'è
ingegnato,
che 'l Monferrato seco ancor
adduce,
e tant'è chiara la sua fede e ferma
che 'n cima a l'alto Olimpo ella si
ferma.
74.
Ah se sapeva
moderar il fuoco,
che fòr di modo gli arse il cor e
'l petto,
aveva fra' lodati il primo luoco,
tal fu 'l principio a farsi il piú
perfetto;
ma sí piace d'Amor il dolce gioco
che di rar si può far a lui
disdetto,
onde lasciò Gradivo e Amor seguío
e pose, fòr che quel, tutto in
oblio.
75.
Evvi Ferrando
di Fedrico frate,
noto fra l'arme ed onorato tanto
che son l'opre di lui per lor
lodate,
senza l'aíta di poema o canto.
Di quant'imprese a questi Carlo ha
date,
de la vittoria avuto ha sempre il
vanto,
ch'or di Ciclopi l'isola corregge,
e quella come re governa e regge.
76.
E perché d'arme
sol fin qui t'ho detto,
vi son de gli altri senza l'arme
ancora,
ch'a gloria ed a vertú dieron
ricetto,
onde la schiatta ogni or s'esalta e
onora:
di Lodovico un d'i figliuoli eletto
fu cardinal de l'alma chiesa,
allora
che 'l buon pastor di Roma Pio
senese
a far l'armata contra turchi
attese.
77.
Questi Bologna
e 'l fertile Piceno
serbò da fier tumulti assai
sovente,
e sí facondo fu, fu sí ripieno
d'un grave ragionar dolce e
prudente,
che l'ira a molti spesso venir meno
fe' nel maggior furor, nel piú
fervente,
e se morte sí tosto nol rapiva,
la gran mitra a gli augei di Giove
univa.
78.
Poi quando
sotto sé mantenne Roma
il ligure pastor Giulio secondo,
col purpureo capèl la sacra chioma
adornò del benigno e uman Gismondo,
che sí gientil ancor tra voi si
noma,
e liberal, magnanimo e giocondo,
d'i dotti e de le Muse sempre
amico,
a Francesco fratel, figlio a
Fedrico.
79.
Vi fu di
Lodovico, ch'oggi vive,
Pirro figliuol ch'adolescente
ancora
per la dottrina rara e doti dive
di capèl rosso il gran Clemente
onora;
ma volse il ciel che 'l mondo se ne
prive,
ché giovanetto uscí di vita fòra;
ché s'ei quanto devea in vita
stava,
di grazia e di bontá tutti
avanzava.
80.
Tu ne volasti
al ciel, gientil signore,
che cinque lustri ancor non trapassavi;
ma tal la tua vertú, tal fu 'l
valore,
che di piú vecchi il saper
aguagliavi.
Troncar la morte non pensava il
fiore
de gli anni giovenil, ma di piú
gravi:
tenne per l'opre che tu fussi
antico,
onde ti morse col suo dente ostico.
81.
Perché non vivi
e miri la cugina,
albergo d'ogni grazia e di
bellezza,
questa ch'io canto che si può reina
d'ogni beltá chiamar, d'ogni
vaghezza?
Vedresti quella parte in lei
divina,
che tanto 'l mondo in ogni donna
apprezza,
unita star bellezza e castitate,
la piú bella e piú casta d'ogni
etate.
82.
Or vive
cardinal quel signorile
Ercole saggio de la cui vertute
non basta a dir e l'uno e l'altro
stile,
ché 'n ciò le lingue tutte fôran
mute.
Intrepido si vede e sí virile
che non v'è forza che dal ver lo
mute:
dotto i dotti ama, a quelli dá
ricetto,
sincero, liberal, benigno e
schietto.
83.
Mille donne
cantar potrei, ch'usciro
da questa stirpe e glorïosa
schiatta,
e quelle dir che seco poi s'uniro
per fede marital sí casta e intatta.
Direi di quella che cotanto ammiro,
che per esempio di vertú fu fatta:
dico Isabella Estense al mondo
tale,
che sará sempre chiara ed
immortale.
84.
Ma troppo lungo
il mio cantar sarebbe,
se raccontarle tutte bisognasse,
e ciò che dir ti vuo' non si
direbbe,
se la mia nave questo mar solcasse.
Cantar mi basti dove origine ebbe
questa onde 'l mondo ogni or piú
bello fasse,
questa che Giove fe' venir in
terra,
per darle pace e tòrle noia e
guerra.
85.
Da questa
adunque stirpe eccelsa e magna,
del primo Lodovico un figlio venne,
che dove l'Oglio il bel Gazuolo
bagna,
molti anni il seggio altieramente
tenne,
e con la moglie fida sua compagna
di molti figli padre vi divenne;
tra' quali è stato il generoso
Pirro,
giovane bel col nero e crespo
cirro.
86.
A l'arme si dè
questi da fanciullo
col fratel Federico sí nomato,
ed era suo diletto e suo trastullo
al caldo, al freddo sempr'andar
armato;
e tra le squadre armate mai fu
nullo
ch'innanzi li corresse, ch'egli a
lato,
anzi piú tosto innanzi, non vi
fusse:
e prede spesso da i nemici addusse.
87.
Quando crollata
poi da l'auree Palle
perdé la Quercia nel Picen le
ghiande,
e che ciascuno le volgea le spalle
per tema del Lione in quelle bande,
in casa Pirro ricco albergo dálle,
e le ricchezze a mantenerla spande:
e tenne questo stile mesi ed anni,
perché la Quercia non sentisse
affanni.
88.
E quando per
tornar nel bel Piceno
aperse quella i conquassati rami,
non si vide venir mai Pirro meno,
né ch'a sé quella con pregar lo
chiami;
ché sempre piú di fé, d'amor piú
pieno,
par ch'altro piú non curi o prezzi
o brami
ch'a rischio por per lei la propria
vita,
e darle di danari e gienti aíta.
89.
Egli vi corse e
di ben scielta giente
piú d'una torma vi condusse armata,
ed a quanto si fe' sempre presente
trovossi, col consiglio e con la
spata.
E sí s'adoperò ch'ancor si sente
la fama sua vagar molto onorata,
che del sangue nemico il bel
Metauro
fe' rosseggiar e intorbidar l'Isauro.
90.
E quando
Maldonato fra gl'Iberi
di segreto s'uní col rosso Giglio,
Pirro piú volte in que' tumulti
fieri
non ischivò fatica né periglio:
tutte le notti, per aver li veri
indíci del perverso lor consiglio,
armato e desto per la pioggia e
vento
ad ogni moto se ne stava attento.
91.
Onde non molto
ste' che discoperse
del traditor ispan l'infida mente,
ed a Fedrico nel secreto aperse
il tradimento ordito occultamente.
Federico le genti sue disperse
insieme radunò in un repente,
e fe' cosí col mercenario ispano
che 'l traditor occise di sua mano.
92.
Ma di Fedrico,
che ti posso dire
che non si veggia ogni or piú
chiaro e aperto?
Ché s'io volessi e' fatti suoi
seguire,
l'alto valor e 'l glorïoso merto,
quanto piú ne dicessi, piú ridire
forza mi fôra, sí fu saggio e
esperto:
e fu di fede un ampio e cupo mare,
gentil, cortese e molto largo al
dare.
93.
Che ti dirò da
poi del lor nipote
Aloise, chiamato Rodamonte?
Questi di forze tanto valse e puote
che con Alcide stato fôra a fronte:
se poi cantava versi in dolci note,
fra le Muse sedeva in cima al
monte:
fu sacro a Febo, fu compagno a
Marte,
come fan fede i gesti e dotte
carte.
94.
E quando Roma
andò tutta sossopra,
che sparse le sacre ossa il vil
marrano,
e 'l tedesco infedel seco s'adopra
gettar relliquie in mezzo del
pantano,
il buon Luigi fe' quella bell'opra
che del fango le colse con sua
mano,
e presentolle al primo gran
pastore,
per ritornarle al lor antico onore.
95.
Ma quanti
gentiluomini riscosse
da' perfidi e crudeli luterani?
Col corpo e con la mente
affaticosse
per temprar il furor di que'
profani:
da sacre verginelle spesso mosse
le scelerate di que' ladri mani;
e con l'opre de la vita e de l'oro
a molti impregionati dè ristoro.
96.
Ché si vider
cattivi i sacerdoti,
e vïolate l'alme verginelle.
Dentro le chiese e luoghi piú
divoti
stavan le putte e genti a Dio
rubelle:
si vedevano i sacri vasi voti,
e le relliquie sparse queste e
quelle,
e di Pietro e di Paulo le sant'ossa
col letame marcir in tetra fossa.
97.
E 'l gran
pastor vicario pur di Cristo
prigion fu fatto da tedeschi e
ispani.
E tu 'l vedi e sopporti, o Giesu
Cristo,
che faccian questo i falsi
cristïani?
Ma spero pur ch'al fin e tosto
Cristo
in preda a' lupi mandi questi cani,
e tal ne faccia strazio orrendo e
strano,
che straziar si vedranno a brano a
brano.
98.
Chi non vide in
que' dí quella roina,
che molti dí durò senza pietate,
cosa non vide mai di piú rapina,
di piú furor, d'estrema crudeltate.
Piú si sprezzava, quanto piú divina
era una cosa; ahi genti scelerate,
genti ribalde, infide e disoneste,
sempre al mal far audaci, pronte e
preste!
99.
Vi fu tra quel
nemico di Dio stuolo
un sacrilego sí e tanto ardito,
non so se fu tedesco o pur
spagnuolo,
ch'avendo un tabernacolo ghermito,
l'ostia divina sparse sovvra il
suolo,
ch'era di sangue umano intepidito
e per rubar un po' d'argento, o
Dio,
fece l'effetto scelerato e rio.
100.
Sacro Tevere,
tu 'l vedesti allora
che piú sangue portasti ch'acqua al
mare:
né so come potesti far dimora
tra que' mostri crudeli senza pare,
come di Roma non uscisti fòra
o non cercasti al fonte ritornare?
o non gonfiasti d'acqua tanto pieno
ch'al mar portassi que' ribaldi in
seno?
101.
Ma chi volesse
dir gli opprobrii fatti
in quell'orrendo caso a Cristo e
santi,
e su gli altari gl'incestati patti,
i sacrilegii sí nefandi e tanti,
non trovarebbe il fin di tai
misfatti,
di ch'anco par che 'l luteran si
vanti:
basta che 'l buon Luigi quanto
puote
raccolse le relliquie piú divote.
102.
Per questo il
gran pastor e per l'aíta
che 'l buon Fedrico a l'alma chiesa
diede,
il frate di Luigi allora invita
e tra li cardinali vi dá sede.
Lascio Francesco di cui la gradita
bellezza in terra senza par si
vede,
Francesco, che Cagnin chiamate voi,
ed altri passo Gonzagheschi eroi.
103.
Or se cantar ti
vuo' di Pirro quanto
ei fece in questa e 'n quella parte
ancora,
al fin non ne verrei con questo
canto,
e mi mancrebbe a raccontarlo l'ora.
Basti per or averne udito tanto,
ché di questo parlar uscir vuo'
fòra,
e dirti come prese poi per moglie
la bella de le belle Bentivoglie.
104.
Lasciam de li
Gonzaghi dunque il dire,
di cui la fama è chiara com'il
sole,
e piú che mai si vede oggi fiorire,
ov'ondeggiar il Mencio ed Oglio
suole:
e su 'l Tartaro ancor si fa sentire
e dove 'l Po Luzara bagna e cole:
di cui non parlo qui, ché i' vuo'
cantare
la bella Bentivoglia singulare.
105.
A piè de
l'Apennin, lá dove il Reno
da la Romagna parte Lombardia,
siede Bologna col paese ameno,
come qual altro in tutt'Italia sia.
Di questa moderò l'altiero freno,
or con gagliarda mano ed or con
pia,
molti e molti anni sempre signorile
il sangue Bentivoglio alto e
gientile.
106.
Né scopre tanti
fior Aprile o Maggio,
quanti uomini famosi ed onorati
usciti son di questo buon legnaggio
per arme e per vertute celebrati.
Che certo fur d'Italia un chiaro
raggio,
mentr'ella tenne i figli suoi
pregiati,
che poi che gente strana il piè vi
pose,
a tutt'Italia il chiaro sol
s'ascose.
107.
Ma d'Alessandro
sí famoso e chiaro,
ch'un specchio di bontá nel mondo
visse,
come tacer potrò, e seco a paro
quella che mai non ebbe con lui
risse,
Ippolita che fu perfetto e raro
segno di quanto mai poeta scrisse,
di grazia, di beltá, d'ogni valore,
di' tempi suoi la gloria e ver onore?
108.
Questi la casa
Bentivoglia ogni ora
alzâr con cortesie fin a le stelle,
ed in Bologna e poi ch'usciro fòra
mantenner sempre l'opre oneste e
belle,
e tant'amati fur che s'ode ancora
gridar le ninfe e 'l Reno ogni or
con quelle:
– Perché, coppia gientil, non sei
qui meco,
ch'ogni mia pompa, ahimè, portasti
teco?
109.
La pompa tu
portasti e 'l vero onore,
e di questa cittá la gloria e 'l
pregio.
Era Bologna allor un giglio e un
fiore
odorifer, gientil, vago e egregio,
e tal con l'opre belle dava odore,
e di vertú mostrava sí bel fregio,
che col nome di Bentivogli al cielo
s'alzava qual ben dritto ed alto
stelo. –
110.
Di questo
sangue generoso e altiero,
che quivi il freno lungamente
tenne,
e se si cerca chiaramente il vero,
da l'alta Roma vecchiamente venne,
Camilla fu, che 'l nostro
cavaliero,
mentr'ella visse, donna sua
mantenne,
di cui le fiamme ed i cocenti
ardori
arser di par mai sempre ambi i lor
cori.
111.
Annibal Bentivoglio
le fu padre,
uomo ne l'armi chiaro e glorïoso,
le fu Lucrezia Estense cara madre,
figlia d'Alcide, il duca sí famoso.
Di questa coppia l'opere leggiadre
chi dir vorrá, sará presontüoso,
perché cantate fur in ripa al Reno
con stil sonoro e di dolcezza
pieno.
112.
Ma com'a te
narrar vuo' queste cose,
che 'l tutto apertamente hai visto
e sai?
Or quante volte Pirro ti propose
istoria lunga di suoi duri guai?
Quante, del Mencio su le rive
ombrose
con lagrime infinite ed aspri lai
t'aperse il cor e ti mostrò ben
chiaro,
com'era il suo dolor penace e
amaro?
113.
Né questo fu
perché Camilla bella
lui non amasse quanto conveniva,
ma ritrosetta alquanto e a lui
rubella,
di dentro ardendo, fòre si
scopriva.
Ed egli giorno e notte: – O dura
stella! –
piagnea gridando, e di dolor
moriva.
Al fin con nodo marital e santo
uscí di doglia ed amoroso pianto.
114.
Di lui qui
taccio e taccio ancor di lei,
ch'egli fu chiaro, mentre visse,
assai.
Né fa mestier che con li versi miei
scopra di sua bontá gli ardenti
rai;
ché tanto dir di quello non potrei,
che da dir non restasse sempre mai:
di lei medemamente non vuo' dire,
che quanto merta non saprei
seguire.
115.
Chi non ha
visto la Camilla bella,
mentre fu viva sí leggiadra e
chiara,
nulla conobbe, ch'ella fu sí bella
come mai fosse donna bella e
chiara,
e sempre si mantenne onesta e
bella,
gientil, costante, vaga, saggia e
chiara;
ma, come poi dirò, tosto morio,
e seco Pirro de la vita uscío.
116.
Alme felici,
ch'or il terzo cielo
fra tanti cari amanti possedete,
u' senza tema di calor o gielo
i vostri cari amori lá godete,
non vi doglia il morir da poi che
ne lo
mondo qua giú sí caro pegno avete,
che l'una e l'altra ogni or
sembianza vostra
piú bella e piú leggiadra a tutti
mostra.
117.
Dico piú
bell'assai perché beltate
simil non fu, non è, né mai piú
fia,
ché in vostra figlia con somma
onestate
è bellezza infinita e leggiadria.
E tanto v'è di grazia e maiestate,
quant'esser possa in donna che si
sia,
e grida Amor: – In questo vago
volto
stavvi del cielo tutto 'l bel
raccolto. –
118.
Questa certo è
beltá che fa natura,
u' non ha 'l fuco né l'industria
parte:
la viva candidezza schietta e pura
è quai rose vermiglie in latte
sparte,
quel bel rossor, ch'al gielo e al
caldo dura
non conosce favor d'ingegno o
d'arte;
ma sí nativo e vago si dimostra,
come l'imperla la natura e inostra.
119.
Le ben arcate e
cosí nere ciglia,
come nacquer son or e saran sempre:
quella fronte sí allegra a
meraviglia,
ruga non ha che la guasti o
distempre:
i capei biondi, dove s'assotiglia
di mille nodi Amor far varie
tempre,
d'or terso han preso il lucido
colore,
e scherzan su la fronte a tutte
l'ore.
120.
Que' vaghi suoi
begli occhi, anzi pur soli,
che la luce del sol vincon d'assai,
fra tutti gli altri son sí belli e
soli
che sí belli non vide il mondo mai.
Son schietti senza inganni e senza
duoli
i bei lucenti ed amorosi rai:
quivi il suo seggio Amor eletto
infiora,
questi sol loda, riverisce e onora.
121.
Ma de la sua
beltá, ch'è senza pare,
or non è 'l tempo che ragioni teco:
in brevi la potrai ben contemplare,
e qualche giorno dimorarti seco.
Allor vedrai che tante grazie rare
a pien non loda stil latino o
greco,
e quanto vuol poeta s'affatiche,
ed abbia Febo con le Muse amiche.
122.
Or non lasciam
Mercurio star piú solo,
che 'n Gazuolo arrivò verso la
sera,
e sceso in terra dal cieleste volo
dinanzi al bel castel fermato
s'era.
E mentre a lui cantando me ne volo,
ch'allumava la notte oscura e nera,
sará ben fatto che posiamo
alquanto,
e seguirem dapoi lo nostro canto.
123.
Con meraviglia grande
sentirai
scender dal ciel le Grazie con
Lucina,
che quella nudriranno i cui bei rai
faran d'ogn'alto cor tra voi
rapina:
e tu fra gli altri a lei cosí sarai
soggietto, e tanto il ciel a ciò
t'inclina,
che, se mill'anni tu restassi in
vita,
questa tua stella fia e calamita. –
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