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Matteo Bandello
Canti XI... Le III parche

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  • CANTO II
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CANTO II

1.

Sempre che Giove da l'empirio cielo

porgere vuol soccorso al seme umano,

o vibrar contra quel l'ardente telo

con l'irata, potente e giusta mano,

per levarne da gli occhi il folto velo

de l'appetito disfrenato e insano,

con varii segni n'ammonisce e mostra

la mal sicura e torta strada nostra.

2.

Ché pur vorrebbe ritirarne al vero

de la mal conosciuta vertú segno:

e, 'nanzi che si scopra crudo e fiero,

il tutto fa per darne l'arra e pegno

ch'egli è somma bontá, mite e sincero,

e che per forza adopra poi lo sdegno,

quand'aspettato ha lungo tempo e vede

ch'a li suoi segni non si presta fede.

3.

E prima che si mova a far vendetta,

e 'l folgore vibrar ardente e forte,

a lento passo va, e tarda, e aspetta

che lasci l'uom del mal le strade torte;

ma crescer poi veggiendo l'empia setta

ch'al vizio corre e a sempiterna morte,

la tarditá col fier martír compensa,

che quanto tarda piú, piú fier dispensa.

4.

Ch'innanzi ch'ei la terra sommergesse

ed annegasse l'uom per rinovarlo,

per mirar le sceleratezze espresse

che si facevan venne a ritrovarlo,

e segni diede, acciò si correggesse

ed ammazzasse il fier, rodente tarlo

che rode la ragion e ammorba il core,

e presta al vizio aíta e favore:

5.

andò lustrando Giove in ogni banda

e fu da tutti sempre disprezzato,

onde l'acque mandò con miranda

copia che fe' morir il seme ingrato.

Cosí creder si de' che l'ira spanda

a questi del mondo in ogni lato:

e fará certo, se l'uom non s'ammenda,

e da man destra l'erta strada prenda.

6.

E quando mai bisogno fu maggiore

del soccorso divino a nostr' aíta?

E quando mai fu 'l mondo in tant'errore,

com'oggi d'ogni parte, ahimè, s'addita?

Ecco come di Dio la gloria e onore

nulla oggi cura chi si trova in vita,

ché 'l men che prezzi l'uomo ingrato e rio

è 'l divin culto e 'l venerar Iddio.

7.

I sacri tempii e li divini altari

con Cristo l'Alemagna a terra getta:

i santi simulacri singulari

di porr' in fuoco a gara ogni or s'affretta:

il casto sacerdote vuol che impari

figli nodrir, e moglie a lato metta:

discioglie e taglia le supreme voglie,

ch'ancor tiranno non dirrompe o scioglie.

8.

Quell'ignorante poi senza dottrina

interpretar la legge al mondo suole:

d'approvati dottor la disciplina

scherne e le tanto dottrinate scole.

Un lanio, un fabro, un guattaro in cucina

illuminar le sacre carte vuole,

e non s'avede il miserel che corre

al vizio sempre, e la vertute aborre.

9.

D'ogni ora e d'ogni tempo a voglia loro

mangiar, ber e dormir vogliono questi:

han sol per fine e ricco lor tesoro

viver disciolti e sol al senso presti:

di sacre mariali il casto coro

cercan stuprar con lor dannati incesti:

il confessarsi e tòr la penitenza

istima nulla questa rea semenza.

10.

Ciò che tant'anni e tanto lunga etate

al ben oprar è stato dritta guida,

le sante cerimonie consacrate

col sangue de la fede antica e fida,

questi mostri, quest'anime dannate

voglion che l'uom disprezzi e se ne rida,

e segua lor chimere e vani sogni,

né di schernir i santi si vergogni.

11.

E ch'altro fine cercan questi tali,

se non trovarsi d'ogni legge fòri?

Aver licenza a stender le false ali

a profanate leggi e gravi errori?

Lasciar il freno a tutt'i vizii e mali,

e le terre levar a i ver signori?

Ma per adesso piú giá non si parli

di questi lupi ed ammorbati tarli.

12.

Or sendo alquanto riposata quella

che mi cantava quant'udito avete,

riprese la sonora lira e bella,

e 'l canto cominciò com'udirete.

Turbato è 'l ciel, – mi disse, – ed ogni stella,

so come piú Giove omai s'acquete,

che 'l folgor suo tremendo non diffonda

ove 'l mal ed ogni vizio abonda.

13.

Ma prima vuol provar se per costei

il mondo può tirarsi a buona via,

ché tanta la vertú sará di lei,

(mercé di Giove), che bastante fia.

Però nel gran consiglio de li dèi

ei disse quanto giá t'ho detto pria.

Ed or attendi a quanto ti vuo' dire,

ché l'alta istoria m'udirai seguire.

14.

I' ti diceva com'il dio di dèi

al suo divin consiglio dimostrava

essere il mondo pien di vizii rei,

e la gente mortal corrotta e prava:

onde di ciò turbato e 'n ira, ch'ei

voler disfar il mondo menacciava,

facendo come giá sdegnato fece

quand'in Grecia i giganti ruppe e sfece.

15.

Ma sperando che questa verginella

a' vizii debbia por la mèta e 'l freno,

vuol che sia saggia quant'è onesta e bella,

col petto d'ogni grazia colmo e pieno;

ond'il suo sacro concistoro appella,

acciò che dica quanto porta in seno,

mostrando di decreti l'alma legge,

con cui conserva il mondo e ogni or lo regge.

16.

Del sommo Giove al dir tutti prestaro

i dèi del ciel benigno assenso allora,

ed il fatal decreto commendaro,

con desir aspettando il tempo e l'ora

che con bella figlia a paro a paro

del carcer la vertú venisse fòra,

e si levasse con le Grazie a volo

lasciando il vizio in sempiterno duolo.

17.

Onde a Mercurio Giove rivoltato

con quella maiestá che 'l tutto frena,

«Figliuol mio,» disse, «il carco a te fia dato

che questa nasca d'ogni grazia piena:

questa di cui nel ciel giá s'è fermato

che levi il mondo fòr d'affanno e pena».

E poi gl'impose ciò ch'a far avea

nel nascer de la nova e bella dea.

18.

Cillenio allor, per ubedir il padre,

si pose a i piedi le bell'ali d'oro,

con cui ne l'aria le fumose ed adre

nubi sovente giá spezzate fôro:

e poi le bionde chiome sue leggiadre

d'un capèl copre di sottil lavoro,

la verga tol che 'l sonno apporta e cose

fa sovvra il corso uman meravigliose.

19.

Con quella l'alme da l'inferno toglie,

l'alme pallenti, e le ritorna al cielo:

altre poi manda fra l'eterne doglie,

ove si sente ogni or e caldo e gielo:

con quella i venti move, frena e scioglie,

e de le nubi rompe il folto velo

e l'aria rade liquido e soave,

né di contrasto si sgomenta o pave.

20.

Cosí volando cala, e d'Apennino

scorse il piú grande ed eminente corno

che sovvra tutti un sasso duro e alpino

copriva con gran boschi attorno attorno.

E 'l capo d'atre nubi cinto un pino

ombrava, e un faggio, un'elce, un cerro e un orno,

e su le spalle molte selve avea,

che quinci e quindi il vento ogni or scuotea.

21.

L'ispida barba il mento li copriva,

di dure pietre tutta folta e piena,

l'aperta bocca dava d'acqua viva

fiumi correnti con perpetua vena:

quivi di Maia il figlio, com'arriva,

il lungo volo a poco a poco frena,

e da la cima il bel paese vede

ove Gazuolo in riva d'Oglio siede.

22.

Indi si leva a volo e com'augello,

che presso 'l lito o tra piscosi scogli

vicino a l'acque porta il corpo snello,

per tòr il pesce al fondo de li scogli,

ne vien Mercurio tutt'ardito e bello,

frenando al vento gli aspri e duri orgogli,

e tra la terra e l'aria il mezzo rade,

poi su Gazuolo lievemente cade.

23.

Cosí veduto il bel castello altiero,

ove nascer devea la cara figlia,

il passo verso quel tutto liggiero,

a mortal occhio non visibil, piglia:

e giunto al ricco limitar primiero,

in gioia trova tutta la famiglia,

che di madonna aspetta il partorire

ch'or tutto 'l mondo fa di sé gioire.

24.

Era del giorno giunta l'ultim'ora,

quando Febo s'attuffa e 'l s'annera:

allor Mercurio senza far dimora

innanzi al bel castello posto s'era;

ma fin ch'appaia 'l sol dopo l'aurora,

(tempo che nasca l'alma figlia altiera),

giva facendo molte sante cose,

ch'a voi mortali sono in tutto ascose.

25.

Avea Cillenio seco assai liquori

che d'erbe sono, còlte a piena luna,

e di vermigli, azurri e gialli fiori

il caro suco mastramente aduna.

Né vi mancaro quanti buoni odori

possa il Sabeo mandar da parte alcuna,

ed altre cose assai portate avea,

ch'al parto levan l'aspra doglia e rea.

26.

Ch'era fermato in l'alto concistoro

ogni doglia levar nel partorire,

ed a la madre tal donar ristoro

che noia allor non sofframartíre.

Onde trovate da Mercurio fôro

le cose ad opra tal stupende e mire,

odori, unguenti, suchi, pietre ed erbe,

u' vuol il ciel che tal vertú si serbe.

27.

Or qui mi par lasciar Mercurio alquanto,

ché tosto a lui col dir farò ritorno,

ch'io penso ben ch'aspetti che 'l mio canto

volga al signor del bel Gazuolo adorno.

Tu brami udir chi sian cui si vanto

aver il mondo di tal figlia adorno,

e parmi il tuo disir ch'al giusto quadre,

di quella il padre udir, udir la madre.

28.

Ché l'uno e l'altro a par de gli occhi tuoi

amasti, mentre in vita dimoraro,

e riverisci ogni or ed ami, poi

che di lor alme il terzo ciel ornaro;

ché Venere tra tutti i servi suoi

forse non ebbe in terra un altro paro,

che fiamma marital dolce ardesse,

come costor che fur le fiamme istesse.

29.

T'amâr anco egli e caro t'ebber sempre,

e prima e poi che fur congiunti insieme,

ché tu per far che l'un de l'altro tempre

dolce ardor e fiamme tant'estreme,

allor che par che l'aria il mondo stempre,

quando la terra sotto 'l Sirio geme,

a tesser cominciasti il caro nodo

che poi fu sempre cosí stretto e sodo.

30.

Fu Pirro di Gonzaga il padre ch'io

or dir ti vuo', che generò costei.

Ch'acceso d'un ardor, d'ogn'altro, oblio

ebbe mai sempre, e ricordar ten déi.

Che per temprar l'ardente suo disio

consigliasti che fesse gli imenei

con la gientil Camilla Bentivoglia,

che per questi d'ogn'altro amor si spoglia.

31.

Ma ritornando a ciò che dir volea,

il padre canterò col ceppo antico

di questa bella de le donne dèa,

che con le stelle il ciel ha tant'amico.

Fêr suoi maggiori come fece Enea,

che, per fuggir il greco suo nemico,

nuovo regno cercò, nuovo paese,

e sovvra il Tebro la sua stanza prese.

32.

Da la Cimbrica Chersoneso ch'ora

Dacia si chiama, o Dania, come vuoi,

partí dolente un giovanetto allora,

seco portando li tesori suoi,

ché Carlo lo cacciò del regno fòra,

Carlo che magno nominate voi,

e, l'ocean Germanico lasciato,

venne in Italia a prender nuovo stato.

33.

Ei d'una bella ninfa del paese,

presso l'ocean giá detto, nacque,

ninfa che Marte d'alto amor accese

ch'egli seco sovra 'l lito giacque:

indi si diede a bellicose imprese:

tanto l'arme vestir a quelli piacque

ch'altro non fea, la notte e tutto 'l giorno,

che tra le spade e trombe far soggiorno.

34.

In la Sassonia il giovane decoro

piú volte fe' meravigliose prove,

ed in Norvegia conosciute fôro

di lui le forze inusitate e nove;

onde mertò di trïonfale alloro

le chiome ornar in ogni luoco, dove

uopo li fu con mano e col consiglio

romper nemici, antiveder periglio.

35.

Egli forte e di tal nerbo fue

che ben mostrò di Marte esser figliuolo.

Un indomito toro, un grande bue

gettava in terra al suon d'un pugno solo:

qual piú gagliardo fosse, a l'una o due

scosse, stendeva su l'erboso suolo,

e nel corso maggior d'ogni cavallo

posta la man nel crin facea fermallo.

36.

Ma Fortuna, che spesso cangia stile,

Italia volle ornar di tanta prole,

che d'Austro a Borea, dal mar Indo a Tile,

è de le prime che rimiri il sole:

e fe' ch'ardito il giovane e virile,

per aggrandir il regno, come suole

ogni animoso cor armato fare,

cominciò Carlo in campo a contrastare.

37.

Al fin da Carlo superato e vinto,

venne in Italia e sovvra 'l Mencio stette,

ove per non lasciar il nome estinto,

in mezzo a le campagne e selve elette,

di mura un nuovo e vago luoco cinto,

ch'a gli abitanti approdi e ancor dilette,

nel fertile, gientil e aprico suolo

fondò il famoso e bello Marmiruolo.

38.

E de la stirpe de l'antica Manto

una ninfa per moglie quivi prese,

e con l'arme e figliuoli ei fece tanto,

che si fe' donno quasi del paese:

indi passato 'l Po, ne l'altro canto

a far un nuovo e bel castello attese,

e di sua gente il nome l'appaga,

che lo chiamò la terra di Gonzaga.

39.

Per lungo spazio dopo lui successe

l'onorato suo seme in quelle bande,

cui valor e le prodezze espresse

la chiara fama in ogni parte spande.

Ma chi cantar il tutto ti volesse,

fatica avrebbe faticosa e grande:

tante fur l'opre glorïose e tali,

che le memorie ancor sono immortali.

40.

E ben mostraro che dal fiero Marte

sceser per dritto e nobile legnaggio,

perché d'Europa non v'è luoco o parte

u' del valor non mostrino paraggio.

Ma ne l'Italia son piú chiare e sparte

l'opre di questo sangue altiero e saggio,

che mastri fur di guerra singulari,

prodi e prudenti, sempre invitti e rari.

41.

Al fin Luigi col famoso coro

de gli onorati figli pose il freno

a' suoi nemici, e fe' del sangue loro

correr il Mencio sanguinoso e pieno.

E diede a' mantovani tal ristoro,

ch'ogni discordia in lor venir fe' meno,

ch'ivi lo scettro senza lite tenne,

e la cittá con pace ogni or mantenne.

42.

Indi egli e suoi figliuoli e li nipoti

crebber l'imperio d'ognintorno ogni ora,

e furon da vicini e da remoti

temuti, amati e riveriti ancora.

Sallo Ferrara cui fur gravi e noti,

sallo Cremona che si lagna e plora.

Ebber di Reggio e molte terre appresso

lo scettro a lor da i cittadin commesso.

43.

Cosí l'eccelsa stirpe di Gonzaga

fu con le grandi de l'Europa unita,

onde la fama che d'intorno vaga,

la prima fra le prime quella addita.

Ma dove 'l Mencio i grassi campi allaga,

si vede piú famosa e piú gradita:

e mentre il corso suo fará lo sole,

che chiara sempre regni Giove vuole.

44.

E da degno e glorïoso seme

nacquero grandi ed infiniti eroi,

che dier al mondo vivace speme

di restar sempre eterni qui fra voi,

che per l'opre di guerra alte e supreme

dal Carro a l'Austro e da Calpe a gli Eoi

son chiari ch'ancor il nome dura,

cui non fa morte o 'l tempo mai paura.

45.

I' ti potrei nomar mille Feltrini,

Gioan, Franceschi, Caroli e Gualtieri,

Guidi, Alessandri, Corradi e Ugolini,

Annibali, Federighi e Ranieri,

Ferrandi, Galeazzi e Filippini,

Marchi, Guglielmi, Gentili e Roteri,

Giacomi, Giulii, Ippoliti e Odoardi,

Cesari, Orlandi, Gismondi e Ricardi.

46.

Ché tanti fòr di quell'ordigno strano

ch'arse poi Troia non uscîr baroni,

quanti 'l buon sangue Gonzaghesco e umano

ha dato al mondo e vuol il ciel che doni;

che saggi di consiglio e son di mano

forti, veloci, prodi, arditi e buoni;

ma chi volesse quanti furon dire,

non si vedrebbe al fine mai venire.

47.

E dir l'imprese ti potrei che fêro

in l'Africa, in l'Europa ed altre parti,

come ne l'armi fu ciascun fiero,

ch'Ercoli tutti fur stimati e Marti:

e quanto fur graditi da l'impero

per l'alte imprese bellicose ed arti,

e quanti giá ne furon tra costoro

di palma coronati e verde alloro.

48.

Si vide Galeazzo altiero e forte

piú volte nel duello farsi onore,

ché tanti e tanti ne condusse a morte,

ei sempre di periglio in tutto fòre.

Bucicalo tentò provar sua sorte

contra costui, ma vinto al fin ne more,

ché fu da Galeazzo su la guerra

a pugna singular tratto per terra.

49.

E quante rocche con armata mano

preser Gonzaghi e insieme le cittati!

Piú volte in largo ed or in stretto piano

fur lor nemici rotti e dissipati,

né questo de' parer ad altri strano,

sendo da Marte in prima generati;

ché se i trïonfi lor ti vuo' cantare

uopo sarebbe novo canto fare.

50.

Ti dirò quando i Vescontei Colubri

cinser d'armati a Mantova le mura,

che v'era tutta Italia con gl'Insubri

a far la guerra perigliosa e dura.

Saldi i Gonzaghi stero, onde lugubri

nemici si partiro con paura,

e per terra e per acqua fur cacciati,

e' mantovani in tutto liberati.

51.

Da l'insegna e' Gonzaghi allor levaro

la Vipera che prima amavan tanto,

e co i signor vicin si collegaro,

per dar al fier Biscion tormento e pianto.

Cosí molt'anni lieti dimoraro,

e fêr piú bell'ogni or la dotta Manto;

ma di lor molti per adesso i' passo,

ed assai cose glorïose i' lasso.

52.

Gian Francesco vi fu che mertò prima

con titol di marchese esser signore,

e fu di tanto pregio e tanta stima

che tutt'Italia li fe' sempre onore,

e da nemici l'alta spoglia opima

s'acquistò con prudenza e con valore,

e vide sempre la sua fida terra

in pace starsi priva d'ogni guerra.

53.

Ed a alto grado il ciel sortillo

per la vertú che 'n lui l'albergo avea,

ch'a questi in cura il primo suo vesillo

Vinegia , del mar potente dèa;

da quella invidia altrui poi dipartillo,

che grande vederlo non volea;

ma la vertú non teme alcun terrore,

ché semprsalda e sol produce onore.

54.

Lodovico dapoi lo scettro tenne,

che di giusticia fu novo Aristíde,

e quïeto il Mencio ogni or mantenne

ch'odio o discordia mai non vi si vide.

Quivi l'Europa al gran concilio venne

con Pio pastor, che sempre par che gride:

Ite soperbi, o miseri cristiani,

che 'l sepolcro di Cristo è 'n man di cani. –

55.

Fece ogni cosa il vero pastor Pio,

per che s'unisse tutt'Europa insieme

a prender l'arme contra il popol rio,

da cui la terra santa ogni or si preme.

Ma fin lodato cosí buon disio

aver non puote, ond'or sospira e geme

il cristianesmo tutto in Orïente,

che lacerar, schernir da i can si sente.

56.

Voleva Pio pastor passar il mare,

e por la mitra a rischio e la persona.

E cominciato avea giá caminare,

bramoso di compir tant'opra buona.

Seco vedevi tutt'Europa andare,

e giá tremava il Cairo e Babilona,

quando da febre il pastor assalito

morí d'Ancona su l'ondoso lito.

57.

Tant'era il buon disir di far l'impresa,

per liberar di Cristo u' nacque il nido,

ch'essendo quasi morto, ancor l'accesa

mente spignea la voce al santo grido.

Figliuoi, – dicea, – com'ho quest' alma resa,

che vola a quel Signor in cui mi fido,

andate a ritrovar il re Corvino,

che semprstato a' turchi aspro vicino. –

58.

Era Mattia Corvino allor armato,

e da sé lunge i turchi discacciava,

palmo di terren gli era levato,

fieramente il regno difensava.

Tenea Belgrado e l'Istro guardato

che d'intorno turco non trescava:

or quasi è turco tutto quello regno,

e giá su l'Austria il turco fa dissegno.

59.

E chi devrebbe porvi e cor e mano

par che non curi la roina espressa.

Si vede l'Ongaria a brano a brano

a dura servitú star sottomessa.

Piú si rinforza e s'erge l'otomano,

e verso Italia quanto può s'appressa.

Ov'arde il fuoco alcun l'acqua non getta,

u' non bisogna par ch'ogni un si metta.

60.

Che fai, sacro di Roma imperatore?

Usar qui ti bisogna diligenza.

Odi la furia, ascolta il gran romore,

che fa di Sciti la mala semenza:

ha giá ne l'Ongaria fermato il core,

e poca se le scopre resistenza,

nessun di Paulo terzo ode la voce,

che su Monte Sion vuol por la croce.

61.

Ben s'affatica il gran pastor e vuole

unir l'Europa e conservar la fede;

ma getta al vento tutte le parole,

ché nessun move a tant'impresa il piede.

Il gran gallico re si lagna e duole

che, sendo di Milano il vero erede,

convenevol li par aver di prima

l'ereditá d'Insubria grassa e opima:

62.

e che di Franza la real corona

è spada e scudo a la romana chiesa,

che i reggi Galli andarono in persona

a Roma armati sol per sua difesa,

e che la fama ancor per tutto suona

aver il Gallo terra santa presa,

n'a la fede di Cristo mai mancato,

quando bisogno di soccorso è stato.

63.

Cosí far s'offre e presto si ritrova,

pur ch'abbia ciò che de', non altrimenti.

L'imperator non vuol che si rimova

l'augel di Giove da l'insubre genti;

onde far pace indarno il pastor prova,

e insieme unir le cristïane menti:

e l'eresie in questo mezzo vanno

crescendo d'ora in ora a commun danno.

64.

Né per tanto devrebbe il cristïano

lasciato il buon camin pigliar la strada

che par piana, u' corre il luterano

e vuol che seco tutto 'l mondo vada.

Ben Cristo vi porrá un la mano,

vibrando la crudel fulminea spada,

com'altre volte apertamente ha fatto,

che tanti eresiarchi ha giá disfatto.

65.

sol i capi di falsi errori

fará morir con morti orrende e crude,

ma pèsti manderá, guerre e terrori,

con quanti morbi l'atro inferno chiude.

E tanti ne trarrá del mondo fòri,

che fian deserte le cittati e ignude,

e forse co l'ardente e vivo fuoco

di mortali fará l'ultimo gioco.

66.

Ma dove mi trasporta il buon disire

ch'ho di veder fedeli tutti insieme,

e pace tra' cristiani attorno gire,

spargendo di concordia il vero seme?

Non piú di questo, ch'io ti vuo' seguire

tutto ciò che nel petto ancor mi preme,

per dir de li Gonzaghi altieri e illustri,

che son famosi giá cotanti lustri.

67.

Lodovico morí, a cui succede

il magnanimo primo Federico,

non sol del stato universal erede,

ma del valor e di vertute amico:

egli a l'Italia il nuovo Marte diede,

che può paragonarsi ad ogni antico,

con l'opre di milizia mirande

che tra li grandi il primo fu piú grande.

68.

Dico Francesco glorïoso e invitto,

che 'n pace Giove fu, fu Marte in guerra,

i cui trofei il Carmelita ha scritto,

e lo tien vivo ancor che sia sotterra.

E se 'l maligno morbo per despitto

al fin oppresso nol teneva in terra,

tant'era umano, saggio e robusto

ch'era un Scipio, un Cesar ed uno Augusto.

69.

Ei de l'Italia in ogni luoco e parte

chiari segni lasciò del suo valore.

Son le sue glorie largamente sparte,

ove nasce il Sebeto ed ove more:

le sente il Tarro che l'ingegno e l'arte

di lui conobbe con grand'onore,

l'Arno, il Tesino e 'l Po tutti lo sanno,

che molte volte liberò d'affanno.

70.

Ma chi volesse dir i suoi trofei,

del mar l'arena annoverar potrebbe:

ed io di lui cantar non saperei

quanto al suo gran valor si converrebbe.

Ché s'io sapessi dir quanto devrei,

in colmo d'ogni gloria ei si vedrebbe,

che fu liberal, largo e cortese,

ch'a par d'ogn'alto re donò e spese.

71.

De le sue lode ed opre militari

tu giá facesti lungo e vero tema:

ivi dimostri gli atti singulari

degni d'Omero e di maggior poema,

ch'or son noti, famosi e chiari,

com'è la sua vertú chiara e suprema;

ché meritò per l'alto suo valore

quanto possa mertar un uom onore.

72.

Successe a questi il generoso figlio,

Federico secondo, che si vede

giovanetto con mano e con consiglio

tener sicura la romana sede,

ed armato serbar da gran periglio

la terra ch'al Tesin vicina siede,

ed or gioioso si riposa e vive

del chiaro Mencio su le verdi rive.

73.

Tu de' saper com'egli il primo è stato

che l'onorato titolo di Duce

fra' suoi per sol vertú s'ha giá acquistato,

presso Carlo il suo valor riluce.

E con prudenzia tanto s'è ingegnato,

che 'l Monferrato seco ancor adduce,

e tant'è chiara la sua fede e ferma

che 'n cima a l'alto Olimpo ella si ferma.

74.

Ah se sapeva moderar il fuoco,

che fòr di modo gli arse il cor e 'l petto,

aveva fra' lodati il primo luoco,

tal fu 'l principio a farsi il piú perfetto;

ma piace d'Amor il dolce gioco

che di rar si può far a lui disdetto,

onde lasciò Gradivo e Amor seguío

e pose, fòr che quel, tutto in oblio.

75.

Evvi Ferrando di Fedrico frate,

noto fra l'arme ed onorato tanto

che son l'opre di lui per lor lodate,

senza l'aíta di poema o canto.

Di quant'imprese a questi Carlo ha date,

de la vittoria avuto ha sempre il vanto,

ch'or di Ciclopi l'isola corregge,

e quella come re governa e regge.

76.

E perché d'arme sol fin qui t'ho detto,

vi son de gli altri senza l'arme ancora,

ch'a gloria ed a vertú dieron ricetto,

onde la schiatta ogni or s'esalta e onora:

di Lodovico un d'i figliuoli eletto

fu cardinal de l'alma chiesa, allora

che 'l buon pastor di Roma Pio senese

a far l'armata contra turchi attese.

77.

Questi Bologna e 'l fertile Piceno

serbò da fier tumulti assai sovente,

e facondo fu, fu ripieno

d'un grave ragionar dolce e prudente,

che l'ira a molti spesso venir meno

fe' nel maggior furor, nel piú fervente,

e se morte tosto nol rapiva,

la gran mitra a gli augei di Giove univa.

78.

Poi quando sotto sé mantenne Roma

il ligure pastor Giulio secondo,

col purpureo capèl la sacra chioma

adornò del benigno e uman Gismondo,

che gientil ancor tra voi si noma,

e liberal, magnanimo e giocondo,

d'i dotti e de le Muse sempre amico,

a Francesco fratel, figlio a Fedrico.

79.

Vi fu di Lodovico, ch'oggi vive,

Pirro figliuol ch'adolescente ancora

per la dottrina rara e doti dive

di capèl rosso il gran Clemente onora;

ma volse il ciel che 'l mondo se ne prive,

ché giovanetto uscí di vita fòra;

ché s'ei quanto devea in vita stava,

di grazia e di bontá tutti avanzava.

80.

Tu ne volasti al ciel, gientil signore,

che cinque lustri ancor non trapassavi;

ma tal la tua vertú, tal fu 'l valore,

che di piú vecchi il saper aguagliavi.

Troncar la morte non pensava il fiore

de gli anni giovenil, ma di piú gravi:

tenne per l'opre che tu fussi antico,

onde ti morse col suo dente ostico.

81.

Perché non vivi e miri la cugina,

albergo d'ogni grazia e di bellezza,

questa ch'io canto che si può reina

d'ogni beltá chiamar, d'ogni vaghezza?

Vedresti quella parte in lei divina,

che tanto 'l mondo in ogni donna apprezza,

unita star bellezza e castitate,

la piú bella e piú casta d'ogni etate.

82.

Or vive cardinal quel signorile

Ercole saggio de la cui vertute

non basta a dir e l'uno e l'altro stile,

ché 'n ciò le lingue tutte fôran mute.

Intrepido si vede e virile

che non v'è forza che dal ver lo mute:

dotto i dotti ama, a quelli ricetto,

sincero, liberal, benigno e schietto.

83.

Mille donne cantar potrei, ch'usciro

da questa stirpe e glorïosa schiatta,

e quelle dir che seco poi s'uniro

per fede marital casta e intatta.

Direi di quella che cotanto ammiro,

che per esempio di vertú fu fatta:

dico Isabella Estense al mondo tale,

che sará sempre chiara ed immortale.

84.

Ma troppo lungo il mio cantar sarebbe,

se raccontarle tutte bisognasse,

e ciò che dir ti vuo' non si direbbe,

se la mia nave questo mar solcasse.

Cantar mi basti dove origine ebbe

questa onde 'l mondo ogni or piú bello fasse,

questa che Giove fe' venir in terra,

per darle pace e tòrle noia e guerra.

85.

Da questa adunque stirpe eccelsa e magna,

del primo Lodovico un figlio venne,

che dove l'Oglio il bel Gazuolo bagna,

molti anni il seggio altieramente tenne,

e con la moglie fida sua compagna

di molti figli padre vi divenne;

tra' quali è stato il generoso Pirro,

giovane bel col nero e crespo cirro.

86.

A l'arme si questi da fanciullo

col fratel Federico nomato,

ed era suo diletto e suo trastullo

al caldo, al freddo sempr'andar armato;

e tra le squadre armate mai fu nullo

ch'innanzi li corresse, ch'egli a lato,

anzi piú tosto innanzi, non vi fusse:

e prede spesso da i nemici addusse.

87.

Quando crollata poi da l'auree Palle

perdé la Quercia nel Picen le ghiande,

e che ciascuno le volgea le spalle

per tema del Lione in quelle bande,

in casa Pirro ricco albergo dálle,

e le ricchezze a mantenerla spande:

e tenne questo stile mesi ed anni,

perché la Quercia non sentisse affanni.

88.

E quando per tornar nel bel Piceno

aperse quella i conquassati rami,

non si vide venir mai Pirro meno,

né ch'a sé quella con pregar lo chiami;

ché sempre piú di , d'amor piú pieno,

par ch'altro piú non curi o prezzi o brami

ch'a rischio por per lei la propria vita,

e darle di danari e gienti aíta.

89.

Egli vi corse e di ben scielta giente

piú d'una torma vi condusse armata,

ed a quanto si fe' sempre presente

trovossi, col consiglio e con la spata.

E s'adoperò ch'ancor si sente

la fama sua vagar molto onorata,

che del sangue nemico il bel Metauro

fe' rosseggiar e intorbidar l'Isauro.

90.

E quando Maldonato fra gl'Iberi

di segreto s'uní col rosso Giglio,

Pirro piú volte in que' tumulti fieri

non ischivò faticaperiglio:

tutte le notti, per aver li veri

indíci del perverso lor consiglio,

armato e desto per la pioggia e vento

ad ogni moto se ne stava attento.

91.

Onde non molto ste' che discoperse

del traditor ispan l'infida mente,

ed a Fedrico nel secreto aperse

il tradimento ordito occultamente.

Federico le genti sue disperse

insieme radunò in un repente,

e fe' cosí col mercenario ispano

che 'l traditor occise di sua mano.

92.

Ma di Fedrico, che ti posso dire

che non si veggia ogni or piú chiaro e aperto?

Ché s'io volessi e' fatti suoi seguire,

l'alto valor e 'l glorïoso merto,

quanto piú ne dicessi, piú ridire

forza mi fôra, fu saggio e esperto:

e fu di fede un ampio e cupo mare,

gentil, cortese e molto largo al dare.

93.

Che ti dirò da poi del lor nipote

Aloise, chiamato Rodamonte?

Questi di forze tanto valse e puote

che con Alcide stato fôra a fronte:

se poi cantava versi in dolci note,

fra le Muse sedeva in cima al monte:

fu sacro a Febo, fu compagno a Marte,

come fan fede i gesti e dotte carte.

94.

E quando Roma andò tutta sossopra,

che sparse le sacre ossa il vil marrano,

e 'l tedesco infedel seco s'adopra

gettar relliquie in mezzo del pantano,

il buon Luigi fe' quella bell'opra

che del fango le colse con sua mano,

e presentolle al primo gran pastore,

per ritornarle al lor antico onore.

95.

Ma quanti gentiluomini riscosse

da' perfidi e crudeli luterani?

Col corpo e con la mente affaticosse

per temprar il furor di que' profani:

da sacre verginelle spesso mosse

le scelerate di que' ladri mani;

e con l'opre de la vita e de l'oro

a molti impregionati ristoro.

96.

Ché si vider cattivi i sacerdoti,

e vïolate l'alme verginelle.

Dentro le chiese e luoghi piú divoti

stavan le putte e genti a Dio rubelle:

si vedevano i sacri vasi voti,

e le relliquie sparse queste e quelle,

e di Pietro e di Paulo le sant'ossa

col letame marcir in tetra fossa.

97.

E 'l gran pastor vicario pur di Cristo

prigion fu fatto da tedeschi e ispani.

E tu 'l vedi e sopporti, o Giesu Cristo,

che faccian questo i falsi cristïani?

Ma spero pur ch'al fin e tosto Cristo

in preda a' lupi mandi questi cani,

e tal ne faccia strazio orrendo e strano,

che straziar si vedranno a brano a brano.

98.

Chi non vide in que' quella roina,

che molti durò senza pietate,

cosa non vide mai di piú rapina,

di piú furor, d'estrema crudeltate.

Piú si sprezzava, quanto piú divina

era una cosa; ahi genti scelerate,

genti ribalde, infide e disoneste,

sempre al mal far audaci, pronte e preste!

99.

Vi fu tra quel nemico di Dio stuolo

un sacrilego e tanto ardito,

non so se fu tedesco o pur spagnuolo,

ch'avendo un tabernacolo ghermito,

l'ostia divina sparse sovvra il suolo,

ch'era di sangue umano intepidito

e per rubar un po' d'argento, o Dio,

fece l'effetto scelerato e rio.

100.

Sacro Tevere, tu 'l vedesti allora

che piú sangue portasti ch'acqua al mare:

so come potesti far dimora

tra que' mostri crudeli senza pare,

come di Roma non uscisti fòra

o non cercasti al fonte ritornare?

o non gonfiasti d'acqua tanto pieno

ch'al mar portassi que' ribaldi in seno?

101.

Ma chi volesse dir gli opprobrii fatti

in quell'orrendo caso a Cristo e santi,

e su gli altari gl'incestati patti,

i sacrilegii nefandi e tanti,

non trovarebbe il fin di tai misfatti,

di ch'anco par che 'l luteran si vanti:

basta che 'l buon Luigi quanto puote

raccolse le relliquie piú divote.

102.

Per questo il gran pastor e per l'aíta

che 'l buon Fedrico a l'alma chiesa diede,

il frate di Luigi allora invita

e tra li cardinali vi sede.

Lascio Francesco di cui la gradita

bellezza in terra senza par si vede,

Francesco, che Cagnin chiamate voi,

ed altri passo Gonzagheschi eroi.

103.

Or se cantar ti vuo' di Pirro quanto

ei fece in questa e 'n quella parte ancora,

al fin non ne verrei con questo canto,

e mi mancrebbe a raccontarlo l'ora.

Basti per or averne udito tanto,

ché di questo parlar uscir vuo' fòra,

e dirti come prese poi per moglie

la bella de le belle Bentivoglie.

104.

Lasciam de li Gonzaghi dunque il dire,

di cui la fama è chiara com'il sole,

e piú che mai si vede oggi fiorire,

ov'ondeggiar il Mencio ed Oglio suole:

e su 'l Tartaro ancor si fa sentire

e dove 'l Po Luzara bagna e cole:

di cui non parlo qui, ché i' vuo' cantare

la bella Bentivoglia singulare.

105.

A piè de l'Apennin, dove il Reno

da la Romagna parte Lombardia,

siede Bologna col paese ameno,

come qual altro in tutt'Italia sia.

Di questa moderò l'altiero freno,

or con gagliarda mano ed or con pia,

molti e molti anni sempre signorile

il sangue Bentivoglio alto e gientile.

106.

scopre tanti fior Aprile o Maggio,

quanti uomini famosi ed onorati

usciti son di questo buon legnaggio

per arme e per vertute celebrati.

Che certo fur d'Italia un chiaro raggio,

mentr'ella tenne i figli suoi pregiati,

che poi che gente strana il piè vi pose,

a tutt'Italia il chiaro sol s'ascose.

107.

Ma d'Alessandro famoso e chiaro,

ch'un specchio di bontá nel mondo visse,

come tacer potrò, e seco a paro

quella che mai non ebbe con lui risse,

Ippolita che fu perfetto e raro

segno di quanto mai poeta scrisse,

di grazia, di beltá, d'ogni valore,

di' tempi suoi la gloria e ver onore?

108.

Questi la casa Bentivoglia ogni ora

alzâr con cortesie fin a le stelle,

ed in Bologna e poi ch'usciro fòra

mantenner sempre l'opre oneste e belle,

e tant'amati fur che s'ode ancora

gridar le ninfe e 'l Reno ogni or con quelle:

– Perché, coppia gientil, non sei qui meco,

ch'ogni mia pompa, ahimè, portasti teco?

109.

La pompa tu portasti e 'l vero onore,

e di questa cittá la gloria e 'l pregio.

Era Bologna allor un giglio e un fiore

odorifer, gientil, vago e egregio,

e tal con l'opre belle dava odore,

e di vertú mostrava bel fregio,

che col nome di Bentivogli al cielo

s'alzava qual ben dritto ed alto stelo. –

110.

Di questo sangue generoso e altiero,

che quivi il freno lungamente tenne,

e se si cerca chiaramente il vero,

da l'alta Roma vecchiamente venne,

Camilla fu, che 'l nostro cavaliero,

mentr'ella visse, donna sua mantenne,

di cui le fiamme ed i cocenti ardori

arser di par mai sempre ambi i lor cori.

111.

Annibal Bentivoglio le fu padre,

uomo ne l'armi chiaro e glorïoso,

le fu Lucrezia Estense cara madre,

figlia d'Alcide, il duca famoso.

Di questa coppia l'opere leggiadre

chi dir vorrá, sará presontüoso,

perché cantate fur in ripa al Reno

con stil sonoro e di dolcezza pieno.

112.

Ma com'a te narrar vuo' queste cose,

che 'l tutto apertamente hai visto e sai?

Or quante volte Pirro ti propose

istoria lunga di suoi duri guai?

Quante, del Mencio su le rive ombrose

con lagrime infinite ed aspri lai

t'aperse il cor e ti mostrò ben chiaro,

com'era il suo dolor penace e amaro?

113.

Né questo fu perché Camilla bella

lui non amasse quanto conveniva,

ma ritrosetta alquanto e a lui rubella,

di dentro ardendo, fòre si scopriva.

Ed egli giorno e notte: – O dura stella! –

piagnea gridando, e di dolor moriva.

Al fin con nodo marital e santo

uscí di doglia ed amoroso pianto.

114.

Di lui qui taccio e taccio ancor di lei,

ch'egli fu chiaro, mentre visse, assai.

Né fa mestier che con li versi miei

scopra di sua bontá gli ardenti rai;

ché tanto dir di quello non potrei,

che da dir non restasse sempre mai:

di lei medemamente non vuo' dire,

che quanto merta non saprei seguire.

115.

Chi non ha visto la Camilla bella,

mentre fu viva leggiadra e chiara,

nulla conobbe, ch'ella fu bella

come mai fosse donna bella e chiara,

e sempre si mantenne onesta e bella,

gientil, costante, vaga, saggia e chiara;

ma, come poi dirò, tosto morio,

e seco Pirro de la vita uscío.

116.

Alme felici, ch'or il terzo cielo

fra tanti cari amanti possedete,

u' senza tema di calor o gielo

i vostri cari amori godete,

non vi doglia il morir da poi che ne lo

mondo qua giú caro pegno avete,

che l'una e l'altra ogni or sembianza vostra

piú bella e piú leggiadra a tutti mostra.

117.

Dico piú bell'assai perché beltate

simil non fu, non è, né mai piú fia,

ché in vostra figlia con somma onestate

è bellezza infinita e leggiadria.

E tanto v'è di grazia e maiestate,

quant'esser possa in donna che si sia,

e grida Amor: – In questo vago volto

stavvi del cielo tutto 'l bel raccolto. –

118.

Questa certo è beltá che fa natura,

u' non ha 'l fuco né l'industria parte:

la viva candidezza schietta e pura

è quai rose vermiglie in latte sparte,

quel bel rossor, ch'al gielo e al caldo dura

non conosce favor d'ingegno o d'arte;

ma nativo e vago si dimostra,

come l'imperla la natura e inostra.

119.

Le ben arcate e cosí nere ciglia,

come nacquer son or e saran sempre:

quella fronte allegra a meraviglia,

ruga non ha che la guasti o distempre:

i capei biondi, dove s'assotiglia

di mille nodi Amor far varie tempre,

d'or terso han preso il lucido colore,

e scherzan su la fronte a tutte l'ore.

120.

Que' vaghi suoi begli occhi, anzi pur soli,

che la luce del sol vincon d'assai,

fra tutti gli altri son belli e soli

che belli non vide il mondo mai.

Son schietti senza inganni e senza duoli

i bei lucenti ed amorosi rai:

quivi il suo seggio Amor eletto infiora,

questi sol loda, riverisce e onora.

121.

Ma de la sua beltá, ch'è senza pare,

or non è 'l tempo che ragioni teco:

in brevi la potrai ben contemplare,

e qualche giorno dimorarti seco.

Allor vedrai che tante grazie rare

a pien non loda stil latino o greco,

e quanto vuol poeta s'affatiche,

ed abbia Febo con le Muse amiche.

122.

Or non lasciam Mercurio star piú solo,

che 'n Gazuolo arrivò verso la sera,

e sceso in terra dal cieleste volo

dinanzi al bel castel fermato s'era.

E mentre a lui cantando me ne volo,

ch'allumava la notte oscura e nera,

sará ben fatto che posiamo alquanto,

e seguirem dapoi lo nostro canto.

123.

Con meraviglia grande sentirai

scender dal ciel le Grazie con Lucina,

che quella nudriranno i cui bei rai

faran d'ogn'alto cor tra voi rapina:

e tu fra gli altri a lei cosí sarai

soggietto, e tanto il ciel a ciò t'inclina,

che, se mill'anni tu restassi in vita,

questa tua stella fia e calamita. –





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