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Matteo Bandello
Canti XI... Le III parche

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  • CANTO III
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CANTO III

1.

Cose mirande e non udite ancora

udir mi parve da la Ninfa bella,

e meco il mio pensier diceva allora,

che non donna sarebbe ma dèa quella

che propicio il ciel aveva ogni ora,

con ogni suo pianeta ed ogni stella:

e pien di meraviglia me ne stava,

qual chi profondo ed alto pensier grava.

2.

Fra me stesso pensava che giá mai

a l'uom non manca la bontá divina,

che per levarlo fòr d'affanni e guai

spesso pietosa a quel si volge e inclina,

e benigna si scopre pur assai,

prima che vibri folgore o roina,

e mille segni apertamente mostra

per ammollir la gran durezza nostra.

3.

Pensava la gran cura che si prese

Giove di questa verginella altiera,

e con qual diligenza a quell'attese

ogni segno del ciel ed ogni sfera,

e quanto in lei favor sempre discese

per farla in terra sola donna vera,

anzi per farla donna de le donne,

che s'avalori ed a ben far s'indonne.

4.

E giá per l'ossa mi scorreva un gielo

di non so che, che m'ingombrava il core,

e sentir mi parea l'acuto telo

che 'n mezzo al ghiaccio accende fier'ardore:

vedeva in me cangiato il viso e 'l pelo,

assai difformi da sentir amore,

ed era quasi fòra di me stesso

da mordaci pensier in tutto oppresso.

5.

Né per tanto cessava in me il disio

d'udir il fin de le cantate cose.

E d'una in altra cosa passava io,

che tutte eran per sé meravigliose,

pensando quanta grazia in questa Iddio

con tante doti ed alti doni pose,

e 'l tutto ne la mente ravolgea,

che la Ninfa cantando mi dicea.

6.

Ond'ella, che di ciò s'avide, o forse

co i divini occhi mi passò nel core,

e vide quanto 'l mio pensier discorse

di quella cui farò mai sempre onore,

la man ver' me benignamente porse

per trarmi del pensier ov'era fòre,

e ciò che segue subito mi disse,

prima tenendo al ciel le luci fisse.

7.

Seguendo dunque il nostro primo tema,

i' piglio la sonora e dolce lira.

Ma pien ti veggio di mirand'e estrema

meraviglia che l'alma in sé ritira,

e parmi ch'un pensier il cor ti prema,

che 'n varie parti lo travolge e gira,

udendo ciò ch'i' dico di costei,

alto soggietto de li versi miei.

8.

Con chiuse labbra e sullevate ciglia

pensi onde venga che si prenda cura

il ciel di questa aventurosa figlia,

che sovvra l'altre aver de' tal ventura,

e resti pien di molta meraviglia

tant'eccellenza udir in crïatura,

come di questa m'hai sentito dire,

ed aspetti di piú ancor sentire.

9.

L'alto Fattor ch'eterno in mente avea

quanto criando poi mostrò di fòra,

di suo voler formò la bell'idea

del tutto che si vede fin ad ora.

«Si faccia», disse, e tutto 'l mondo crea;

e fece il tempo e i moti e 'l resto ancora,

ma sovvra tutti gli animali elesse

che l'uom l'impero ed il dominio avesse.

10.

Fece su i cieli differenti,

l'un piú de l'altro assai nobile e degno,

e grado pose ancor fra gli elementi,

lor separando il conceduto regno,

né per ciò mai si senteno lamenti,

né tra lor lite nascedisdegno;

ma fanno quanto vuol il lor Motore,

seguendo lor natura a tutte l'ore.

11.

Quegli alati corrier del Re superno,

che su son beati e 'n ogni luoco,

a fruir son fermi il ben eterno

che mai mancar non puon molto né poco.

Del ciel i segni ne l'estate e 'l verno

han sempre il corso d'un medemo gioco:

Pluton tant'ostinato sta nel male,

che de l'error pentirsi piú non vale.

12.

In somma quanto fu da Dio crïato,

che fe' di nulla tutto ciò che fe',

da l'uomo in fòr al fine destinato

sempre d'un modo va, né cangia ;

ma l'uom simile a Dio da lui formato,

a cui libero arbitrio in dono ,

ha 'nanzi gli occhi il fuoco e l'acqua, e può

quanto gli aggrada oprar a modo .

13.

Può la strada seguir del vizio lorda,

e 'l poggio di vertú salir tant'erto:

s'egli al ben far con la ragion s'accorda,

ha di ver uom il buon lodato merto:

ma se la voglia segue brutta e ingorda,

avrá di spine un tormentoso serto,

e mentre vive col favor di Dio

può farsi, come vuol, e buono e rio.

14.

E quanti giá cangiati se ne sono

dal mal al ben e poi dal bene al male?

Questi stato sará gran tempo buono:

si muta e al mal oprar distende l'ale;

ode poi de la sinteresi il suono,

al ben si volge e sol di quel li cale,

ché liggiera al vento non è foglia,

come de l'uom si volge ogni or la voglia.

15.

Vi son ben tai da Dio favoriti,

e ripien di quel amor divino,

che seco sempre se ne stanno uniti,

ebri di quel cieleste e dolce vino.

Da Pluton questi mai non son ghermiti,

ché non s'apiglia a lor il fier uncino,

mercé del Paracleto che la sede

in lor s'elegge ed ivi sempre sède.

16.

Se questa grazia Iddio a te non dona,

ma ti lascia in poter del tuo volere,

come puoi dir la mente sua non buona,

o ch'ei perciò ti faccia despiacere?

Ed evvi pur chi mormora e ragiona

perché non può i divin saper vedere:

bastar ti de' ch'al mal non se' sforzato

né di libero arbitrio mai privato.

17.

Uscite, o ciechi, di cotanti errori,

che Pluto sparge pieni di veleno:

seguite i vostr'antichi e buon cultori,

c'han coltivato ben questo terreno:

non vi lasciate trar del solco fòri

a c'han lo spirto d'ogni error pieno,

che senza oprar oziosi se ne stanno,

e falsi consiglier a voi si fanno.

18.

Lodate Iddio e grazie a lui rendete,

ch'uomini fatti v'ha, non animali

senza ragion, e 'l ben che possedete

seguite a farvi eterni ed immortali.

E s'un di grazia colmo qui vedete,

Iddio pregate che vi faccia tali,

e con l'opre del ben, col ver amore

sacrate al Re del ciel con l'opre il core.

19.

S'un temporal signor tu vuoi servire,

e ch'ei quanto promesso t'ha ti dia,

come biasmar lo puoi o maledire,

perché piú liberal ad altri sia?

Se dal ciel vedi questa gradire,

ch'altra giá mai gradita non fia,

perché ti meravigli? che ti move

pensar che giusto non si trovi Giove?

20.

E se tal or a certo tempo e etate

novi segni apparir vedi nel cielo,

pensa che spesso l'alta maiestate

di chi fa caldo il fuoco e freddo il gielo,

ha queste cose al mondo dimostrate,

quando pien d'amoroso e giusto zelo

vuol qualche semideo mandar in terra,

per far al vizio con buone opre guerra.

21.

Cosí volendo al nascer di costei

il mondo rinovar che fatt'è veglio,

non t'ammirar se dico tutti i dèi

uniti a farla d'ogni grazia speglio.

Non una volta ma ben quattro e sei

fa tai effetti Iddio di bene in meglio,

come pieni ne sono i sacri libri,

se quanto giá leggesti volgi e cribri.

22.

Ché se rammenti quando volle e' suoi

Ebrei cavar d'Egitto il gran Motore,

quanti segni mostrò, e prima e poi

che Mose uscí del materno alvo fòre,

vedrai che sempre c'ha voluto a voi

donar aíta o punir qualch'errore,

che cose ha fatte assai non piú vedute,

e spesso mai intese e conosciute.

23.

E quando 'l gran filosofo Platone

nacque per allumar l'uman sapere,

ch'ombrava questa e quell'openïone

che non lasciava a l'uom il ver vedere,

apparver molti segni, e Dio li pone

in bocca l'api standosi a giacere,

e le labra gli empí di mèl ibleo,

alto presagio a tanto semideo.

24.

Fur l'api le scïenze alme e divine

che Giove al buon fanciull'in culla infuse:

che mastro fu di quante discipline

in petto d'uom si vider mai ricchiuse.

Egli al suo tempo poi le pellegrine

arti dolce e vagamente fuse,

che 'l vero cominciò mostrarsi aperto,

che stato fin allor era coperto.

25.

Aristotel seguí, de la natura

figliuolo e padre e sommo sacerdote:

questi quanto saper può crïatura

de le profonde cose e piú remote,

il tutto seppe e tal ci pose cura

che quell'al mondo fece aperte e note,

tal che dopo non s'è trovato punto

ch'a' suoi purgati scritti sia aggiunto.

26.

Ma prima essendo il mondo tutto pieno

d'orrendi vizii e scelerati mostri,

e quinci e quindi sparso ogni veneno,

con tutto 'l mal di tempi antichi e nostri,

perché si ponga al vizio un duro freno

e sia chi seco arditamente giostri,

altro rimedio allor Giove non vide

che dar al mondo il suo figliuol Alcide.

27.

Onde per farlo ardito, saggio e forte

che non trovi alcun che 'l vinca in terra,

elesse la gientil bella consorte

d'Anfitrïone Alcmena e quella afferra:

poi, chiuse al sol del Gange l'auree porte,

due notti in una unitamente serra;

cosí l'alto baron Ercol si feo,

che purgò il mondo d'ogni mostro reo.

28.

Qual meraviglia adunque se li dèi,

per far che questa il mondo rinovelle

e cacci al fondo tutt'i vizii rei,

propizie le fanno in ciel le stelle?

Pensa, fra quante mai vedesti o vei

donne famose e belle de le belle,

che quest'avanza tutte ed è giá tale

che 'n mortal velo fatta s'è immortale.

29.

Or se vuol Giove che la canti e onori,

e giá comincia d'infiammarti il petto,

perché non canterai sue lodi e onori,

con ciò che ne dirò e giá t'ho detto?

Per questo gli anni tuoi non disonori,

né 'l riverir tal donna t'è disdetto,

ché quanto piú perfetta ella si dice,

a te d'amarla e di cantarla lice.

30.

Se 'l buono e 'l bello tutto 'l mondo brama,

ed a questo natura ogni or ne spigne,

chi fia che biasmi mai se da te s'ama

chi tutto 'l bello e 'l buono in sé restrigne?

Or se natura e 'l ciel a lei ti chiama,

sprezza le ciance perfide e maligne:

e vedrai come questa giovanetta

a riverirla Amor con gli occhi alletta.

31.

Ella tre lustri de l'etá non vede,

ma con l'ingegno avanza assai l'etate,

e nel dritto sentier ha posto il piede,

u' van le piú gientil e piú prezzate;

ma 'l mio parlar al buon Cillenio riede,

che l'ale su Gazuolo avea calate,

e posto s'era innanzi al bel castello,

albergo de le Grazie e caro ostello.

32.

Innanzi a l'alta rocca era Mercurio,

a mortal occhio non visibil, giunto,

che come vide il signoril tugurio:

«Ecco l'albergodisse, «a punto a punto,

ove le Grazie con felice augurio

avran le grazie a tal beltá congiunto,

qual non si vide mai, ché 'l sommo Giove

ogni sua grazia in questa largo piove».

33.

Questo dicendo va di luoco in luoco,

fin ch'a la stanza fortunata arriva,

ove nascer devea l'ardente fuoco

di que' begli occhi dov'Amor s'aviva.

Ivi si ferma ed indi a poco a poco

canta suoi carmi in voce chiara e viva,

e d'ognintorno ambrosia poi diffonde,

ed a quanti vi son sé sempre asconde.

34.

Molte parole allor secrete disse,

per far le sacre Parche al parto amiche,

e su le mura certi segni scrisse

di ieroglifi e lettre sante e antiche,

e verso il mezzo la vista fisse,

acciò nel partorir non s'affatiche

Camilla bella al parto giá vicina,

che Lucrezia ci diede alma e divina.

35.

Si volse poi in quella parte dove

dopo l'aurora il sol n'appar aurato,

e riverente adora il trino Giove,

con tutti i numi che gli stanno a lato.

Il caducèo dopo tre volte move,

e tante si rivolta in ogni lato:

poi ver' Camilla chino si raggira,

e sovvra il letto sacri odori spira.

36.

Stava la bella e aventurosa donna

posando in mezzo un ricco e aurato letto:

ivi Mercurio allor ogni colonna

di quell'impresse con benigno aspetto.

Non lascia veste, non lenzuol, non gonna,

ch'ei non consacri con parlar eletto,

e sparge quinci e quindi tant'odore

ch'Arabia par che quivi tutta irrore.

37.

Indi pulegio e cedro insieme pone,

e stafilino e menta ancor v'aggiunge,

e 'l tutto attorno al letto ben dispone,

ed altre erbette e fior da poi vi giunge:

e con nativa lana di montone

alquanto d'elaterio fin congiunge,

e questo al fianco di Camilla lega,

ché 'l parto aíta ed ogni incanto slega.

38.

Cosí lustrato il letto attorno attorno,

che, senz'incendio, come fuoco apparse,

guarda che quasi albeggia il novo giorno,

e che comincia l'aria a rischiararse.

Rare le stelle si vedean dattorno,

e cominciava l'alba giá disfarse,

cangiando i suoi nativi e bei colori,

perché sentia di Febo i novi ardori.

39.

Vede Mercurio che s'appresta l'ora

che Camilla gientil divenga madre,

madre di quella cui lo mondo onora

per la beltá, per le vertú leggiadre:

onde si mosse prestamente allora

chino adorando il folgorante padre,

e diede il segno ch'ordinato gli era,

quando lasciò del ciel l'ardente sfera.

40.

Ratto Lucina venne con le corna

che son di bianco argento come neve,

e de la luce del fratel adorna,

che piú la notte assai che 'l riceve:

trova Mercurio e seco il luoco adorna

u' Camilla gientil in tempo breve

Lucrezia bella partorí, né doglia

punto la preme, n'altro mal l'addoglia.

41.

A la madre un miracol par che sia,

che senza pena quella ha partorito,

e de l'odor che soave olía

dice che simil mai non ha sentito.

E certo non so che spirar s'udia

che prima mai non fu d'alcun udito:

e pensa ben che la giá nata prole

sará la prima tra l'eccelse e sole.

42.

Perché dinanzi al partorir ch'avea

fatto de gli altri cari suoi figliuoli,

sempr'era stata in pena acerba e rea,

con gravi affanni e con penaci duoli;

ma nel nascer di questa nova dèa,

(alti e mirandi segni e quasi soli),

doglia avea sofferto, né martíre,

anzi parea sentirsi allor gioire.

43.

Eta scaldava il sol, lasciata l'onda

del Gange, quando questa diva nacque,

ch'ebbe ogni sfera al nascer suo seconda,

farla al ciel aventurosa piacque.

Ivi a Lucina piú che mai gioconda

ne le braccia pigliarla non despiacque,

anzi le par che mai bella figlia

non fosse come quella ch'allor piglia.

44.

Nel zodiaco Febo l'aspra fera

nemea scaldava quando vien piú chiara,

e del ciel seco ogni buon lume v'era,

che fa chi nasce vita aver preclara.

Tutti gli aspetti allor con vista altiera

e con benigna luce al mondo e rara,

ogni beltate e grazia, ogni valore,

stillavan con cieleste e almo favore.

45.

Ché 'l Motor sommo scielta l'ora avea

per far un corpo sovvra tutti eletto,

e l'alma ancor criò di questa dèa

con spirto sovvra tutti il piú perfetto.

E quando questa nascere devea

fe' che fu unito ogni benigno aspetto,

e 'l ciel ben disposto in quello punto,

ch'a simil grado mai non fu piú giunto.

46.

La Libra scintillava giusta e uguale,

non come vuol Caldea del Scorpio parte,

ma ben compagna de l'Astrea e tale

ch'al ben il premio, al mal la pena parte.

Con questa Giove eterno ed immortale

il tutto pesa e 'l tutto ben comparte,

ed era l'ascendente di costei,

al mondo grata e grata a tutti i dèi.

47.

Quest'era allor del nascer l'ascendente,

e di quella il signor era Dïone;

la qual col sol si ritrovò presente

in un minuto in cor al fier Lione.

E da la sesta parte intentamente

miravan l'ascendente con ragione,

stillando amor e grazia di signori,

con quanti aver si puon tra lor favori.

48.

Di bellezza divina vera forma

diero a l'aventurosa e bella figlia,

onde d'amanti innoverabil torma

a seguitarla ogni cor accende e piglia:

questa bellezza chiara gloria informa

d'eterna pompa e acquista a meraviglia,

e sferza il mondo sempre a rimirarla,

seguirla, riverirla ed adorarla.

49.

In mezzo poi del cielo ne l'istesso

punto del Cancro la veloce Luna

corsa era, e seco si vedeva messo

Giove col capo del Dracone in una.

Gridavan questi con parlar espresso:

«In questa figlia il ciel infonde e aduna

grazia che sovvra tutti del paese

l'inalza, e chiara mostrala e palese.

50.

Non vedete, mortai, come ora spira

divinitá da que' begli occhi ardenti,

ch'un certo non so che ne i cor inspira

de li piú saggi vati ed eccellenti;

e quegli a poetar scalda e tira,

con leggiadri e inusitati accenti,

che nascon poi poemi singulari,

purgati, tersi, dotti, altieri e rari

51.

L'affabil maiestá grata e bella,

con grazia incomparabil d'ognintorno,

infuser largamente allor in quella

che disonor non sa, vergogna o scorno.

Correa Mercurio in la bissesta cella

per entro Astrea d'i talari adorno,

che dopo 'l sol aurato s'inalzava,

e veloce di corso fiammeggiava.

52.

Cosí ben collocato le piovea

elevato, sullime e dotto ingegno,

e d'eloquenza il fonte le fondea,

il piú fresco, il piú chiaro ed il piú degno:

e bel idïoma le sporgea,

e tal d'un dir soave caro pegno,

che, tacendo, sovente il suo bel viso

cose parla che fanno un paradiso.

53.

Il petto le purgò casto e puro,

che d'ogni grazia albergo il fe' capace,

e tra quante mai donne eccelse furo,

nulla con questa punto si conface.

Desir di vera fama ogni or sicuro

in mezzo l'alma le soggiorna e giace,

perché di Maia il figlio con la spica

in stella fissa allor lieto s'intrica.

54.

In la seconda sua Gradivo ancora

casa albergava e Scorpio seco a canto:

questi la fan liberal ogni ora,

larga, cortese in ogni canto,

ch'oro ed argento mai con lei dimora

non fa, ch'a ben donar gli istima vanto,

e gli sprezza e gode non averli,

com'altri gode e cerca possederli.

55.

Stava Saturno con la falce in mano

col Capricorno ne la quarta sede,

ed al grado di mezzo 'l ciel in vano

giá non s'oppose, se mi presti fede.

Perché perfetto senso e sopra umano

a chi cosí mirò mai sempre diede,

con memoria salda e tanto chiara

che si rammenta ciò chi l'uom impara.

56.

Saggi pensier il buon Saturno allora

le con altri doni pur assai,

e la novella etate le orna e infiora

di grazie non vedute in altra mai,

e: «Del saper a pochi noto ancora,»

disse, «fanciulla, le cagion saprai;

ché l'occolte scïenze dotta apprendi,

e tra' filosofanti il tutto intendi.

57.

Come la casa in pace si governi,

e di quanto bisogna sempre abondi,

ben disponi ch'antichi e moderni

sormonti pur e nulla mai confondi:

poi de gli stati il regger ben scerni,

e vedi i larghi mari e i cupi fondi,

che nel governo di provincie e regni,

fra' piú lodati il primo luoco segni».

58.

Cosí da l'alto Olimpo allor infuse

quante mai grazie può donar il cielo,

e fur largamente in lei diffuse,

come lo mostra con onesto zelo,

che ben si vede in lei ch'ogni bel chiuse,

ch'aver in terra possa d'alma velo,

che senza par vago e bel si vede,

che d'ogni bel del ciel qui giú fa fede.

59.

Giunon le chiome colorí con l'oro,

che nero smalto lievemente bagni.

Da Venere formati gli occhi fôro,

ch'un lucido zafir regga e accompagni.

Le nere ciglia con sottil lavoro

in arco Amor curvò, perché guadagni

con la luce che sotto vi risplende

chi la rimira e ch'ella lega e incende.

60.

Il profilato e vago naso altiero

formâr Marte e Bellona con lor mani,

ed albergo lo fêr perfetto e vero

di giusto sdegno contra spirti insani.

Mercurio, come ho detto, dálle impero,

che l'ire acqueti ed i furor rissani,

con l'accorte e soavi alme parole

che pôn fermar in ciel il vago sole;

61.

ch'ella fra perle orïentali e schiette,

e fra coralli e bei rubini ogni ora

forma le dolci e care parolette,

che da lor corpi l'alme cavan fòra:

e cose dice saggie e tant'elette,

e quanto parla, cosí ben colora,

con tal prononzia, con bell'idioma,

che d'amor i rubelli lega e doma.

62.

E tutti poi le dieron l'alto ingegno

di vero senno e di prudenzia pieno,

ch'a mille effetti mostra chiaro segno

com'il tutto penetra in un baleno.

E fêr che fosse l'unico sostegno

de la vertú che mai non verrá meno,

e le dier ne l'aspetto maiestate,

gravitá, leggiadria, grazia e pietate.

63.

E per non dir il tutto a parte a parte,

ché troppo lungo fôra il mio sermone,

quanti numi del ciel mai pose in carte

il piú di tutti dotto gran Varrone,

le grazie in tutte l'altre donne sparte

posero in questa come in parragone,

e d'ogni cosa la fêr compita,

che Momo non la morde né l'addita.

64.

E s'altre volte ornaro la Pandora

di molte grazie ed infiniti doni,

e quella Giove in terra pose allora

perch'ogni male a li mortali doni,

data n'è questa che cosí s'onora

perch'orni il mondo di costumi buoni,

e spieghi in terra largamente il dono

di quanti beni al mondo in donna sono.

65.

Se questa in Agrigento fosse stata

allor che Zeusi tante verginelle

volle nude veder perché lodata

piú l'opra uscisse sovvra l'altre belle,

bastava questa sol aver mirata

con le fattezze sue vaghe e snelle,

ché tutto 'l bel che 'n l'altre sparso fue,

raccolt'ha questa ne le membra sue.

66.

Né questo piú d'ogn'altra la fa degna,

(ancor che sola e piú perfetta sia),

ma piú famosa e chiara ogni or la segna

quel bell'ingegno cui mai par non fia,

quell'anima real, verace insegna

di quell'innata altezza e leggiadria.

A che dunque stupir se tutto 'l mondo

del nascer di costei si fe' giocondo?

67.

Perché non deve il mondo allegro farsi

al nascer di chi quello rinovella,

se d'altrui vede li rimedi scarsi,

fòr che di questa umana e viva stella?

Dunque si ponno a lei le lodi darsi,

che si den dar a piú perfetta e bella,

poi che d'abisso questa de' levare

l'alma vertute e tante grazie rare.

68.

Del fortunato nascer suo gioiva

il ciel piú dell'usato assai sereno,

e d'ogni parte tutto si scopriva

d'una gran gioia e d'allegrezza pieno.

La terra d'ognintorno dolce oliva,

di vaghi fior ornando il verde seno;

l'aria era queta come fosse mai,

e senza nubi il sol alzava i rai.

69.

Si vide l'una e l'altra sponda allora

del figlio di Sebino detto l'Oglio,

com'un bel prato Aprile inerba e infiora,

di fior ornarsi, non di lappe o loglio:

e tutto 'l pesce uscir del fondo fòra

saltellando per l'acque con orgoglio,

ché l'erbe, i fior e l'acque allor parea

che rallegrasse il nascer de la dèa.

70.

Per lungo spazio il chiar'e altiero rivo

rattenne il corso tutto pien di gioia,

e poscia in sé raccolto e d'altro schivo,

come chi nova cosa allegra e aggioia,

pensava al bel formato volto e divo

che deve il mondo trar d'angustia e noia,

e farlo piú che mai chiaro e famoso,

e sovvra l'altre etati glorïoso.

71.

Né troppo lunge il chiaro Mencio segno

d'inusitata gioia allora diede,

e: «Teco,» disse il lago, «o figlio, i' vegno

per far altrui di tanta grazia fede».

«O ben felice e aventuroso pegno,

ch'ogni crïata cosa in terra eccede

diceva Manto, la divina maga,

«quanto ti de' la stirpe di Gonzaga!»;

72.

ché tutte le piú belle e piú famose

dal Gonzaghesco ceppo fòr uscite,

e le piú sagge ancor e piú formose

per nodo marital a quello unite,

e quante altrove furon glorïose,

vince costei, né mai saravvi lite.

È questa un sole e l'altre sono stelle:

piglian beltá da questa l'altre belle.

73.

Non fôra senza 'l sol la luce in terra,

vita avrebbe cosa che qui viva:

cosí se 'l gran valor che questa serra

in mezzo 'l petto ed orna l'alma diva

che sempre il dritto tiene e mai non erra,

non spargesse la chiara luce e viva,

d'Amor il regno fôra pien d'errore,

in tenebre sepolto e cieco orrore.

74.

Si ritrovasse al meno un altro Omero,

o ver il chiaro gran poeta Andino,

che di questa sapesse il vero vero

scoprir, com'è, che 'l suo valor divino

ogni mortal allor col cor sincero

gioioso innanzi a sé trarrebbe e chino,

ch'ella con grazia avrá bellezza tale,

ch'adorata saria per immortale.

75.

Or tu che 'n foco tosto ti vedrai,

arso da le bellezze di costei,

l'alte sue lode e grazie canterai,

ch'altra cantar al mondo piú non déi.

Seco volando chiaro n'anderai,

ben che poeta basso e incolto sei;

ma chi canta di questa, chi ne scrive,

eternamente glorïoso vive.

76.

Non ti smarrir ma segui arditamente

bell'impresa com'il ciel ti dona:

ti dará forse questa in un repente

grazia di ber al fonte d'Elicona.

Ma seguitando quanto primamente

dicea poco anzi come 'l canto suona,

dico che 'l Mencio ed Oglio allor allora

mostravan gioia non piú vista ancora.

77.

E con Manto s'alzaro i cigni a volo,

empiendo l'aria d'un soave canto.

E di bei penti augelli un alto stuolo

d'intorno circondò la bella Manto:

la cittá tutta e 'l nobile Gazuolo

d'allegrezza vestiro un novo manto,

ed ogni cosa attorno lor ridea

per l'apparir di questa vaga dèa.

78.

Non ti rammenta, o figlio di Benaco,

quant'eri lieto allor, quanto giocondo?

E tu di Manto aventuroso laco,

come d'erbette ornasti il molle fondo?

Si cangiâr le cannucce in rose e 'l braco

di bella rena un suol divenne mondo,

tal che le vostre sponde attorno attorno

mostraro il luoco d'ogni grazia adorno.

79.

E tu che da Sebino con gran vena

in grembo accogli l'acque e porti al Pado,

non ti ricordi che la bella arena

d'argento e d'oro apristi in ogni guado?

Di fior e gigli allor fioriva piena

ogni tua riva al piú perfetto grado,

e dove il bel Gazuolo altiero lavi,

tutto 'l bel sito oliva odor soavi.

80.

Parea che nova luce desse il cielo,

e che gioia piovesse in ogni lato:

non v'era d'atra nube un picciol velo,

ma dolce aura spirava dolce fiato.

E gioioso andava il re di Delo,

alzato alquanto sovra 'l carro aurato,

che mai non diede al mondo un bel giorno,

tranquillo o di tal grazia adorno.

81.

Fòr de l'albergo del gran Giove allora

uscîr le Parche con cantar soave,

e disser: «Figlia, cui lo mondo onora,

perché pegno di te piú car non have,

tu d'ogni vizio il purghi, e cavi fòra,

lasci che nel mal giá piú s'aggrave;

tai le tue doti sono e la vertute,

onde sol nasce il ben, nasce salute.

82.

Ecco il tuo stame ricco e prezïoso,

che si concia da noi, si fila e torce.

Ei sará sempre bianco e glorïoso,

tal con lui grazia ogni or da noi s'attorce:

o stame eccelso, fino e aventuroso,

che dal buon naspo nulla mai distorce!

Cresci, fanciulla, cresci, ché tu sei

la cura, onor e pompa de li dèi».

83.

Cosí di Giove le tre figlie belle,

Eufrosina ed Aglaia e Pasitea

quivi eran giunte tutte grate e snelle,

com'a serve convien di Citerea.

Lucina allor in braccio pose a quelle

la bella figlia, anzi la nova dèa,

ed elle dolcemente la baciaro,

e le lor grazie tutte le spiraro.

84.

Partîr Mercurio, le Parche e Lucina,

e la cura lasciaro a le tre dive,

tal che di lor ciascuna ogni or vicina

a quella è stata e seco sempre vive:

giura la madre che le par divina

beltá veder in le fattezze vive,

il padre la rimira con stupore

e d'ogni bell'in quella vede il fiore.

85.

Piú bella a lor par questa assai di quella

che prima nata gli era, ed è fra voi

oggi tenuta la leggiadra e bella,

tai le fattezze sono e i modi suoi.

Chiamasi quella la diva Isabella,

che sovvra l'altre certo metter puoi,

tant'è dotta, gientil, polita e vaga

consorte di Rodolfo di Gonzaga.

86.

O raro a queste dato, o sacro dono

che due sorelle mostrino del cielo

d'ogni piú bell'il bell', il buon del buono,

sotto vago e leggiadro velo.

Queste del mondo 'l ver trionfo sono,

ch'empion le menti d'un onesto zelo,

e mostran com'Amor insano è cieco:

dico Lucrezia ed Isabella seco.

87.

Ma piú di lei quest'altra è bell'assai,

(perdonami, Isabella, ch'io lo dica):

i' so ch'a mal il vero unqua non hai,

cosí 'l ver ami e a quel ti mostri amica.

A quante il sol ne vede innanzi vai,

tanto se' bella e tanto se' pudica:

questa t'avanza e tutte l'altre ancora:

se tu le stelle, questa il sol scolora.

88.

Vedean le pargolette e belle membra

d'avorio, d'alabastro e schietta perla,

e 'l colorito viso ogni uomo assembra

a matutina rosa, quando per la

luce s'apre del sol, se ti rimembra

e bianca e rossa insieme allor vederla:

e quei begli occhi fin'allor giá tali,

eran d'Amor quadrella e acuti strali.

89.

Indi lustrata al sacro tempio, detta

Lucrezia fu dal sacro sacerdote:

che sovvra l'altre questa voce eletta

fu per mostrar in questa quanto puote,

con somma castitá, beltá perfetta,

e quanto potrá sempre, fin che rote

lei sovvra il cielo, perché questa sempre

avrá di castitá gli effetti e tempre.

90.

Poi perché si rinovi il chiaro nome

de l'ava sua materna gradita,

al por nel fonte quell'aurate chiome

ciascun la voce di Lucrezia addita.

E se la prima vuol il ciel si nome,

come famosa fu in morte e in vita,

questa vorrá ch'eterna dopo morte

ogni or si nomi e sovvra il ciel si porte.

91.

E se Lucrezia, la gientil romana,

morir elesse per serbar l'onore,

a questa non parrá mai cosa strana

prima morir che farsi disonore;

ch'ogni modestia con vertú soprana

se le vede albergar in mezzo 'l core,

che giovanetta ancor è tanto saggia

quant'altra il mondo piú prudente n'aggia.

92.

Or poi che questa signoril fanciulla

Lucrezia fu nomata al sacro fonte,

e dimostrava ne la ricca culla

il paradiso aperto aver in fronte,

l'alme tre Grazie, acciò ch'a quella nulla

mancasse de le grazie grate e conte,

col divin latte sempre la lattâro,

ed ogni grazia grata le spiraro.

93.

Delle tre dive fu ciascuna mamma

di questa, ch'oggi d'ogni bel s'indonna,

né le mancaro mai d'una sol dramma

a farla di vertú salda colonna.

Ed ella or questa ed or quell'altra mamma

di lor suggendo punto non assonna,

dolce crescendo, bella e tanto vaga

ch'ogni vista a mirarla in lei s'appaga.

94.

Chi questa vede subito s'ammira,

veggiendo la beltá singulare:

chi l'ampia fronte ed i begli occhi mira,

giura ch'a Citerea simil appare:

altri le labra di coral rimira,

che copron schiette perle senza pare;

chi loda poi l'angeliche parole,

u' l'eloquenza il seggio tener suole.

95.

Ché, ne l'etá che le fanciull'a pena

e mamma e babbo sanno balbutire,

questa del ciel armonica sirena

entro la culla si poteva udire,

con una voce di grazia piena

che faceva di sé ciascun gioire;

ma miracol non fu, s'avea nutrici

del ciel le Grazie sante e beatrici.

96.

E s'or si trova in qualche bel drapello

di vaghe donne in mezzo a' cavalieri,

u' si parle di questo ed or di quello,

o di casi d'amor varii e fieri,

porge l'orecchie e tutto 'l corpo snello

per udir meglio quanto fa mestieri,

e l'un con l'altro detto insieme accoglie,

né senza udir ciascun la lingua scioglie.

97.

Quando poi dice ciò che le ne pare

di quel ch'udito ella ha da tutti quanti,

si scopre d'eloquenza un alto mare

che meraviglia porge a' circostanti.

E tanta grazia in quelle labra appare,

ch'ogni un vorrebbe starle sempre avanti;

cosí dolce idïoma le fu dato

da le tre Grazie ch'ella ha sempre a lato.

98.

L'insegnâr queste i bei sembianti umani,

l'alte accoglienze amorosette e schive,

i dolci sguardi, or lieti, or scarsi, or piani,

e le maniere di soperbia prive,

quei rari modi, mai non folli o vani,

ed altre cose assai cielesti e dive,

l'andar divin con quella leggiadria,

i costumi gientili e cortesia.

99.

Indi i saggi pensieri le spiraro,

con quel disio che sol disira onore,

e l'alta umilitate l'appararo,

e giusto compartir il suo favore.

Poi di fermezza ancor cosí l'armaro,

ch'avversa sorte non le cangia il core,

anzi qual salda e ben fondata torre,

a sé da sé col suo valor soccorre.

100.

Di queste doti, in brevi, chiaro segno

diede la bella e pargoletta figlia,

che scesa ben parea da l'alto regno

per dar al mondo gioia e meraviglia.

E giá moveva molte donne a sdegno

l'almo favor de le stellanti ciglia,

veggiendo ch'ella ancor pargoletta

fosse l'albergo de le Grazie eletta.

101.

Seguí l'orrenda poi lugubre sorte,

che Camilla gientil, ahimè, morio;

la cui fiera ed immatura morte

quasi di Pirro il vivere finio,

ch'ei, perduta la cara sua consorte,

in preda al duol si diede e fece un rio

del fiero lagrimar ch'ogni or facea,

chiamando morte dispietata e rea.

102.

Si vide il sol allor tutto oscurarsi,

quasi dicendo: «Ahimè, di te mi doglio»:

e di sanguigne macchie dimostrarsi

carca la luna e intorbidarsi l'Oglio.

Non dier le stelle il lume ma mostrarsi

pallide e scure e colme di cordoglio,

e tutto 'l giorno avante e poi la notte

ulularo e' buboni per le grotte.

103.

Ché non solo la morte di Camilla

piagneva il ciel, e seco ogni elemento,

perch'a tal grado il viver suo sortilla

che chi l'amava devea star scontento;

ma presago del mal che poi seguilla,

ogni suo lume il ciel mostrava spento,

ché poco dopo lei deveva in vita

Pirro restar in doglia infinita.

104.

Non ti sovien ch'ei ti ricchiese allora

ch'a lui n'andassi a dargli alcun conforto?

Ove volando lo trovasti ancora

dal duol oppresso, ch'era quasi morto.

N'altro faceva mai da ciascuna ora,

ch'amaramente sospirar il torto

da morte ricevuto in simil caso,

che 'l suo bel sol mandato avea a l'occaso.

105.

Ei mezza luna allor ti tenne seco,

ch'altro non fece mai che star in pianto.

«Perché non venni, dolce vita, teco,»

diceva, «quando ti spogliasti il manto?

Perché non sono in un medemo speco

sepolto a starti eternamente a canto?

Com'esser può, che senza te qui viva,

se la mia vita è d'ogni spirto priva?

106.

I' non son vivo, ahimè, i' non son vivo,

ché di me 'l meglio sotto terra giace.

I' sono un'ombra e un corpo in tutto privo

d'ogni riposo, d'ogni speme e pace.

Lasso, m'aveggio ben, s'ancor i' vivo,

ch'è perché soffra ogni or duol piú penace;

ché vivendo mi sento sofferire

doglia maggior che non saria morire.

107.

Tu se' partita, ahimè, tu che sol eri

alma de l'alma, vita di mia vita.

O fuggitivi e brevi miei piaceri,

o mia speranza, come tosto è gita!

Avran mai tregua questi miei pensieri?

Darammi morte contra morte aíta?

Quando sará quel ch'a lei men voli,

e veggia 'l fine a tante pene e duoli?

108.

Qui senza te son giorno senza sole,

senz'acqua fonte e notte senza stelle,

senz'erba prato, april senza vïole,

senz'alma corpo che da me si svelle.

Lo star in vita mi tormenta e dòle,

ché senza le tue luci ardenti e belle,

com'esser può che morto ancor non sia,

se sempre è morta questa vita mia?

109.

Vivo son dunque e tu, Camilla, sei

partita, ahimè, tu se', Camilla, morta?

Camilla, senza te gli affanni miei

chi da me leva o pur chi mi conforta?

Sola, Camilla, altrove star tu déi,

ch'eri mia guida e mia fidata scorta?

Ahimè, che parlo, lasso! ben m'aveggio

che forsennato di dolor vaneggio.

110.

Non è Camilla morta, anzi sen vive,

ed io son morto privo d'ogni senso.

Ella tra l'alme in ciel beate e dive

gode felice il ben supremo e immenso.

Aspettami, Camilla, ch'io t'arrive,

ch'altro piú che seguirti ora non penso,

e prego il gran Fattor che mi discioglia

tosto da questa sfortunata spoglia.

111.

Ma s'io son morto, a che cercar piú morte,

se senza alma qui parlo e senza core?

Come può dunque in me, quantunque forte

il duol che m'afflige in tal dolore?

Lasso, m'aveggio che la morte ha morte

le mie speranze e son di vita fòre;

ché son teco, Camilla, i' sono teco,

e tu, Camilla, sento che se' meco».

112.

Cosí diceva in voci assai dolenti,

e: «Camilla, Camilla», ogni or gridava.

L'Oglio piú volte a gravosi accenti

il nome di Camilla replicava:

Camilla gli arboscei, Camilla i venti,

ed eco ancor Camilla rissonava,

né mai vi fu rimedio d'acquetarlo,

seco piagnendo le figliuole e Carlo.

113.

Ch'Isabella e Lucrezia pargolette

piagnean veggiendo lagrimar il padre,

e Carlo fra l'amare lagrimette

chiamava spesso l'onorata madre.

Ei che sapeva e queste figliuolette,

se ben le guance lor restavano adre?

Ché non era l'etate lor capace

di duol, di gioia, né di guerra o pace.

114.

Né, dopo, molto stette Pirro in vita,

che vinto dal dolor aspro e feroce,

non ritrovando al suo martír aíta,

che d'ora in ora piú cresceva atroce,

per seguir l'alma de la sua gradita

gentil Camilla, libero e veloce,

chiamando ogni or Camilla sen morio,

e con Camilla in bocca al ciel salio.

115.

Itene in pace, spirti fortunati,

di fede marital unico esempio:

come qui sète sempre in pace stati,

cosí volati nel cieleste tempio,

godete il ben che fa chi l'han beati,

senza tema d'aver mai doglia o scempio:

se nulla i versi miei giá mai potranno,

eterni i vostri nomi viveranno.

116.

Crescea Lucrezia bella ogni or piú bella,

piú saggia, piú leggiadra e piú gientile,

e di begli occhi l'una e l'altra stella

mostrava al mondo in atto signorile.

Come Lucrezia in quell'etá novella

era d'amor il tacito focile,

ch'accende chi la mira a poco a poco,

ed arde il ghiaccio e spesso agghiaccia il fuoco,

117.

cosí la fanciullesca etá primera

passò crescendo in anni e leggiadria.

Né tanti fior discopre primavera,

com'ella ha segni di vertú natia.

Si vede la ragion ch'al senso impera,

e com'ogn'or dal vizio si disvia,

sempre piú bella, piú discreta e vaga,

che sol del ben oprar la mente appaga.

118.

Quell'arti ch'a real, gientil fanciulla

convengon d'apparar, tutte sapea.

E co l'ago e col velo si trastulla,

ch'Aracne, anzi pur Pallade, parea.

Lettre apparò fin quasi ne la culla,

e con le Muse spesso si mettea,

e soavi i versi lor cantava,

che spesso l'Oglio al canto suo fermava.

119.

E se talor al dolce e mastro suono

i piedi snelli lietamente move,

ben si vede che quel raro dono

dal ciel in quella largamente piove:

ché 'n quante piú tenute mastre sono,

tanta grazia non è chi piú ritrove:

ch'ella si gira , cosí camina,

che non donna mortal, ma par divina.

120.

Lascivia non si vede che si mostri

in que' suoi gesti, movimenti e giri.

Sol ivi par che con le Grazie giostri

modestia tal che sempre gioia spiri.

Con leggiadra onestá par che dimostri

quanto di bell'il ciel vuol che si miri,

piú mirar si possa in donna alcuna,

ch'ogni bel, ogni grazia in lei s'aduna.

121.

Ma chi mirar potesse gli occhi fiso,

ove mai sempre armato siede Amore,

vedrebbe quel divino e altiero viso

e fuoco e fiamme sempre spirar fòre:

vedrebbe aperto un novo paradiso,

che purga d'ogni foll'amor il core,

e sol v'accende di vertú disio:

beato ch'a tal fuoco s'infollio.

122.

Questi son gli occhi dov'Amor alberga,

ch'altra piú stanza non l'appaga o nido.

Per questi, quanti al mondo son posterga,

c'han di piú belli ogni or la fama e 'l grido.

Qui chi vuol gioia poggi, a questi s'erga,

ma sia leal, costante, onesto e fido;

ch'innanzi a begli occhi unqua non dura

chi non ha l'alma d'ogni macchia pura.

123.

Questi son gli occhi dov'Amor impera,

e spiega i suoi trionfi in festa e 'n gioco;

ché chi la terza regge e gira sfera,

a questi ha dato il suo vivace fuoco,

con tanta leggiadria onesta e altiera,

e grazia, che fa l'altre stimar poco.

E tal è la vertú di tal favore:

vive chi l'ha, chi nol possede more.

124.

Questi son gli occhi che la vita dánno,

se mirano un con lieta e vaga vista,

e con tal grazia i caldi rai sen vanno

d'ogni dolcezza e di piacer mista,

ch'un mar di gioia in petto a l'uomo fanno

che simil don (o don del ciel) acquista.

E s'avviva innanzi a que' begli occhi

che non v'è mal che piú l'offenda o tocchi.

125.

Questi son gli occhi lucenti e gai,

cosí gioiosi e di dolcezza pieni,

che fuggan d'ognintorno sdegni e guai,

e fan che l'aria scura si sereni.

Ma s'irati dispiegan que' lor rai,

folgoran come lucidi baleni,

e chi gl'incontra allor stordito resta,

come tocco dal folgor su la testa.

126.

Questi son gli occhi e le stellanti ciglia

c'han le bellezze al mondo uniche e sole.

Da questi l'arco Amor e 'l fuoco piglia,

ed indorarvi le quadrella suole.

Con questi ogn'alta impresa Amor consiglia,

che son del mondo il nodritivo sole.

Con quest'ogni uom Amor legato tiene,

che sol per loro il regno suo mantiene.

127.

Questi son gli occhi, anzi duo chiari soli,

di nostra vita tramontane stelle,

e quanta sta beltá tra i fissi poli,

par che tutta da lor si rinovelle.

E son belli, cocenti e soli,

vibrando cosí dolci le fiammelle,

che quell'ardor accende il mar e 'l cielo,

l'aria e la terra d'un onesto zelo.

128.

Questi soli gli occhi ch'ad un vago giro,

quand'ella lieta si dimostra in viso,

puon radolcir ogn'aspro e fier martiro,

e l'arra dar a voi del paradiso;

ché con quel vago ed immortal zafiro

ogni piacer si vede sempr'assiso,

e seco unita tal dolcezza e gioia

ch'addolcisse l'assenzio e 'l mal aggioia.

129.

Questi son gli occhi l'alte cui faville

ogni cor rintuzzato fan gientile,

perché vuol Giove ogni or che 'n quei distille

d'Amor perfetto il vero e buon focile,

ché dov'avien che 'l fuoco lor scintille,

indegnitá non sta, né cosa vile,

ma prende chi li sente nova forma,

e ratto in quelli tutto si trasforma.

130.

Questi son gli occhi il cui valor è tale

che l'alma purga d'ogni rio pensiero

e fa che chi li mira spiega l'ale

a la ragion di sé dando l'impero,

e s'affina e tant'in alto sale,

ch'indi si leva a contemplar il vero

Motor del ciel per la sembianza bella

che d'ogni bell'il bel comprende in quella.

131.

Questi son gli occhi dov'Amor fa mostra

de l'alte sue vittorie e ricche pompe,

e potente a l'ombra lor si mostra

ch'ogn'altro nodo subito dirrompe.

E s'adorna, s'abbellisse e inostra

che d'altri imprese guasta ed interrompe,

onde chi mira pur quest'occhi un poco,

allor ammorza in cor ogn'altro fuoco.

132.

Quest'occhi statue son, collossi e segni,

piramide, trïonfi, archi e trofei,

che ne mostran d'Amor i grandi regni

a lui soggietti (mercé di costei).

Questi son gli occhi sovvra tutti degni,

possenti a rischiarar gli abissi rei,

e quando Giove piú s'adira insano,

torgli ad un cenno l'arme fòr di mano.

133.

Ma s'io vuo' dir di quest'almi lucenti

occhi il poter e tante eccelse grazie,

altra voce bisogna ed altri accenti,

e che piú cupo mar mia barca spazie.

Ma miracol non è se son possenti,

avendo sempre seco le tre Grazie,

le Grazie ch'han di lei fatta cura,

qual non ebber giá mai di crïatura.

134.

Il poggio di vertú molt'alto ed erto

le Grazie le mostraro assai spinoso,

di sterpi e sassi cinto, e deserto,

che tutt'era arso, distrutto e corroso,

ed era il suo sentier selvaggio e incerto,

tutt'impedito, stretto e periglioso.

Ma sovvra 'l poggio v'era un luoco ameno,

con l'aria temperata e 'l ciel sereno.

135.

su l'albergo di vertute v'era,

il piú soperbo e ricco che mai fosse,

con un giardin bel che primavera

e l'autunno da quel mai non si mosse:

il verno con l'estate ardente e fiera

con lor influssi non li dán percosse,

ché la vertute il tutto fa star saldo,

teme il freddo e men istima il caldo.

136.

Da l'altra parte le scopriro il colle

u' regna il vizio, padre d'ogni male.

Ogni durezza dal sentier si tolle

ch'assai largo e sicuro in cima sale:

e tanto 'l luoco è delicato e molle

ch'a salir non bisognan gradi o scale,

che piano quasi il provi e tal diletto

ch'ingombra d'allegrezza il cor e 'l petto.

137.

Ma com'in cima del sentier s'arriva,

albergo non vi s'ha, né tetto o casa;

d'ogni piacer è quella piazza priva,

u' sol di mal in peggio si travasa.

Quivi persona non si trova viva,

u' d'uom sembianza mai non è rimasa,

ma sol si trovan mostri orrendi e strani

senza piè, senza capo e senza mani.

138.

Non fe' mai Circe tanti mostri e fere

quanti ivi se ne veggion tutta via:

orsi, lioni ed istrici e pantere,

lupi, avoltori e ancor piú d'una arpia,

porci infiniti e volpi e gran chimere,

e con le serpi i corvi in compagnia:

e sempre rissa v'è, sempre romore,

ch'ivi l'invidia e l'odio mai non more.

139.

Vi sta nascoso il vizio in un d'i lati,

ed esce con bel viso e tutti piglia.

N'a pena tocchi gli ha che trasformati

si veggion tutti e cangian volto e ciglia:

son loschi, storti e zoppi cangiati,

qual fatto è 'l vizio a cui l'uomo s'appiglia.

E su la nuda e mal fetente soglia

sempre v'è pena con martír e doglia.

140.

Disser le Grazie a la fanciulla: «Vedi

due strade, figlia, de la vita umana.

Se 'n questa u' regna 'l vizio metti i piedi,

piacevol ti parrá e quasi piana;

ma s'al nostro parlar punto tu credi,

da questa resterai sempre lontana,

perch'al fin giunta de la falsa strada,

forza è che 'n precipizio allor tu cada.

141.

Sará 'l principio con diletto e gioia,

fin che tu giunga a la dolente cima,

ove mai sempre con perpetua noia

dolor mordace tutti i cori lima.

Quivi convien che chi v'arriva moia,

e perda la sembianza ch'avea prima,

e resti eternamente in doglia e 'n pena,

ché sol a morte questa strada mena.

142.

Ma se vertú vorrai, figlia, seguire,

e restar sempre viva ed immortale,

ti converrá per questo sentier gire,

u' nessun quasi o raro su vi sale.

E quanto piú fatica sofferire

da prima ti parrá, tanto piú l'ale

del bel ingegno spiega, e saggia e forte

fa che per sterpi e sassi il piè ti porte.

143.

Ché se parrá la via faticosa,

non dubitar, per che tu la vedrai

tanto piú bella, piana e spazïosa,

quanto piú innanzi arditamente andrai.

Salita poi su, glorïosa

sempre e felice al mondo viverai,

che dopo morte ancor resterai viva,

chiara, famosa, fortunata e diva.

144.

Perché se guardi ben, cara figliuola,

tu troverai che di vertute ogni opra

famosa resta e chiara al ciel ne vola,

seco levando chi la segue e adopra;

ma chi del vizio alberga in l'empia scola,

forza è che tristo, vile e reo si scopra,

e sia sprezzato e sempre mostro a dito,

da i buon negletto, odïato e schernito.

145.

Ogni opra vizïosa con diletto

sempre si fa, ma fatta poi despiace,

ché resta in mezzo al scelerato petto

di chi mal opra un verme mordace

che 'l lima e rode, e lo tiene astretto,

che 'n tutto il priva di tranquilla pace.

Ratto il piacer qual fumo o nebbia passa,

e pentimento e doglia sol vi lassa.

146.

Ma l'opra vertüosa al suo fattore

apporta ne l'oprar noia e fatica,

perché chi vuol de l'alte imprese onore,

suda ed agghiaccia e sempre s'affatica:

poi del travaglio come s'esce fòre,

e fatt'è l'opra a la vertute amica,

passa l'affanno in un momento, e resta

del ben oprar eterna gioia e festa.

147.

E come l'uomo al ben oprar si pone,

ed ha piú volte il giusto adoperato,

che ne l'opre vertüose e buone

ha con la mente il saldo cor fermato,

a la vertú facil si dispone,

che piú non piega verso il manco lato,

ma con piacer a glorïose imprese

le voglie ha sempre tutte volte e accese.

148.

Pensa, figliuola, che difficil cosa

è la mente guastar ch'al ben è avezza,

perché ne l'opra è sempre gioiosa

che fatica non sente, né durezza.

L'abito ha fatto a l'opra vertüosa,

che non si muta poi con liggierezza,

e quanto piú nel ben oprar s'indura,

tanto è piú forte, e quasi vien natura.

149.

Ch'a tal si viene in questo che dapoi

tanto si sprezza il vizio e s'aborre

che, con quante lusinghe ei faccia poi,

non può dal ben il saldo cor distorre.

sono aperti i falsi inganni suoi,

e tanti lacci al fin non sa disporre,

che non s'accorga il miserel che 'l bene

sempre lo fugge e 'l destro camin tiene».

150.

A questo attenta, la real donzella

stava, ascoltando le graziose dive,

e 'l tutto riponeva ne la cella

de la memoria, qual che 'n libro scrive:

ché ben vedeva quanto vaga e bella

l'alma si fa che senza vizio vive.

Cosí cresceva in anni ed in valore,

al camin di vertú drizzando il core.

151.

E l'uno e l'altro corno di Parnaso

col fonte d'Ippocrene le mostraro,

che battendo li piedi fe' Pegaso,

dolce, famoso e cosí chiaro.

E di quell'acqua del sacrato vaso

piú fïate le labra le bagnaro:

indi gli spirti le restaro accensi

a penetrar de li poeti i sensi.

152.

Cosí nel bel giardin di quel d'Arpino

condutta, colse erbette, frutti e fiori,

e de l'ornato dir terso e latino

gustò con l'eloquenza i sacri ardori.

E 'l tutto riponendo nel divino

petto s'ornava di que' bei colori;

senso vi lasciò, n'alcuna parte

che non leggesse de le dotte carte.

153.

Passò ne l'orto poi, che par aperto

a prima vista, e quanto piú vi miri,

piú lo trovi lontano e piú coperto,

con torte strade ed ingombrati giri.

Quivi l'incerto fassi parer certo,

e 'l falso come vero spesso ammiri,

sentendo l'acutezza d'i soffismi

armati d'infiniti sillogismi.

154.

Ma Lucrezia che seco avea le Grazie,

che del Verzier sapean la vera strada:

«Ove volete voi che vosco spazie

disse, «e per qual sentier convien che vada

«Se le tue voglie brami veder sazie,

e di quest'arte il fin saper t'aggrada,

figliadisser le Grazie, «in questo luoco

fa che dimori quanto puoi piú poco.

155.

Ché qui, non per saper, ma per far lite,

odi 'l romor che quei gridando fanno.

Ed han le lingue cosí pronte e ardite,

che falso senso al vero senso dánno.

Ma le menti ch'al ver si sono unite,

non puon soffrir il lor occolto inganno;

onde con l'arme di quel di Stagira

troncano 'l falso e fan che 'l ver si mira.

156.

Però, figliuola, in questa destra parte

fa che ti pieghi e metti 'l tuo pensiero,

ché questa è la real scïenza ed arte,

che t'insegna partir dal falso il vero.

Questa argomenta, deffinisse e parte,

che 'l tutto vede con occhio cervero:

e come alcun sofista sente o incontra,

subito il vero mette a lui per contra».

157.

Indi Lucrezia da le Grazie instrutta

ad apparar il vero sempre attese,

ed a saper real si diede tutta,

perché natura e 'l genio al ben l'accese;

però quel vivo ingegno al mondo frutta

quant'ella tra li veri studi apprese,

con le donnesche doti e grazie rare

che la fanno del tutto singulare.

158.

Ma per ora mi credo ch'a bastanza

i' t'abbia detto ciò che devea dire,

e piú de l'opra che del tempo avanza,

se brami 'l tutto di costei sentire,

perch'io non vuo' che tu ti parta sanza

quanto t'ho da cantar al fine udire;

ché ti dirò meravigliosi effetti,

se fin ch'io poso a ragionar m' aspetti.

159.

Mentre ch'io taccio adunque e piglio lena,

quanto di lei t'ho detto penserai,

e in la memoria, com'in cella amena,

bel tesoro unito serberai;

ché forse un giorno con sonora avena,

com'ella ti dará lo canterai,

altrui scoprendo ciò ch'io ti dimostro

con le vergate carte e co l'inchiostro. –





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