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Matteo Bandello
Canti XI... Le III parche

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  • CANTO IV
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CANTO IV

 

1.

Parrá forse ad alcun che ciò ch'i' dico

di voi, Lucrezia, e di tanta eccellenza

quanta non è né fu nel tempo antico,

si dica senza vero ed avertenza;

ma 'l vostro gran valor e 'l cor pudico

pien di bontate e somma intelligenza,

con tante doti e grazie quante avete,

mostran che senza ugual in terra sète.

2.

E se dal ciel imposto m'è ch'io scopra

quanto la vaga Ninfa suona e canta,

come schifar potrò, ch'i' non discopra

in carte cosí bella istoria e santa?

Del ciel il Re che regna a noi disopra,

di tanta grazia ogni or vi veste e ammanta

ch'impossibil estima ogni mortale,

che, qual v'ha fatta, voi sïate tale.

3.

Tutte le cose fòr d'umano modo

dánno a' mortai stupor e meraviglia:

ciò che di voi da l'Eridania i' n'odo,

a cosa sol cieleste s'assimiglia:

e quel che spesso in voi mirando i' godo,

di sé cosí m'ingombra e 'l cor mi piglia,

che poi contar non soporre in carte

di mille e mille pur una sol parte.

4.

Se 'l Mantovano e 'l gran poeta greco

che cantâr tanti glorïosi eroi

adesso si trovassero qui meco

mirando i don del ciel ch'avete voi,

sprezzati i canti lor, voi sola seco

vorrian portar da Calpe a i liti Eoi,

dal Carro a l'Ostro, e far ch'ogni un contezza

di voi pigliasse e de la vostra altezza.

5.

Ma uopo non avete voi di tromba,

che senz'altrui favor giá sète tale,

e 'l vostr'altiero nome ribomba,

che fatta sète eterna ed immortale.

potrá 'l tempo mai, n'oscura tomba

tarpar a vostra fama le bell'ale,

che fòr del corso uman tant'alto vola

illustre e glorïosa, eterna e sola.

6.

E poi tal dono il Re del ciel v'ha dato,

(tant'a quel piacque farvi singulare),

che 'l nome vostro, da chi sia cantato,

possa a chi 'l canta eterna fama dare.

E com'esser potrá non ben purgato

quel canto dove il nome vostro appare,

se dove è posto, il tutto purgar suole,

come la terra purga il chiaro sole?

7.

Per questo a dir di voi mosso mi sono,

ché perder nulla e guadagnar assai

posso mai sempre che di voi ragiono,

cantando vostre doti e i chiari rai.

E se ben canto in basso e roco suono,

che Parnaso non vidi o 'l fonte mai,

tal il vostro favor mi dona il canto,

(vostra mercé), ch'a voi men volo a canto.

8.

E porta il nome vostro tal vigore

ch'abbellisce ogni cosa a lui d'intorno,

ed a chi 'l canta presta tal favore

ch'onta patir non può, vergogna o scorno.

O me beato, poi ch'a tant'onore

m'avete eletto e di tal grazia adorno,

per ch'oggi in terra sola sète quella

che veramente donna il mondo appella.

9.

Quanto vi dico palpo con la mano,

e veggio tante doti vostre ogni ora

che chi vi mira con occhio ben sano

ratto s'inclina a voi, v'esalta e onora,

e scerne chiaramente poi che vano

altra beltá cercar al mondo fôra;

che d'ogni bell'il bello, il buon del buono

uniti in voi con ogni grazia sono.

10.

Ché le cosparse grazie in questa e 'n quella,

ch'ebbe l'antica ed ha la nostr'etate,

e ch'avrá mai chi fia leggiadra e bella,

o che posta sará fra piú lodate,

il ciel in voi comparte e rinovella,

con la piú grata e via maggior beltate,

e miracol vi fa de la natura

con arte, diligenzia, studio e cura.

11.

E quel ch'io parlo tutto 'l mondo vede,

come si scerne, il sereno, il sole:

di questo s'ha certezza e non s'ha fede,

come di molte antiche dir si suole.

D'Arpalice e Camilla il grido eccede

forse piú che di lor il ver non vuote,

ed è Pantasilea fra le famose;

ma chi sa se giá mai l'arme si pose?

12.

Perch'a' poeti ed a Vergilio 'l padre

piacque lodarle, restan vive e chiare;

indi son l'opre lor dette leggiadre

e la fama ne vola e chiara appare.

Furo o non furon fra l'armate squadre,

vive si veggion fra le piú preclare,

ché s'un cantate al mondo non le avesse,

chi fôra ch'oggi quelle conoscesse?

13.

Ond'a l'effetto è ben conforme il nome

di voi poeti glorïosi e chiari,

tal ch'a Dio presso ne votate come

si fan le basse cose a l'alte pari.

Iddio di nulla il tutto fece, e prome

cose inaudite, sacre e singulari,

e con enigmi i detti suoi ne vela,

e quasi a tutti ciò che dice cela.

14.

Cosí, cantando voi sullimi versi,

di nulla spesso cose grandi fate,

e, sotto i vostri carmi eccelsi e tersi,

alti e divini sensi ogni or celate.

E son di tal saper profondo aspersi,

ch'a pochi il senso occolto rivelate.

E chi da voi lodato si ritrova,

viver eterno dopo morte prova.

15.

Corinna è nota perch'Ovidio l'ama,

e con suoi versi quanto può l'onora.

Delia e Neera il buon Tibullo chiama

sovvra tutte eccellenti e quelle adora.

Properzio Cinzia sol esalta e brama,

e 'l suo soccorso, come diva, implora.

Catullo il dotto la sua Lesbia cerca,

e cantando di lei la loda e merca.

16.

Che se Vergilio il forte Enea e pio

non avesse cantato come canta,

forse ch'eterno ed immortal oblio

ne l'abisso il terria con gente tanta.

Questa è grazia che dona il sommo Iddio

a' vati, n' altro di tal don si vanta,

ché ciò che loda il buon poeta o biasma,

cosí chiaro si mostra o ver fantasma.

17.

E chi saprebbe se mai fosse stata

al mondo Laura, famosa adesso?

E ch'averebbe Bice mai nomata

che 'n bocca de li dotti or è si spesso?

Se 'l gran Petrarca in l'opra sua lodata

quella chiara non avesse espresso,

e Bice Dante cantata ogni ora,

che morta vive ed è pregiata ancora?

18.

Né questo i' dico per che 'l sesso vostro

far non si possa illustre ed eccellente

d'arme e di lettre, come il sesso nostro,

pur che le donne vi mettesser mente.

Ma par appresso molti quasi un mostro

che donna lettre appari o sia valente,

e voglion sol che a l'ago e al fuso attenda,

n'altra piú cura che di questo prenda.

19.

Il ben si de' lodar mai sempre, sia

in qual si voglia tra' mortali sesso.

Lettre apparar e starsi tutta via

con rari ingegni e dottrinati appresso,

da mill'atti inonesti ne desvia,

ed a bell'opre ne conduce spesso.

È de l'alma il saper quel ben perfetto

che fa compíto l'umano intelletto.

20.

Tal da gl'indotti a' dotti è differenza,

qual è da l'uom dipinto al vivo e vero,

che d'arti liberali è la scïenza,

in uomo e 'n donna di saper intiero,

qual perla orïentale in eccellenza

che si leghi con or fino e sincero,

o come in ciel sereno il chiaro sole

che 'l mondo con soi rai allumar suole.

21.

E se 'l saper fa l'uom illustre e chiaro

fra gli idïoti e fra li dotti ancora,

quanto piú degno sempre e piú preclaro

di bella donna un dotto ingegno fôra?

Ché la dottrina con beltate a paro,

qual dèa fra l'altre la farebbe ogni ora,

e tanto piú lodata si vedrebbe,

quanto piú rara e dotta ella sarebbe.

22.

Farebbero le donne d'ogni cosa,

se fosse chi pigliasse di lor cura,

ma resta la vertute lor nascosa,

ch'invidia altrui la tiene in sepoltura.

E pur ve n'è piú d'una glorïosa

per arme, per ingegno e per scrittura.

E tal a' nostri giorni ben canta,

che di molti poeti il nome ammanta.

23.

Evvi la donna di Pescara, degna

che se le sacri l'edera e l'alloro.

Veronica da Gambera l'insegna

de le Muse dispiega in mezzo il coro.

V'è Lavinia Colonna che dissegna

a la lingua materna dar ristoro,

con un giudicio cosí dritto e saggio

che sovvra tutte sta senza paraggio.

24.

V'era Cecilia Bergamina ancora,

mastra del dir e d'ogni arguto stile.

E Camilla Scarampa Italia onora,

dotta si scoperse e sottile.

Cantava Margarita Tizia allora

ch'ebbe fòr che le Muse il tutto a vile.

Or Lucrezia per sé tant'alto vola

che sovvra tutte si dimostra sola.

25.

Né l'è bisogno che poeta scriva

l'alte sue lode ed unico valore,

perch'al merto di lei stil non arriva,

e son le penne scarse a tanto onore.

Ma chi parla di lei, seco s'aviva,

e fòr del volgo va col suo favore,

ché sol al vero pregio s'alza e attende,

ed immortal il suo bel nome rende.

26.

D'ogni cosa gientil che merti lode

ogni or s'adorna e 'n questo s'affatica,

e de l'altrui vertú lieta gode,

come de' far l'amica de l'amica.

Ratto s'accorge d'ogni inganno e frode,

com'il cieco s'avede de l'ortica.

Ma tempo è di tornar u' si dicea

con le tre Grazie questa quarta dèa.

27.

I' dico ch'Eridania, seguitando

di Lucrezia a cantar le grazie rare,

e tutta via di lei pur ragionando

cose inaudite, glorïose e chiare,

– Questa, – dicea, – di cui le lode spando,

cominciava di sé tal fama dare,

che s'ammirava ogni uom che 'n quell'etate

avesse con tal grazia tal beltate.

28.

E ch'ammirato non si fôra, s'ella,

mirabil tutta e fòr d'ogni credenza,

mostrava, ne l'etate ancor novella,

d'anni maturi la saggia eccellenza?

Si vedeva gientil, accorta e bella,

di bei costumi ornata e di presenza,

che giá spirava maiestate grave,

divino ingegno ed un parlar soave.

29.

Il mastro che de l'arti liberali

il metodo le , come si suole,

tante cose non puote mai né tali

esplicarle dinanzi ne le scole,

ch'ella non l'apprendesse allora quali

l'espositor le disse, e le parole

istesse recitava assai sovente;

cosí quanto sentí ritenne in mente.

30.

E se talor alcun le proponea

argumenti contrari a ciò ch'udiva,

replicava ella il tutto e poi sciogliea

il falso nodo con ragion ben viva.

O s'era uopo il tutto distinguea,

e la risposta cosí dotta ordiva,

ch'al saggio disputar, al suo sermone

ammirate restavan le persone.

31.

Il che su veggiendo il sommo Giove,

chiamò Mercurio a sé e disse lui:

«L'alta vertute e le bellezze nove,

ch'abbiam formate e favorite nui,

tempo ne par di trasferir altrove,

perché meglio si veggian da l'altrui

vista que' modi ed il saper reale

che rinovar il mondo da sé vale.

32.

Cosí si trasferisce un arbor spesso

d'un luoco a l'altro perché frutti meglio,

e un uom sovente in altra parte messo

al ben si forma senz'alcun pareglio.

Questa che da Gazuol si leva adesso,

ogni or verrá piú chiaro e vago speglio

di grazia, di beltá, d'ogni vertute,

al vizio morte e al ben oprar salute.

33.

Però tu n'anderai, diletto figlio,

e fa che trovi il mio feroce augello:

dilli che col rapace e acuto artiglio,

soave prenda quel bel corpo snello,

e, come dato gli averá di piglio,

si levi ad alto, e 'l vago viso e bello,

dolce portando, lo riponga poi

ove giá sai ch'abbiam fermato noi».

34.

D'Atlante il buon nipote via si parte,

l'armigero del padre ricercando,

che da l'alta ed ombrosa d'Ida parte

Ganimede nel ciel portò volando.

Ritrova ch'egli le saette parte,

che vibra Giove in terra folgorando,

quando turbato contra l'uom e in ira

spezza le nubi, e tuoni e lampi tira.

35.

Ché vuol il Re del ciel che la beltate,

ch'i' t'ho cantata ed egli fove e accresce,

acciò che 'l mondo in quest'errante etate

la prezzi e stimi piú quant'ella cresce,

perfetta sia e prenda qualitate

da la vertú che punto non decresce,

e presa da l'augel altrove viva,

lasciando d'Oglio la paterna riva.

36.

Vuol che la porti in mezzo a un sacro bosco,

ch'a mano a man mi sentirai scoprirti,

u' l'aer mai non è turbato o fosco,

e genebri vi son con lauri e mirti.

Fera quivi non è n'amaro tosco,

ma sol benigni e grazïosi spirti.

E se talor augel rapace o fera

v'arrivasse, convien che tosto pèra.

37.

Poi di costanzia, d'ogni lode degna,

si vede il verde bosco ricco e adorno,

ov'ogni calle de la selva segna

chiara vertú che mai non teme scorno.

Ogn'atto e bel costume ivi s'insegna,

né d'altro mai si parla tutto 'l giorno

che d'arme e di valor e studi santi,

e qual poeta piú soave canti.

38.

È questo bosco a Venere sacrato,

che verde ed odorato ogni or il rende,

e tra Benaco e 'l Chiesi al ciel alzato,

al Tartaro vicin suoi rami stende:

di mirti è pieno e di genebri armato,

e qualitá da gli arboscelli prende:

ivi sará la stanza di costei

che ti cantano adesso i versi miei.

39.

Or quivi Giove vuol ch'un tempo stia,

dando di sé non bassi esempi al mondo,

ed in vertute e grazie tutta via

crescendo aggrazii il viso bel giocondo.

E quella senza dubbio in terra sia

che cacci il vizio de l'abisso al fondo,

stando nel mezzo a l'odorata selva,

ov'ogni grazia, ogni piacer s'inselva.

40.

Ché due sorelle a lei d'amor e sangue

congiunte de la selva hanno la cura,

la cui custodia mai non cessa o langue,

ma vigilante sempre e saggia dura:

e d'ora in ora come lubrico angue

ringiovenisce e fassi piú sicura,

e fa del vizio fiera e cruda strage,

lunge scacciando l'opere malvage.

41.

Sorge nel mezzo de la selva ombrosa

d'acque lucenti una fontana viva,

che giú per l'erbe se ne va nascosa,

fin che nel fiume mormorando arriva.

Apollo quivi spesso si riposa

con le nove sorelle a l'aura estiva:

cantano quelle ed ei suona la lira,

e la sua Dafne ancor piagne e sospira.

42.

E d'elevati ingegni e sacri vati

s'odon le cetre rissuonar le lode,

or degli eroi a pien non mai lodati,

or de le ninfe belle senza frode.

Altri con detti altieri e ben limati

di natura mostrar le doti s'ode,

e misurar le stelle un altro in cielo,

e dir come ne l'aria fassi il gielo.

43.

Quivi vedrai la verginella altiera,

de la foresta a l'ombra, vaga e snella,

ornarsi di vertú perfetta e vera,

sempre leggiadra piú, sempre piú bella.

E come si riveste a primavera

l'antica madre e 'l mondo rinovella,

appo le gientil sorelle questa

verrá piú bella ogni or, piú saggia e onesta.

44.

E di quanto udirá cosí da loro

come dagli altri, pur che buono sia,

mettrá de la memoria nel tesoro,

facendone conserva tutta via.

E piú che gemme, che ricchezze ed oro

apprezzerá vertute e leggiadria:

e col giudicio saldo, puro e intiero,

il falso lascierá, terrassi al vero.

45.

Ché quanto altrove avrá riposto in core

di lettre, di costumi e di maniere,

com'oprar debbia chi vuol farsi onore,

o senza macchia il nome mantenere,

ivi vedrá mostrarsi aperto fòre

con giuste menti libere e sincere;

tal che farassi al ben oprar forte,

che piú l'onor stimrá, che non la morte.

46.

Vedrá gli altieri modi e i bei costumi

de le saggie matrone e singulari,

che sono in terra duo cielesti numi,

e van d'ogni bontate unite e pari.

Queste 'l ciel vuol ch'ammire e 'n lor s'allumi,

e metta in opra l'opre ed atti rari

di Genebra e Gostanza, donne tali

che saran chiare sempre ed immortali.

47.

Ché faran queste con Lucrezia bella

ciò che fa 'l ferro in la pietra focaia:

ella è perfetta e ben ripiena cella

di grazia e di vertú qual altra s'haia;

perciò de le sorelle or questa or quella,

acciò che tanto ben al mondo appaia,

l'andrá toccando, e di vertú faville

uscir vedransi chiare a mille a mille.

48.

E tal sará 'l piacer d'ambe due loro,

veggiendo in la nipote tanta grazia,

qual esser suol la gioia di coloro

u' senz'affanno ogni contento spazia.

Or dove mai le Grazie unite fôro

con quel gioir che l'uomo mai non sazia,

se non è dov'alberga e sta costei,

e le due saggie donne appresso lei?

49.

È la maggior di quel baron consorte,

che con l'arme le Muse ha sempr'unite,

e 'l suo castello ha fatto cosí forte,

qual altro che piú forte Italia addite.

Questi, s'avversa a lui contraria sorte

non gli avesse le membra indebolite,

era ne l'arme Marte e tra le lire

il piú famoso ch'oggi si rimire.

50.

Ma tra l'armate squadre le percosse

che 'l solfo e 'l fuoco fan fieramente,

quando le palle con tal furia mosse

le torri atterran quasi in un repente,

gli hanno le forze battute e scosse,

e gotte e fianchi, ch'egli spesso sente,

l'hanno concio, ch'ei si trova tale

che 'n lui l'ingegno piú che 'l corpo vale.

51.

Onde quel d'Austria imperator romano,

mentre la guerra ha fatto al sacro Giglio,

e contra turchi con armata mano,

che l'Alemagna posero in periglio,

di questi il gran valor e 'l parer sano

sapendo e quanto val col buon consiglio,

seco lo tenne, e fe' che l'oste resse,

e 'l tutto moderò con leggi espresse.

52.

Ma prima con Lion, quel buon pastore

che mentre visse Roma fe' gioire,

ebbe Luigi sotto l'arme onore,

or combattendo ed or col saggio dire;

né dal duca Sforzesco men favore

si vide in ogni impresa conseguire,

allor ch'ei prese il ricco e gran Milano

dopo 'l conflitto acerbo ravegnano.

53.

Poi quand'al fier Lion da l'ali d'oro

serví molt'anni con chiara fede,

l'opre sue stimate e accette fôro,

che chiaro indicio ancora se ne vede.

Andò piú volte in mezzo al concistoro,

ove 'l Senato di Vinegia siede:

quivi ogni volta che la lingua sciolse,

tutta Vinegia al suo parlar rivolse.

54.

Questi è Luigi il buon Gonzaga, a Marte

sacro ed a Febo, cui d'invidia mai,

con quanta astuzia sappi usar ed arte,

macchiar il chiaro nome non potrai.

Indarno il tuo veleno in lui si parte,

spiega le reti pur quanto tu sai.

E meno in l'altro a lui tanto congiunto,

ch'esser non può da' tuoi roncigli punto:

55.

i' dico il suo cognato, il gran Fregoso,

Cesare invitto a la Gostanza unito,

l'alta gloria di cui dente nascoso

e palese d'invidia scherne a dito,

mostrando 'l chiaro nome e glorïoso,

sol di trïonfi e glorie rivestito,

provisto al tutto, ed ha piú occhi ch'Argo,

magnanimo, gientil, costante e largo.

56.

Questi, da' suoi primi anni a l'arme avezzo,

cominciò farsi grande ed immortale,

e si propose ogni or il duro prezzo

del marzïal valor che tanto sale;

n'a le fatiche mai mettendo mezzo,

spiegò largamente le bell'ale

che, giovanetto ancor, con grand'imprese,

su 'l carro de la fama in alto ascese:

57.

ch'ancor garzon su l'Adige piú volte

del sangue di nemici il fiume tinse,

e sovvra il Lambro a redine disciolte

contra gli Elvezii ardito si sospinse,

che quivi essendo tante genti involte,

mille nemici col suo brando estinse;

alto principio a tant'imprese belle

che dapoi fece in queste parti e 'n quelle.

58.

Taccio quand'egli sopra 'l Tebro ed Arno

fe', giovanetto ancor, grandi cose,

che visto mai non fu posar indarno,

ma sempre u' fu 'l bisogno il petto oppose.

Qui cose assai con breve stil incarno,

che sono eccelse e sempre fian famose;

ché chi volesse il tutto qui cantare,

bisogneria poema novo fare.

59.

E quando l'alta Quercia fe' ritorno

al nido suo natio contra le Palle,

Cesare v'era, né mai visto giorno

fu ch'a nemici non foss'a le spalle.

Avea di suoi piú fidi un'ala attorno,

cui da se stesso buon stipendio dálle,

e fece in poco tempo cose tante

che tempo non sará che mai l'ammante.

60.

Cosí su 'l Po, su Schirmia e su 'l Corono

fece l'Ispan restar vitto sovente.

Né qui de l'Adda o Scesia ti ragiono,

vuo' Tesino ancora si rammente.

Ivi i suoi gesti famosi sono

che la fama gridar ogni or si sente:

«Ecco chi giovanetto ancor ne l'armi

giá materia a' piú sullimi carmi».

61.

Ch'omai d'Italia non è parte o luoco,

u' con vittoria giá non sia trascorso:

ei ne l'arme sudar istima un gioco

da che 'l sol nasce fin ch'al Tago è corso,

cosí nel verno com'al fiero fuoco

che fa nel Sirio il Can col duro morso.

E sempre è presto nel maggior periglio,

pronto di mano e saggio di consiglio.

62.

Che ti dirò di lui quando solcare

il mar si pose e vide de l'Egeo

l'isole sparse per l'ondoso mare

e dove il mostro uccise il gran Teseo?

In ogni luoco, saggio e forte appare,

che di sé prova contra turchi feo,

e spesso tinse l'acque del sanguigno

cruor ostile, perfido e maligno.

63.

Ché da fanciullo sotto l'Alvïano

ad apparar milizia sol attese,

e quanto si diceva buono e sano

di tal materia con ingegno apprese,

e spesso poi ne l'opra pose mano

con le voglie d'onor mai sempr'accese;

ond'opre ogni ora fa ch'a lui daranno

fama, fin che le spade s'opraranno.

64.

Né v'è di lui chi meglio intenda un sito

per metter l'oste al piú sicuro e forte:

e s'a caso talor fosse assalito,

non creder giá che punto si sconforte;

ch'egli antivede il tutto, e fornito

sta d'ogni canto e luoco, che mai sorte

avversa non l'annoia o fa despitto,

ché sempre vinse ed unqua non fu vitto.

65.

creder ch'altri me' di lui ti possa

mostrar come si batta un'alta rocca,

quanto dal solfo e nitro palla mossa

vola per l'aria, e dove casca e tocca:

se picciola è, se curta, lunga o grossa,

sa la bombarda quanto tira e scocca,

e mille bei secreti ha di quest'arte

ch'a nostri tempi fa vergogna a Marte.

66.

Sallo da l'ali d'oro il gran Lione,

ch'oggi d'Italia sol mantien l'onore,

e di Cesare ha visto il parangone

di fede senza par e di valore.

Sallo quella cittá che 'l freno pone

del ligustico mar al gran furore,

ch'egli con poca gente e col consiglio

diede in poter del bell'e aurato Giglio.

67.

Eravi dentro il vantator spagnuolo

con piú di quattro millia fanti armati:

vi corse il gran Fregoso mezzo a volo,

ch'a pena mille avea di suoi soldati,

e lasciato da l'Oria in campo solo

passò li fossi e ruppe gli steccati,

vinse spagnuoli e molti d'essi occise,

ed il sagrato Giglio in Genoa mise.

68.

Ed in tumulto tal, in tanta furia,

per forza intrando dentro la citate,

non volle ch'a persona fatta ingiuria

fosse da l'empie e fiere squadre armate:

levò l'estrema a la cittá penuria,

e pose il tutto in gran tranquillitate:

diede a' soldati poi del proprio oro,

tanto che tutti ben contenti fôro.

69.

Ché de le spoglie ostili e de l'argento

goder lasciò li suoi commilitoni,

ei tardo mai non fu né mai fu lento

a dar il premio a li soldati buoni:

ché de la gloria e de l'onor contento,

del resto a tutti fa cortesi doni:

e certo questa è pur di quelle scale,

con cui sempr'alto un capitano sale.

70.

Taccio mill'altre glorïose imprese

fatte da lui con gran prudenza e ardire,

di cui la fama vola palese,

che non è uopo quelle rifferire.

Egli mai sempre ad inalzarsi attese,

la vita non curando né 'l morire,

di che fan chiara e manifesta fede

le ferite che 'n lui ciascuno vede.

71.

Ma che direm di quell'impresa quando

per mezzo di nemici egli e 'l Rangone,

con poca gente, quasi passeggiando,

spiegâr del Giglio il sacro confalone,

ed in Liguria arditi trapassando

fêr Genoa vacillar e l'Unïone?

ché se non era il gran Fregoso allora,

com'altre volte nulla fatto fôra.

72.

Egli s'offerse di condur la gente

senza periglio a le famose mura,

e d'indi poi passar arditamente

l'alto Apennin con strada piú sicura.

Il tutto fece compitamente

che contrasto non s'ebbe né paura,

e, senza perder uomo, l'Apennino

ripassâr, dando vita al buon Turino.

73.

Ma se 'l consiglio suo si seguitava,

ch'ei diede quando sovvra Secchia fue,

Genova allora Cesare pigliava,

ch'era sprovista de le genti sue.

Ma fiera invidia ch'i cor vili aggrava

sparse il velen de la mortale lue,

ché, come si seppe ch'egli v'era,

dentro fu posta gente a la frontera.

74.

Ei ben presago nel consiglio il disse,

e mostrò lor aperto e con ragione,

quant'era me' ch'a l'improviso gisse

un sol spiegando a l'aria gonfalone:

e, quanto cerca questo allor predisse,

tutt'il nemico, com'il sa, dispone;

ma credenza non ebbe la sua voce,

ché tropp'invidia al ben contrasta e noce.

75.

Era in Provenza allor il quinto Carlo,

pensando disfogliar il biondo Giglio,

ove udita l'impresa di ch'io parlo,

e visto il manifesto e gran periglio,

sentí nel cor cosí mordente tarlo,

ch'udito sovvra questo il suo consiglio,

con gran prestezza al mar vicin si volse,

e verso Spagna l'alte vele sciolse.

76.

Il gran Gallico re quand'ebbe inteso

esser giunto il Rangone ed il Fregoso

col campo salvo, e giá Turin difeso

da l'italico esercito famoso,

mostrò piú gioia che s'avesser preso

Genova allor, perch'era assai dubbioso

che non si fosse sciolto il campo e poi

Turin perduto con li luoghi suoi.

77.

E chi tardava poco tempo ancora

dar a Turin soccorso, era perduto,

ché vettovaglia non aveva allora,

né poteva sperar altronde aiuto.

Uscí d'assedio dunque Turin fòra,

ed il nemico allor fu battuto,

che tutto il campo dentro a Carignano

piú giorni riposò a salva mano.

78.

Andò il Fregoso allor ov'era armato

il re di reggi sotto ad Avignone,

u' fu da quel ben visto e accarecciato,

e da baroni ed altre assai persone.

E de l'angel che pesa l'alme aurato

a Cesare il collar Francesco pone,

con festa e pompa glorïosa e magna,

essendo il campo in arme a la campagna.

79.

E l'alma Margarita al re sorella,

e di re moglie, che Navarra onora,

e cosí saggia tutt'il mondo appella,

qual fece stima del Fregoso allora?

Il valor, la vertú conobbe quella,

e la costante che 'n lui dimora,

ond'ei di gloria riccamente adorno

al cognato in Piemonte fe' ritorno.

80.

Ciò che facesse poi da tutte l'ore,

prima col conte Guido e poi che solo

fu general del re, con tal favore

che lontan tenne lo nemico stuolo,

e quante imprese fece con onore,

dando a' nemici sempr'affanno e duolo,

non accade narrar perché si sanno,

e con chiar grido per lo mondo vanno.

81.

A Raconigi è noto quanto fece

con danno di nemici e suo profitto.

Si sa che Barge arditamente sfece,

e com'il Paesan quivi fu vitto.

Bricarasco rubello al fin disfece,

che posto s'era contra 'l suo prescritto,

ed altre cose assai che qui mi taccio

fe' co l'ingegno e col valor del braccio.

82.

Su 'l Tanaro si sa ch'ei tenne unito

il Franzese, il Tedesco e Italïano,

e se 'l Tedesco fosse stato ardito,

Aste di Franza fôra e l'Astesano.

Trovò sott'Alba poi buon partito,

che senza soldo il campo tenne umano,

fin che n'andò correndo a Pinaruolo,

e ratto passò l'Alpe quasi a volo.

83.

Indi in Chiarasco Cesare si pose

per conservar e forte far il luoco,

ma l'effetto al voler non corrispose,

ch'ei s'infermò e tempo vi fu poco.

Né troppo stette poi che s'interpose

il campo imperïal con arme e fuoco,

che cinto il bel castello attorno attorno,

li diè l'assalto quasi tutto un giorno.

84.

Con le bombarde pria le vecchie mura

gettò per terra ch'eran róse in parte;

ma la gente di dentro sicura,

difese il mur contra l'avversa parte,

ché fra nemici il danno e la paura

via piú ch'a quei di dentro si comparte.

Al fin si fêr capitoli onorati,

come quai altri ancor si sian formati.

85.

Ché con l'insegne dispiegate al vento,

e con prigioni ed acquistata preda,

con trombe e con tamburri, a passo lento

uscí la gente d'ogni gloria ereda.

Era in lettica ad ogni moto attento

Cesare infermo, e vuol ch'ogni uom il veda

nel mezzo a i valorosi suoi compagni,

ch'ivan cantando, né v'è chi si lagni.

86.

Non ti rammenta che per entro il foro

di questo monte entraste in Delfinato,

e come a vostre genti da coloro

cortesemente fu l'albergo dato?

Non sai che Cesar poco stè con loro,

ch'innanzi al re n'andò con pochi a lato,

e fu dal re ben visto e da la corte,

qual saggio cavalier costante e forte?

87.

So che ti giova assai tener a mente

ciò che Francesco il re a Cesar disse,

ch'a le parole fusti allor presente,

e ti saranno in cor mai sempre fisse:

ch'egli in Chiarasco con la scielta gente

fatto avea quanto farsi convenisse;

e lodò molto quanto fatto avea,

per li rispetti ch'egli ben sapea.

88.

E 'l dato dono allor, del tutto, fede

com'il sol chiara al mondo ne può fare,

che 'l re cortesemente li conciede

un vescovato ricco e singulare,

che per un de li suoi figliuoi li diede,

acciò si possa a chi vorrá mostrare,

ch'appresso tanto re stat'è in onore

una sincera , un saldo core.

89.

In Italia dopo Francesco venne,

e di cavalli il cargo a Cesar diede,

che tant'innanzi armato allor pervenne,

che fe' Spagnuoli ritirar il piede.

Del tutto 'l peso quasi allor sostenne,

tant'al Fregoso il re di reggi crede;

ma chi volesse dir il tutto a pieno,

il giorno pria che 'l dir verrebbe meno.

90.

Ché ben si vede chiar in quanta stima,

appresso il Gallo, Cesare si trove:

ché 'l suo valor il re cotanto estima,

quanto mertan di lui l'eccelse prove.

Conosce il re che 'l gran Fregoso prima

è per morir ch'a lui servir non prove,

e che non cerchi ogni or l'aurato Giglio

al ciel alzar con l'opre e col consiglio.

91.

Ed onoratamente il saggio re

quando parla di lui cosí lo loda,

che ben si vede chiar che tanta

esalta come degna di gran loda.

Ammira il gran saper e dice che

aperto è tutto senz'inganno o froda,

e che serve col cor e tanta fede

che 'l mondo pochi par oggi li vede.

92.

Da l'altra parte Carlo Augusto pensa

ch'oggi in Italia questi è pur quel solo

che tutti i suoi pensier sempre dispensa

perché si veggia il Giglio in ogni suolo,

e c'ha la mente ogn'or intenta e accensa

verso Genova far un largo volo,

e porvi dentro di tal sorte l'orme,

che resti al suo voler ogni or conforme.

93.

Ch'a dir il ver conosce chiaramente

ch'un tanto re con gran ragion l'onora,

e che Cesar si può dir veramente

uomo perfetto d'ogni luoco ed ora.

Sa che tentato l'ha diversamente,

e promessogli stati ed oro ancora,

ed altre assai promesse al mondo note,

né mai dal suo voler moverlo puote.

94.

Or dove mi trasporta il parlar mio

a dir di questi quant'i' t'ho cantato?

Ch'a tal impresa giá non mi moss'io,

e pur mi giova quant'i' n'ho parlato.

Ond'or affreno il cupido disio,

e torno dove prima i' t'ho lasciato,

a dir de le gientil alme sorelle,

a tanta cura elette da le stelle.

95.

Di questi glorïosi cavalieri,

di cui li corpi informa una sol alma,

le due sorelle son quelle moglieri,

c'han di serbar costei la dolce salma.

Di queste son le voglie ed i pensieri

che vertú forma ed il valor inalma,

e perché donne son rare e perfette,

furon da Giove a questa impresa elette.

96.

Queste, sirocchie son di quel Rangone

di cui può dirsi come di Tideo,

che, s'è picciol di corpo, parragone

fa di vertute ad ogni semideo:

degno che lui cantasse il gran Marone,

il greco Omero ed il divino Orfeo,

ben che, senza favor d'alcun poeta,

il suo bel nome è chiaro e senza mèta.

97.

Fu madre a questi quella Bianca, onore

di tempi suoi, fu prudente e saggia:

fu liberale e d'onestate il fiore,

qual che di bene in meglio s'avantaggia,

men le accresce e rendele favore,

che 'l mondo ornato di tal prole n'aggia,

dico di queste messe a l'alta cura

del piú bel d'ogni bel de la natura.

98.

E gloria ben n'avranno adesso e sempre,

con tante lodi ch'udiranno ogni ora,

che chi vedran le dolci e care tempre

di costei che vertú con grazia infiora,

e come fa che 'l vizio si distempre,

con pensier saggi grideranno allora:

«Quant'a voi deve il mondo, o donne, poi

che di costei la cura aveste voi».

99.

Ed essa innanzi a l'onorate zie,

che quella ivi terran come figliuola,

attenta stará sempre notte e die,

per imparar a tanto degna scola:

que bei modi vedrá, vedrá le vie

che fan la donna glorïosa e sola,

e com'esser si de' leggiadra e onesta,

ardita e schiva, or tarda ed ora presta.

100.

Vedrá come si de' con suoi maggiori

umile sempre star e riverente,

e come accarecciar den menori,

servando 'l suo decor cortesemente,

e come di begli occhi i gran favori

si denno dar or scarsa or largamente,

ma che mai sempre al senso la ragione

il freno metta ch'ogni ben dispone.

101.

E di questo fará conserva tale

ogni or in mezzo 'l casto petto ed alma,

che la memoria salda ed immortale

a tempo e luoco deporrá la salma,

e spiegherá con opre le bell'ale

del bell'ingegno ch'al ben far l'inalma,

e de l'etá sará gloria e stupore,

sempre accrescendo con la fama onore.

102.

Ma per che quindi per partir ti sei,

e gir in Lombardia, ove vedrai,

con caldi tuoi sospiri, di costei

l'alta bellezza il che giugnerai,

e tanto allor t'accenderá di lei

Amor che 'l fuoco estinto non fia mai,

a gli occhi tuoi la di quant'ho detto,

ed al martír che soffrirai, rimetto.

103.

piú ti dico in questa tua partita,

ch'assai t'ho detto, e questo ti basti ora.

In brevi veggio che ciascun t'addita

com'uom che fòr di sé sen viva ogni ora. –

Questo dicendo, innanzi a me sparita,

ove n'andasse giá non vidi allora,

so se 'n mezzo l'acque ella s'ascose

o s'ivi in qualche grotta pur si pose.

104.

E subita fu la sua partenza,

qual esser suol un lucido baleno,

ch'a pena il senti innanzi a la presenza,

che ratto passa e 'l vedi venir meno;

ond'io di lei come mi vidi senza,

quasi morir il cor sentimmi in seno,

ch'ivi star non sapea n'altrove gire,

tanto m'increbbe il presto suo partire.

105.

E seco ancor in un momento andaro

quanti eran fiumi giunti in quella banda,

quivi i monti punto si fermaro,

che giá coprivan tutta quella landa.

Ratto gli augelli via se ne volaro

che facean prima vaga ghirlanda:

gli arbori ed animai vidi partire,

ma come, i' non saprei giá mai scoprire.

106.

E mi pareva pur udir ancora

quella voce soave e udir la lira,

ed era com'un uom che di sé fòra

attonito si volge e intorno mira.

In mille parti mi girava allora,

come dal vento mossa un'onda gira,

e mille volte il nome suo chiamai,

n'altro giá ch'eco mi rispose mai.

107.

Ch'ovunque gli occhi rivolgeva, quivi

con la sua lira in man la rimirava,

e ne gli orecchi ancor sentiva i vivi

soavi accenti de la cetra cava;

ma ben guardando fiso vidi privi

que' luoghi, che d'intorno il fiume lava

de la Ninfa gientil, del sacro nume,

pompa ed onor del gran rapido fiume.

108.

I' mi rimasi, né saprei dir come,

cosí storditi avea lo spirto e i sensi:

e pur chiamando d'Eridania il nome,

quasi la voce a tanti gridi spensi.

Poi di mille pensier noiose some

martír mi davan senza fine immensi:

al fin, rivolto verso le bell'acque,

snodai la lingua com'al cielo piacque.

109.

«Vatene in pacedissi, «o Ninfa diva,

e godi il re soperbo d'ogni fiume:

sempre s'infiori questa verde riva,

e resti sacra al tuo divino nume:

qui non ari bifolco, e chi v'arriva,

se quest'erbe tagliar giá mai presume,

faccia come Licurgo, il gran nemico

di Bacco, ch'a se stesso venne ostíco.

110.

Si contempli qui sempre primavera,

e le sue pompe vi dispieghi Flora.

La mattina, da mezzo , la sera,

con dolce mormorar spiri fresca ôra:

questo bel verde mai non manchi o pèra,

di bei color vergato e pinto ogni ora;

che ciascun ch'arrivi in questa banda

lodi la bella e fiorita landa.

111.

Non cresca il fiume tanto mai ch'arena

per l'erbe asperga e guasti i vaghi fiori;

ma d'acque chiare vi sia sempre vena

che l'erba avivi ed il terreno infiori:

d'augei qui s'oda dolce voce e piena

di bei concenti e di soavi ardori».

Cosí pregai; ma piú di ciò non parlo,

ch'un'altra volta serbo a raccontarlo.





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