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Matteo Bandello
Canti XI... Le III parche

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  • CANTO V
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CANTO V

1.

Cortesi donne che qui sète unite

per sentir l'alte lode di colei

che tra voi gode senz'alcuna lite

quanto di grazie a donne dan li dèi,

e de la Ninfa le parole udite

avete, non v'incresca i versi miei

chete ascoltar, ché palesar anco io

di Lucrezia la gloria ogni or disío.

2.

So ben ch'incolto e rozzo è lo mio stile

a par di sua beltá, del suo valore:

e qual ingegno mai fia sottile,

che di mille una parte esprima fòre?

Dal Gange si ricerchi fin a Tile,

e d'Austro a Calpe, che mi giura Amore

che trovar non si può bellezza tale,

ché tutte l'altre donne questa vale.

3.

I' credo quant'ogni or Amor mi giura

su gli aurati suoi strali veramente,

e de la sua fede m'assicura

ch'i' resto chiaro ch'egli non mi mente.

Ma di chi debbio aver giá mai paura,

se Giove a questo con li dèi consente,

ed il consenso di ciascuno dice

che questa de le donne è la Fenice?

4.

Chi sará dunque che ne parli a pieno,

e dica quanto può d'una sol parte?

Ché s'ella tien le grazie sempre in seno,

chi parte mai potrá retrarne in carte?

Omero e 'l Mantovan verrebber meno

una sua grazia dir a parte a parte:

i' quante ne dirò, quante ne dissi,

de le mille una non ne scrivo o scrissi.

5.

Quanto si parla piú di rari doni

che 'l Re del ciel in questa donna pose,

piú ne resta da dir, e piú cagioni

si veggion di lodarla in quella ascose.

I' quantunque di lei sempre ragioni,

non vengo al fin giá mai di tante cose,

ché di sue lodi un pelago infinito

si scopre d'ogni banda senza lito.

6.

E pur mi spigne il mio desir far conte

le rare grazie sue con tante doti;

ma col desir non trovo che s'affronte

quel che di fòr convien che scriva e noti,

che temo cader come Fetonte,

e veggio i miei pensier d'effetti voti,

ché questo grave peso in tutto sforza

quanto in me v'è poter e quant'è forza.

7.

Ma la sua gloria ch'ogni spirto ingombra

mi tira a sé qual ferro calamita,

ed il timor da me ratto disgombra

ch'a cantarla mi forza e aíta;

ché sol di tanta gloria un segno e un'ombra

a lodar quella tutto 'l mondo invita,

e Lucrezia lodranno i mari e i fonti,

le selve, i boschi, valli, colli e monti.

8.

I' farò dunque come fan coloro

che cercan di lodar il trino Iddio,

che poi c'han detto quanto occorre loro,

altro piú dir non san se non ch'è Dio:

cosí mostrando quante grazie fôro

mai date a donna esser ne l'idol mio,

al fin dirò la verginella vaga

esser Lucrezia di Gazuol Gonzaga.

9.

Or ritornando dove vi lasciai,

quando la Ninfa vidi via sparire,

tanto stordito e pien di duol restai

ch'i' non potesse dietro a quella gire,

che quinci e quindi spesso rimirai,

sperando ancor la voce sua sentire,

il cui cantar cosí soave udiva,

che d'allegrezza l'alma ne gioiva.

10.

Cosí solo rimasi in quelle piagge,

con un gran stuolo di pensier in petto,

e rivolgendo le parole sagge

de la Ninfa gientil ed ogni detto

ch'infiniti sospir del cor mi tragge,

passo passo tornai al mio ricetto,

sentendo non so che in mezzo 'l core,

or tutto ghiaccio ed ora tutt'ardore.

11.

Mi pareva incontrar in ogni luoco

la cantata bellezza, e mi parea

veder da quell'uscir un vivo fuoco,

che le midolle e l'ossa ogni or m'ardea.

Pigliava il mio martír a festa e gioco

questa nova del mondo sacra dèa:

né d'altro mai pensar mi fu concesso,

m'era il vivo fuoco sempr' appresso.

12.

Giurato avrei che donna fosse viva

quella che 'l mio pensier in me formava,

ch'or lieta, or grave, or baldanzosa, or schiva,

e giorno e notte a me si dimostrava.

Cosí lasciai la giá dimostra riva

che 'l re di fiumi sotto l'Alpi lava,

seppi mai passar in luoco ov' io

non mirassi ivi starsi l'idol mio.

15.

Il Tanaro sott'Aste poi passai,

al Po rivenni e giunsi al chiar Tesino,

sovvra 'l Lambro punto mi fermai,

ma corsi a l'Adda e al Serrio a lei vicino:

l'Oglio e la Mella ed altri rivi assai

vidi col Chiesi in questo mio camino,

e sempr'innanzi gli occhi aveva quella

alta nemica mia bella bella;

14.

ché cavalcando sempre m'era a lato

questa ch'io cantosaprei dir come:

ovunque mi volgeva, il bel rosato

viso mirava e le dorate chiome,

sentiva que' begli occhi, dove armato

regna Amor e d'Amor s'acquista il nome,

e mi pareva udir quelle parole

che fanno i monti gir, fermarsi il sole.

15.

Mille fïate mi fermai per via

da cosí dolce inganno sovvrapreso,

e nel petto 'l cor di ciò gioía,

che d'altra cosa non curava peso;

anzi pareva ch'egli tutta via

cercasse di restar piú forte acceso,

onde con queste gravose some

giunsi al castel c'ha di Gioffredo il nome.

16.

Né troppo stetti ch'io ne venne fòra

accompagnato sol da miei pensieri,

ed uno d'essi mi diceva allora:

«Ch'agogni, miserel, che pensi o speri?

Chi t'arde e agghiaccia, ahimè, chi t'innamora?

Non vedi che non sei quel che prima eri?

Tu vuoi pigliar il vento e abbracciar l'ombra.

Deh, scuoti il tutto e amor da te disgombra.

17.

Ami, né sai che donna ancor tu ami,

e pur t'è roso il cor dal fiero verme,

verme che t'avelena e fa che brami

che dentro al cor il dente suo si ferme.

A chi soccorso chiedi, a chi lo chiami,

se nutri l'amoroso e amaro germe?

Onde ne vien dilettoso male?

Chi scocca le quadrella o tra' lo strale?

18.

Al men sapessi d'onde il mal ti viene,

per poter ritrovar a quell'aíta.

Chi vide mai che l'uomo avesse spene,

u' conoscenza alcuna non s'addita?

Se non sai chi 'n prigion ti lega e tiene,

né d'onde penda il fil de la tua vita,

a chi chiedrai la libertate, e dove

cosa averai che 'n vita star ti giove

19.

Ergesi un altro mio pensier e grida

che senz'Amor non è cosa perfetta,

ch'egli è la vera scorta e la piú fida,

che l'alma scorge per la strada eletta,

e quella al poggio di vertute guida,

facendola gientil, verace e schietta:

ché dove alberga Amor non regna frode,

ché sol del ver si pasce e di quel gode.

20.

Il petto giovenil ch'è senza Amore,

com'esser può svegliato a l'alte imprese?

Qual un gran prato senza d'acque umore

è 'l giovane ch'Amor mai non accese.

Ma come sente in cor il vivo ardore,

ed ha le voglie in duo begli occhi accese,

ratto si desta e fassi piú gientile,

tenendo nova vita e novo stile.

21.

Li mette Amor avanti gli occhi un speglio,

ove se stesso e suoi diffetti ei vede:

ivi dal mal discerne 'l bene e il meglio,

a quel s'appiglia, a quel sol presta fede.

E dice: «S'ho dormito, ora mi sveglio

per por nel ver e buon camino 'l piede,

ch'i' veggio ben che questa è quella strada,

ove Madonna vuol che sempr'i' vada».

22.

Cosí la vita tutta cangia, e fassi

simile a quella ch'egli segue ed ama:

in quella mira, a quella volge i passi,

e di piacerle sol desidra e brama.

Dorma o si sveglie, a quel contento stassi,

come Madonna vuol, com'ella il chiama,

ed a cortese farsi s'avezza,

ch'ogni atto men che bell'in tutto sprezza.

23.

Amor in somma de l'umana vita

è il vero correttor e vero mastro:

egli a l'amante sempr'accenna e addita

del bene il meglio, e come benigno astro

a l'opre vertüose quell'invita,

e 'l cor li lega d'altro che di nastro,

ché nodi adamantini Amor adopra,

s'avien ch'un'alma a sé chinata scopra.

24.

Ma dolci le catene e i lacci sono

con ch'Amor lega i veri suoi seguaci.

Se l'amante è gientil, cortese e buono,

gode mai sempre le tranquille paci.

O ben felice e aventuroso dono

che fa l'ardor di quest'ardenti faci,

ché d'ogni etate e d'ogni sesso sempre

i cori purga Amor con dolci tempre.

25.

La giovenil etate Amor tien desta

a l'opre di vertute e cortesia.

La mente fa real, la lingua onesta

di chi camina questa bella via.

Saggi pensier, desio d'onor inesta

ov'ei si ferma, e ponvi leggiadria,

e ne la vecchia giá matura etate

fa l'uomo allegro e pien di caritate.

26.

Sveglia i pensier ch'eran sopiti alquanto,

agghiacciati da gli anni e quasi stanchi:

il sangue ch'era freddo in ogni canto

riscalda, e fa gli spirti arditi e franchi:

il cor s'aviva al vago lume e santo,

che fa che mai la fiamma in lui non manchi,

e come secco legno arde e s'accende,

e nova qualitá dal fuoco prende.

27.

Ché l'antico amator ringiovenisse,

e tien svegliato il cor e pien di gioia:

con miglior gusto e' suoi piacer fruisse,

né si rivolge a dietro ad ogni noia:

qual morbo aborre le querele e risse,

e cerca tutto quel che l'alma aggioia:

un guardo in vita il tien, l'allegra un cenno,

si regge con prudenza ed opra il senno.

28.

S'egli una volta accende il cor, il vedi

star sempre saldo e non cangiar pensiero:

o sia sprezzato o colmo di mercedi,

sempre lo trovi d'un voler intiero.

Ch'ove si mette quivi ferma i piedi,

ed ha de la ragione in sé l'impero,

che sa per prova com'Amor governa

chi seco fermamente il core interna.

29.

Però s'Amor t'accende adesso 'l petto,

e nuovo ardor t'ingombra e alluma l'alma,

non li far, che non puoi, alcun disdetto,

ma le spalle sommetti a questa salma;

ché s'Amor t'ha al suo servizio eletto,

ed a costanzia il cor sospigne e inalma,

fa perché canti questa gran beltate,

ov'il ciel versa ogni sua largitate.

30.

E se veduta ancor non hai costei,

che bella e famosa il ciel t'addita

come su il Po giá ti cantò colei

che tanto la fa chiara e gradita,

ritrar da quest'impresa il piè non déi,

poi ch'a seguirla Amor ti chiama e invita,

e te l'ha scolpita in mezzo 'l core,

che possibil non è che n'esca fòre.

31.

Saper tu déi ch'assai sovente aviene

che sol per fama un uomo s'innamora,

e pria che veggia la bramata spene,

a quella pensa, se le inchina e onora;

ma come poi dinanzi a quella viene,

chi dir potrá ciò ch'egli sente allora?

Gode in un mar di gioia e insieme piange,

e con dolce languir s'aggioia ed ange.

32.

Non ti sovien com'oggi la vedrai

godendo quella dolce e altiera vista?

Come la miri subito dirai:

«Ecco chi m'arde, chi m'allegra e attrista»,

ché le fattezze chiar conoscerai,

se ben non l'hai se non fanciulla vista,

ch'innanzi a gli occhi Amor ti pigne e mostra,

com'ei quel viso imperla e com'inostra.

33.

Né ti curar di ciò che 'l volgo dica,

che spesso il dritto biasma e 'l torto loda.

Cerca pur sol di farti quest'amica,

ed a lodarla ogni or la lingua snoda.

Non ti rincresca qual si sia fatica,

pur che 'l suo nome ne i tuoi versi s'oda,

ch'ella è di tal valor, di tanta stima,

ch'oggi si vede tra le prime prima.

34.

Molt'altre cose il mio pensier dicea,

mostrandomi ch'amar non mi sconviene.

A questo il primo allora rispondea

che questa impresa a me piú non conviene.

E l'un contra l'altro contendea,

ch'or amar mal ed or stimava bene.

E voleva di lor ciascuno ch'io

quanto dicea credessi giusto e pio.

35.

E per dir chiaro qual di lor piú forza

avesse sovvra me de la contesa,

che mal si può piegar a poggia ed orza,

quando la nave ad un sol vento è resa,

il primo a pena mi pungea la scorza,

n'era da me la sua ragion intesa;

ma l'altro a dentro penetrava il core,

e pur il primo ancor facea romore.

36.

Cosí da' miei pensieri afflitto e stanco,

del Tartaro m'assisi su la riva,

u' per colonna m'era al destro fianco

un olmo cinto d'edra verde e viva.

D'onizzi e salci poi il lato manco

una bell'ombra e grata mi copriva.

Ed ecco in questo, con non finte larve,

ch'Eridania gientil quivi m'apparve.

37.

Di vergine il vestir aveva e 'l volto

con l'aspetto pudico e vergognoso:

d'una spartana l'arme, e al collo avolto

avea il turcasso in abito pomposo,

o qual sovvra un corsier al correr vòlto

Arpalice nemica d'ogni sposo,

avanzava de l'Ebro il gir veloce,

o quello raggirava aspro e feroce.

38.

Da gli umeri pendeva l'abile arco,

qual d'una ninfa tra le fere avezza:

le chiome al vento sparse lieve carco

davano al collo piene di vaghezza,

e l'un gienocchio e l'altro ignudo e scarco

mostrava la nativa candidezza,

e la veste succinta d'ognintorno

d'aurati nodi il lembo aveva adorno.

39.

Tal fra le selve d'Africa la diva

di Pafo apparve al suo figliuolo Enea,

ch'errando con Acate se ne giva,

e la sua madre allor non conoscea.

I' se la veste questa no' scopriva,

ch'Eridania ella fosse no' scernea,

ma 'l zendado morello e i groppi d'oro

la cagion ch'i' la conoscessi fôro.

40.

Quand'io la scorsi, riverente e umile,

com'a ninfa convien me l'inchinai,

ed ella con sembiante bel gientile

a me rivolta disse: – Qui che fai?

A' tuoi pensier convien che cangi stile,

seguendo quant'altrove i' ti cantai;

ché giunto è 'l tempo, giunto il giorno e l'ora,

che ti trarrá di libertate fòra.

41.

I' ti cantai, se ti rammenta, ch'era

ito a trovar Mercurio il fier augello

che gli occhi affissa entro la solar sfera,

qual carbon nero ardito sempre e bello:

e come lo trovò che 'n vista altiera

l'arme partiva fatte in Mongibello;

or ti vuo' dir dapoi quant'è seguíto

da che se' giunto sovvra questo sito.

42.

Trovò l'augello, e quanto vuol che faccia

gl'impose il buon Mercurio e poi lasciollo.

Egli ne l'aria tutto allor si caccia,

spesso girando gli occhi verso Apollo,

e tanto seguitò del vol la traccia,

senza fermarsi o darsi in l'aria crollo,

ch'egli Gazuolo ed il castello trova,

ov'era la beltá divina e nova.

43.

Né troppo ste' che con gli adunchi artigli

la vaga giovanetta lieve prese.

Levasi a volo e par che s'assottigli

quella coprir con l'ali intorno stese.

Indi veggiendo tra ligustri e gigli

di rosato color le guancie accese,

d'Asteria ricordossi, ma li pare

piú bella questa e 'n tutto senza pare.

44.

Con cosí dolce e caro peso vola

l'aquila altiera, e la donzella porta,

quella ch'al mondo di vertute sola

è la perfetta e ben sicura scorta.

E come il nibbio che 'l pulcino invola

de la rapita preda si conforta,

cosí del peso l'aquila contenta

lieve sen vola e 'l volo non allenta.

45.

La vergine felice nulla teme,

veggiendosi levar in alto tanto:

non si sgomenta né si lagna o geme,

anzi rimira a basso in ogni canto.

L'aquila al fin la terra calca e preme

u' di genebri e mirti è il bosco santo,

di che ti dissi giá ch'ivi devea

esser l'albergo de la nova dèa.

46.

Quivi l'augel Lucrezia in terra pose,

e fece al suo signor in ciel ritorno.

E com'eternamente giá dispose

chi fe' la notte buia e chiaro il giorno,

le due sorelle allor vïole e rose

coglievan nel boschetto vago e adorno,

e s'ivan diportando liete e pronte

verso la parte dove nasce il fonte.

47.

E questa è l'ora a punto che l'augello

del dolce e caro peso in tutto è scarco,

ov' il bel bosco e 'l verde praticello

di varii fior si mostra vago e carco,

che d'ognintorno il lieto viso e bello

a volger gli occhi non è stato parco,

che 'n mezzo 'l ghiaccio rose fa fiorire,

e da la neve gigli e croco uscire.

48.

Come le donne han visto la fanciulla

con begli occhi e leggiadro viso,

ov'Amor scherza e sempre si trastulla,

scoprendo a chi vi mira un paradiso,

han detto: «Di beltá qui manca nulla,

ov'ogni bel del ciel, chi mira fiso,

vede mai sempre e com'Amor vi spazia,

e quanta aver si possa in terra grazia.

49.

Ben qui si vede il dolce e bel sembiante

de le fattezze belle de la madre.

E fra le vaghe e giuste parti e tante

si rappresenta ancor il caro padre.

Ma chi sará giá mai ch'a pien si vante

di maniere belle e leggiadre?

Ché tant'avanza questa ogni bellezza,

quanto del piombo l'oro piú s'apprezza.

50.

Com'esser può che 'n pargolette membra

si scerna tal beltate e tanta grazia?

D'ogni bel la vaghezza qui s'assembra,

ch'aggioia chi la mira e mai non sazia.

E ch'altra loda o sua beltá rimembra,

giá non aguaglia questa dove spazia

con le tre Grazie Amor, bellezza e gioia,

scintilla v'appar ch'apporti noia».

51.

Questo dicendo le gientil sorelle

han la nipote caramente occolta,

e miran tutta via le vaghe stelle,

piene di grazia e di vertute accolta,

parendole fra quante donne belle

beltá si veggia, o grazia in lor raccolta,

non pareggiar di questa la beltate,

la grazia, col valor e maiestate.

52.

Ed ecco mentre l'una e l'altra mira

la rara e incomparabile bellezza,

la figlia di Taumante al ciel s'aggira,

e d'un bell'arco tutta l'aria spezza.

Indi Lucrezia tanto bella ammira,

ed a Giunone ritornar disprezza,

che se la miri ancora vederai

del cieleste arco i coloriti rai.

53.

Onde ch'a lor sovien quest'esser quella

di ch'altre volte lor predisse un mago,

che quanto sovvra tutte fôra bella,

di saggio spirto e d'un aspetto vago,

tanto sarebbe ne l'etá novella

d'ogni grazia e beltá la vera imago:

e tra segni del ciel che diede, questo

del cieleste arco fu 'l piú manifesto.

54.

Però com'elle han visto di Giunone

la serva dimostrarsi in l'aria, tale

qual spesso suol l'amante di Titone,

quando dinanzi al sol di letto sale,

che di varii colori si compone,

e verdi e rosse e gialle spiega l'ale,

liete restaro e ancor meravigliose,

veggiendo il fin de le predette cose.

55.

Ed oltre l'arco che su si vede

di piú colori in l'aria dimostrarsi,

ove or Lucrezia tra le donne siede,

comincia l'erba tutta rinovarsi:

ché dove quella mette il picciol piede,

l'erbette in fior si veggion trasformarsi,

e l'aria piú ch'altrove ivi serena

venti soavi con dolce aura mena.

56.

Ecco del Chiesi il Tartaro figliuolo,

cinto di giunchi la muscosa testa,

che par che voglia alzarsi a l'alto polo,

ebro di gioia, d'allegrezza e festa.

Ve' di que' bianchi cigni il vago stuolo,

come gioisce giá sentendo questa:

ecco che d'ognintorno a meraviglia

ogni cosa piacer e gioia piglia.

57.

Ve' che 'l bel rivo l'una e l'altra sponda

ha di smeraldi ornate in poco d'ora,

né di tanti o vaghi fior abonda

il ricco seno de la bella Flora,

quanti quest'acqua qui ne nutre e inonda,

e quanti n'escon d'ogni parte fòra.

Ché se rimiri ben attorno attorno

qui d'Amaltea è riversato il corno.

58.

Tu vederai la fonte in mezzo 'l bosco

con l'acque tranquille e cosí chiare,

che se l'un occhio e l'altro non hai losco

scerner potrai quanto nel fondo appare.

Quivi animal che sparga amaro tosco

pascer non può né pur un punto stare,

ch'innanzi a que' begli occhi e 'l lor splendore

il ben s'aviva, il mal si strugge e more.

59.

I mirti e i bei genebri son fioriti,

e carchi d'odorati e dolci frutti:

cantan gli augelli in tutti questi siti

canti soavi senz'affanni e lutti,

e par che 'l luoco chi vi mira inviti

a star allegro, e che gioiscan tutti;

onde si scorge chiaramente ch'ella

il mondo aggioia e 'l tutto rinovella.

60.

Il giardino vedrai dove Flora

alberga tutto l'anno e ancor Pomona.

Venere il bel verzier adacqua e irrora

de l'Accidalio fonte e d'Elicona.

E Febo quivi le sacr'erbe ogni ora

purgando cole e la sua lira suona,

ch'erbe son quivi e fior vaghi e eletti

che fan che 'l luoco a rimirar t'alletti.

61.

So che giá senti come brama il core

innanzi a lei di ritrovarsi quivi,

so come giá ti lega e scioglie Amore,

e com'ardendo ed agghiacciando vivi.

Ma 'l tutto è nulla a par del fier'ardore

ch'uscirá da begli occhi altieri e divi,

e fia l'ardor cosí penace e forte

che per men doglia bramerai la morte.

62.

Però, se fede presti a quant'i' dico,

che 'l ver ti parlo né potrei mentire,

se di questa il favor ti brami amico,

e de la vista sua poter gioire,

d'ogni estremo sarai sempre nemico,

frenando con ragione il tuo disire.

Tra l'uno e l'altro passa, e cosí sempre

farai che l'un con l'altro si contempre.

63.

Come la vedi, il fuoco tuo coperto,

che sol per fama caldamente t'arde,

un incendio fará chiaro e aperto

che tutte le tue forze lente e tarde

saranno ad ammorzarlo, per che certo,

(e pur la morte quanto vuol ritarde),

in fin al cener del funereo rogo

ardendo porterai d'Amor il giogo.

64.

Che tant'a dentro il liquido e sottile

fuoco di suoi begli occhi in gli occhi tuoi

passerá col leggiadro e almo focile

di que' divini e ardenti raggi suoi,

e lo cor t'ardrá che mai piú vile

pensier non vi stará, ma sempre poi

in quella trasformato viverai,

e l'orme sue cercando ogni or andrai.

65.

Ma quel che meglio t'era esser celato,

dal fuoco vinto, tu farai palese;

tal che 'l mondo dirá: «Questi cangiato

è da le fiamme in lui da quella accese:

sol di lei parla e scrive, e 'n ogni lato

a lei si volge e mai non fa contese;

anzi seguir e riverir la suole

come fa Clizia il suo cocente sole».

66.

Poi per che con la penna e con l'inchiostro

lodar la cercherai quant'ella merta,

le perle alzando al ciel e 'l nativo ostro,

con quella grazia naturale e aperta

che 'n lei senz'arte a natura ha mostro,

aggiunta a la beltá bella e certa,

cagion sarai ch'invidia l'arme prenda,

e quanto piú potrá ti prema e offenda.

67.

I' giá ti veggio d'ogni parte morso,

ma starai saldo come scoglio in mare,

e seguirai lo dritto e aperto corso

che t'invita costei sempre lodare.

E chi devrebbe darti allor soccorso,

e contra tutto 'l mondo per te stare,

(ahi crudeltá!), sará 'l primo a ferirti,

ch'ogni cosa fará per impedirti.

68.

Né mai però faranno con lor dire

le disfrenate lingue, allor false,

che tu non segua l'alto tuo desire

onde Amor giá forte il cor t'assalse.

Anzi sará maggior il lor martíre,

veggiendo che di lor nulla ti calse,

e cercheran con nove astuzie ed arti

che tu lasci costei, che tu ti parti.

69.

E veggio de le donne contra lei,

tinte d'invidia da gran valore,

vibrar le lingue quattro volte e sei;

ma chi può tôrr' al sol il suo splendore?

E men potran levare da costei

la rara sua modestia a tutte l'ore:

cosa non fia che mai da lei divella

l'esser gientil com'è saggia e bella.

70.

Vorran parangonar al cupo mare

che la terra circonda attorno attorno

un picciolo ruscel che non può fare

molli l'erbette che lo fanno adorno.

E qui l'invidia scoperta appare

che non può far altrui vergogna o scorno,

perch'a costei chi dar infamia vuole,

tôr cerca al ciel le stelle e 'l lume al sole.

71.

Ti vederai per contra il ciel la terra,

e con le stelle il sol armato starti:

che quinci e quindi avrai sol lite e guerra,

per piú tormento, per piú pena darti;

e 'l mai influsso adosso ti serra

che da ciascun vedrai abbandonarti:

sol uno o dui fedeli ti saranno,

che con la fede e no' col tempo vanno.

72.

Ben è vero il proverbio che si dice

ch'al bisogno l'amico si conosce,

e quel chiamar si può lieto e felice,

che trova aíta in mezzo de l'angosce;

ma per l'usato questo pur s'elice,

quando fortuna avversa freme e crosce,

che quei che tu tenevi per amici,

talor ti son contrari e fier nemici.

73.

L'obligo è questo ch'a fortuna avemo,

s'una volta ne scopre il viso irato,

che de l'amico certi allora semo,

s'egli n'è fido o s'egli è simulato:

che passato quel punto e dubbio estremo,

sappiamo allor chi ritenersi a lato,

che com'al tatto si conosce l'oro,

cosí fortuna fa parer costoro.

74.

Ma tu, seguendo la comincia impresa,

ov'è maggior contrasto opponi il petto:

e sempr'audace con la mente accesa

d'avversa sorte ridi il gran disdetto;

ché s'al grave furor farai contesa,

mostrando aperto il cor palese e schietto,

vedrai d'invidia allor morir l'invidia,

di sdegno piena e di torpente accidia.

75.

Sofferir ti bisogna in ogni cosa,

ma piú con quella che veder tu cerchi,

ché s'ella si mostrasse ben ritrosa,

volubil piú che 'n l'aria lievi cerchi,

soperba ancor, feroce e disdegnosa,

con pazïenzia fa che tu la merchi;

ché se camini ogni or per questa strada,

il tuo servir convien ch'al fin le aggrada.

76.

Ogni fanciulla suol assai sovente

ad ogni banda rivoltar il core,

e raro a chi piú l'ama mette mente,

il cangiando mille volte amore:

or qui si vede, ed ora si sente

a questi tôr e a quel donar favore,

e cangia spesso ogni pensier e voglia,

ché come cuffia amor si veste e spoglia.

77.

Ch'a quanti piú si mostra grazïosa,

e par che piú benigna si discopra,

piú si crede di far lodevol cosa,

biasmo pensa aver di simil opra:

piú quel detto che quest'altro chiosa,

che malizia non ha con che si copra,

e quanti son che la rimiran, tanti

si stima aver soggietti e caldi amanti.

78.

Onde il vero amator che questo vede,

mille fïate mor di gielosia,

né può ritrar di lei seguir il piede,

anzi piú l'ama ogni or e piú disia.

Ed ella che non cura amor o fede,

ma l'appetito segue tutta via,

ad altri fa buon viso, altri rimira,

né verso mai chi l'ama un guardo gira.

79.

E ben spesso talor una scaltrita,

o donna, o pur fanciulla che si sia,

che forse da la madre è avertita,

ritrosa a questi, a quel si mostra pia,

fugge da l'un e spesso l'altro invita,

tal che parrá ch'a quel tutta si dia,

e fallo per veder come costante

in queste morti sa trovar l'amante.

80.

Ma la saggia Lucrezia in ciel eletta

per dar d'ogni vertute in terra esempio,

c'ha sincero il cor, la mente schietta,

che di valor è 'l vero e sacro tempio,

lunge sempre sará da questa setta

c'ha gioia de l'altrui tormento e scempio,

e giustamente il suo favor vedrai

che spiegherá di quei lucenti rai.

81.

Stará ben spesso in sé raccolta e schiva,

per meglio penetrar gli altrui voleri:

e pria che giunga a questa o a quella riva,

esser chiara vorrá che l'uomo speri.

Bisogna ch'ella a simil modo viva

per scerner li malvagi da li veri,

ché mostran molti in petto aver amore,

ed han di ghiaccio tutto pieno il core.

82.

Convien che la donzella non si fide

liggiermente di cotesti amanti

di cui lo cor ch'è pien d'inganno ride,

se ben son gli occhi molli per li pianti.

Quei si lamenta e sospirando stride,

che poi secreto stassi in gioia e canti,

e quanto dice a questa, dice a quella,

che tutte per signore e dive appella.

83.

E com'un guardo ed un favor riceve,

con tutto 'l mondo se ne vanta e gloria:

mai non si ferma, e, come foglia lieve,

di questa e quella cerca aver vittoria,

promette a questa ciò ch'a l'altre deve:

a tutte giura c'ha di lor memoria,

e quante piú n'inganna, piú s'esalta:

con tutte piagne, tutte affronta e assalta.

84.

Ma Lucrezia che sol vertute istima

e tien soggietti a la ragione i sensi,

cercando di poggiar a l'alta cima,

ond'a ben far per vivo esempio viensi,

ogni lor detto, ogn'atto cribra e lima,

e su 'l dritto camin mai sempre tiensi,

fará degno mai del suo favore

chi non avrá purgato e saggio 'l core.

85.

Però casti pensier convien che vesti

e purghi l'alma d'ogni tristo affetto,

ch'a l'opre gientil quella si desti,

con sol disio d'onor vero e perfetto.

Gli atti e i parlari tutti sian modesti,

né mai viltá t'alberghi o entri in petto:

a lei ti volgi, in lei ti specchia, e poi

conforma al suo voler i voler tuoi.

86.

Or perché l'ora s'appropinqua ch'io

da te mi parta ed onde veni torni,

e veggio tutt'acceso il tuo disio

veder come Lucrezia il luoco adorni,

e se vero t'ha detto il parlar mio

di lei, d'i suoi begli occhi ed atti adorni,

piú non ti voglio cosa alcuna dire,

ché forza m'è da te ratto partire.

87.

Ben ti dirò ch'un giorno vederai

un saggio Vecchio che veder no' speri,

e col suo mezzo a mente ridurrai

ciò ch'apparasti quando giovan eri:

da lui molti precetti sentirai,

che fan d'amor tutt'i pensier sinceri;

poi te n'andrai al Tempio singulare,

ove cose vedrai sullimi e rare.

88.

Pur se meco parlar adesso vuoi,

prima ch'io parta, di parlar t'affretta,

perché mai piú non mi vedrai dapoi

che quindi parta come sono astretta. –

I' fiso rimirava gli occhi suoi,

dir sapeva: «Sacra Ninfa, aspetta,

ché molte cose dir i' ti vorrei,

che 'n cor mi vedi e 'n mezzo a gli occhi miei».

89.

Ché mi pareva aver sovvra la fronte

ogni mia voglia com'in cor ordita,

e so ch'a quella le mie voglie conte

son sempre e quanto bramo aver in vita.

Eran le voglie a palesarsi pronte,

ma, non so come, la lingua impedita

da sé formar parola non sapea,

e so che 'l mio desir ella vedea.

90.

Formar parola non le seppi mai,

il che veggiendo l'alma Ninfa e bella:

– Perché, – mi disse, – adesso non ten vai

la tua donna a veder che rinovella

quanto riscalda co i lucenti rai

de l'una e l'altra fiammeggiante stella? –

E ciò dicendo in mezzo l'acque sparve,

piú dinanzi a gli occhi miei apparve.

91.

Ond'io, lasciata la fiorita riva

ove stato era con la Ninfa a canto,

poi che privata la vertú visiva

vidi di quella che bramava tanto:

«Ove se' gitadissi, «alma mia diva,

che 'n vita mi tenevi col tuo canto?

Chi piú m'insegnerá la dritta strada,

ove sicuro adesso me ne vada?

92.

Se giunta è quella che veder disío,

e che mai sempre appresso star mi veggio,

quella ch'ogni or mi scopre e mostra il mio

saldo pensier, or qui piú far che deggio?

I' l'odo e miro in ogni luoco ov' io

gli occhi rivolgo, o dove vado o seggio,

ché, s'arbor, sasso, tronco o sterpe i' guardo,

sento il suo dolce e folgorante sguardo.

93.

Lasso! che pur vaneggio, poi ch'ancora

visto non ho que' suoi begli occhi ardenti.

Chi m'arde adunque? Il cor chi mi divora?

Di cui le fiamme son c'ho qui presenti?

D'ogni bel viso il bell'i' veggio ogni ora,

e sento ardori piú che 'l sol cocenti,

né gli occhi so girar in alcun luoco,

che 'l bel viso non veggia e senta il fuoco.

94.

Or se 'l pensier mi fa veder costei,

che vista piú non ho da ch'era in culla,

che fia, lasso!, di me veggiendo lei,

u' di beltate e grazia manca nulla?

S'Amor adesso inganna i sensi miei

e con le finte forme mi trastulla,

allor che la vedrò penso ben ch'io

il compimento avrò d'ogni disio.

95.

Al men la bella Ninfa fosse meco,

acciò mia guida innanzi a lei mi fosse,

ché s'io mi ritrovassi adesso seco,

non sentirei tremarmi polpa ed osse.

Or son del tutto stordito e cieco,

qual chi saetta o folgore percosse:

star non mi leceso dove vada,

ché non scorgo sentier, caminstrada.

96.

I' vado, né so dove il piè mi porte,

poi che, Ninfa gientil, meco non sei:

son, senza te, le mie speranze morte,

ché, te perduta, ogni mio ben perdei.

Ben mi dicesti con parole corte

che d'indi a poco te piú non vedrei.

I' vadoso dove, e m'avicino

al mio disir, a l'idol mio divino.

96.

Ché quanto piú m'appresso a l'alte mura,

piú sento non so che, che m'arde il core,

e de l'andar la forza mi fura

ch'agghiaccio e torpo, e 'l cor quasi sen more.

E se questo rigor troppo mi dura,

mi veggio in tutto de la vita fòre,

e pur andar innanzi mi bisogna,

se veder voglio quant'il cor agogna».

98.

Cosí di passo in passo me n'andai

verso la porta del castello altiero,

ov'eran giunti giá que' dolci rai

di quella ond'io m'avivo ogni or e pèro.

Dentro il castello e nel palazzo intrai,

giunsi a pena al limitar primiero,

ch'i' vidi su le scale salir quella

ch'or donna de le donne il mondo appella.

99.

Né mi fu uopo dir qual ella fusse,

ch'era fra l'altre fra le stelle il sole.

E tanta grazia in quella allor rilusse,

che non l'aguaglian di mortai parole.

Con le matrone sopra si condusse,

tutta leggiadra e bella come suole,

ed io, da miei pensier battuto e vinto,

di mille lacci allor mi vidi avinto.

100.

Eran dal bosco e dal giardino aprico

con Lucrezia partite le sorelle,

e con grate accoglienze e con amico

parlar in casa se n' intravan quelle.

Allor i' vidi il viso bel pudico,

e le mie fide e tramontane stelle;

ma di salir le scale non osai,

cosí verso il boschetto m'inviai.

101.

Vidi i genebri, i mirti, e 'l bel giardino,

di candidi ligustri cinto a parte,

scoprirsi allor piú vago e piú divino,

con l'odorate frondi intorno sparte.

Correva il fonte fresco e cristallino

che l'erbe bagna ed i sentieri parte,

e parevan gridar tutti que' fiori:

Giunta è la gloria di perfetti Amori.

102.

Pien di rugiada a i caldi rai del sole,

vibra le lingue il bel aurato Croco,

che, come s'alza Febo, aprir poi suole

le foglie e le tre lingue a poco a poco:

Smilace a quell'appresso ancor si duole,

che mal s'accese d'amoroso fuoco,

ch'amando il vago Croco, e non amata,

in erba del suo nome fu mutata.

103.

Qual edra e' suoi corimbi attorno attorno

ella spandeva largamente sciolta,

secura che giá mai la notte e 'l giorno

non le saráfiorfoglia tolta.

Perché non può mostrarsi alcuno adorno

di smilace giá mai, qualunque volta

voglia incenso adoler o coronarsi,

ch'infausta a questi onor sente chiamarsi.

104.

E, come la natura l'ha depinto,

di soave rossor, si discopriva

di fior ornato il giovane Giacinto,

che l'acqua brama ed ogni verde riva,

e mostra il nome in mezzo a i fior distinto,

da che Febo di vita quello priva:

degno per sua beltá di miglior fato,

ed era seco Aiace in fior cangiato.

105.

Stava non lunge il figlio di Cefiso,

che soave ed odorato senti,

e rassembrava ancor il bel Narciso

vicino al fonte sparger suoi lamenti,

felice se del vago suo bel viso

mai non faceva gli occhi suoi contenti:

tutti i luoghi fuggir, ahimè, devea,

u' fonte o d'acque rivo alcun vedea.

106.

Mirava verdeggiar il giesemino

in pergolati ordito mastramente:

il candido volgar, ma piú divino

per l'odor che soave olir si sente,

s'ergeva a i quattro canti del giardino

come piú noto a l'italica gente:

onde oglio prezioso poi s'esprime,

odorifer, soave, rar, sullime.

107.

Eravi il giallo poi, ma senz'odore,

per far contenta e pascer sol la vista:

quest'in Italia ancor fama ed onore

fin qui da le donzelle non s'acquista:

forse esser può che su 'l Nilo fòre

è posto tra lodati insieme in lista

col terzo che la Persia ne conciede,

che di color al mar simil si vede.

108.

La salïunca appresso, non men grata

per l'odorate foglie e fior ancora,

era in diverse bande collocata,

che d'India le richezze spande ogni ora.

Gallica nardo alcuni l'han chiamata,

ch'odor soave sempre spira fòra,

e da tarme li panni intatti serba,

o vi si sparga il fior o ponga l'erba.

109.

Fioriva l'iri quasi a simiglianza

del cieleste arco quando 'n l'aria appare,

la cui radice d'ottima sustanza

salutiferi unguenti ne suol dare:

non pigli di cavarla mai baldanza

chi mondo e casto non si può chiamare:

tra l'altre sue vertú quest'i casti ama,

ed esser còlta da man casta brama.

110.

Il polio i' vidi, a noi rappresentante,

con la sua cana e ben matura imago,

del perfetto giudicio l'opre sante,

cosí canuto si dimostra e vago.

E chi dirá da poi le tante e tante

vertú del suo poter divino e mago?

Ch'a far eccelso un uom chiar e famoso

efficace si scopre e vertüoso.

111.

V'eran vïole di diverse speci,

che troppo lungo fôra annoverarle:

in questo son felici tutti e' greci,

cosí pigner le san, cosí lodarle.

I' ve ne vidi forse piú di dieci

diverse come sa natura farle,

ch'a suo voler le forma, pigne e varia,

marzia, rubente, matronale e varia.

112.

Ma come tacerò quella bella,

che d'odor vince l'altre e di colore,

appellata da' dotti la fiammella,

a pochi nota, e nosco a tutte l'ore?

Sol cinque foglie prima aveva quella,

ch'or piú di cento ne dispiega fòre,

e le sue pompe variamente mostra,

ch'or latte, or sangue nel color dimostra.

113.

Questa da prima con le poche foglie

una ninfa trovò per boschi e piagge,

che le piacque, ch'ella allor la coglie,

e con le barbe intiera la sottragge:

indi un bel vaso pien di terra toglie,

e ve la pianta con man caste e sagge,

ed ogni l'inacqua, purga e cole,

quella tenendo al chiar e aprico sole.

114.

Onde il bel fior culto ed onorato

cangiò se stesso e vinse sua natura.

Venne qual seme d'Arabia odorato,

ed accrebbe le foglie oltra misura.

Dal buon odor il nome li fu dato

del garofil ch'esala a l'aura pura,

ch'alcuno licne coronaria chiama,

ed ogni etá l'apprezza, onora ed ama.

115.

E chi de gli altri fior supple al diffetto,

e l'asprezza demolce al freddo verno,

l'immortal amaranto, puro e schietto,

il porporin color mostrava eterno.

E se guasto tal ora e 'n terra abietto

d'acqua l'aspergi, il suo vigor interno

redivivo si mostra, e la sua spica

rosseggia ardente, a vita sempr'amica.

116.

Ora se 'l ghiaccio nostra madre copre,

come farai al sacro altar ghirlanda?

Convien che l'amaranto allor adopre,

che le corone adorna ed inghirlanda.

Il tessalo d'Achil l'urna ricopre

e cinge d'amaranto in ogni banda:

cosí s'apprezza questo vago fiore,

che ci è l'estate e 'l verno, e mai non more.

117.

E chi dal ciel discese ed ebbe il nome

da l'angel che qua giú a noi la diede,

Angelica bella che le chiome

e 'l fior bel spiega fòr d'umana fede,

ivi mostrava le sue dolci some,

mirabil da la cima fin al piede.

E presso, carco d'api, il timo v'era,

onde ben ole la melliflua cera.

118

E con le foglie del suo fior no' sparte

anemone adornava la stagione,

che mai non l'apre né le spiega in parte,

se 'l vento dentro l'ôra non vi pone.

Vogliono alcuni, ed hanlo scritto in carte,

ch'ella nascesse del cruor d'Adone,

e ne l'Egitto il suo fïor espresso

le nostre infermitá segnava spesso.

119.

Come si volge il sol, ver quel si gira,

e rimirarlo l'elitropio suole.

E chi 'l suo stelo e tanti fior rimira

vede il color di tutte le vïole:

ivi lo veggio che dolente ammira

il tanto amato e nodritivo sole.

E d'ogni sorte v'eran l'alme rose,

che Vener pinse e di sua man compose.

120.

E qual terso oro e biondo allor splendeva

l'elicriso col fior tutt'inaurato,

che fulgente e vago si vedeva

che gli occhi m'abbagliava in ogni lato.

Corone il tempo antico ne tesseva,

ed era in tanto prezzo e stimato,

che gloria dar credea perché d'i maghi

par che 'l voler in molte cose appaghi.

121.

Di convalli il bel giglio tutto bianco

vidi che tira a sé chiunque il tocca,

il cui soave odor non vien mai stanco,

ma piú soave ogni or esala e fiocca:

e chi l'odora par che renda franco,

tanta vertú nel cor infonde e scocca.

E d'altri gigli v'era copia assai,

onor e pompa di giardini gai.

122.

Tesseva pergolati il rosmarino

con le sue foglie e fior amici al core,

e madreselva se 'l tenea vicino,

avinchiandolo spesso dentro e fòre.

E d'ogni parte il verde e bel giardino

mostrava aperto la sua pompa e onore,

pascendo il naso e gli occhi tutta via,

bello ed odorato si scopria.

123.

Tant'altri fior di varii e bei colori,

come depigne ed orna la natura,

spiravan d'ogni banda i cari odori,

rendendo assai piú vaga la verdura.

A le strade e sentier dapoi di fòri

or questa or quella si vedea figura,

tessuta tra li bussi in strane norme

d'animali, d'augelli e d'altre forme.

124.

Ultimamente vidi il mesto loto,

ch'interpretato dice desidero,

e piú che 'n li giardini è spesso noto

presso a' sepolcri in qualche cemitero.

Rimasi, a questo, stupido ed immoto

pigliando mai augurio, infausto e nero,

che i' vivrei del desir fòr di speranza

il resto di mia vita che m'avanza.

125.

N'altro di quest'augurio i' vuo' piú dire,

ché troppo vero fu e troppo certo:

perché del lungo e fido mio servire

mai guiderdon non ebbi, n'alcun merto,

né per ciò resto quella di seguire,

per cui tanti martír ho giá sofferto;

ché meglio è per costei, ahimè, languire,

che per qual altra donna ogni or gioire.

126.

Mirava ed ammirava il bel giardino,

vago e fiorito d'ognintorno,

n'altro ne vidi mai salvo un vicino

a la Garonna mastramente adorno:

ché di sua man lo cole quel divino

vate con cui le Muse fan soggiorno,

e seco Andietta sua consorte ancora,

invitando Pomona, Apollo e Flora.

127.

Questo è 'l figliuol e padre di natura,

a Febo ed Esculapio tanto caro,

di cui lo studio, ingegno ed ogni cura

è far al mondo manifesto e chiaro

che sia filosofia nativa e pura,

e mostri il suo candor sincero e raro,

senza fuconodo, e senza velo,

com'allor che discese giú dal cielo.

128.

E ben l'ha fatto come giá dimostra

ne l'opre sue mirande in carta e 'n stampa.

Per ch'or con quel d'Arpin contende e giostra,

ed or Stagira arditamente accampa:

or su Parnaso fa di sé tal mostra,

che Vergilio d'invidia tutt'avampa.

Scopre poi quanti asconde l'uomo in seno

morbi, che stupir ne fa Galeno.

129.

Poi de le piante chi n'ha detto tanto

quant'egli scritto n'ha dottamente?

Chi vide erbe giá mai in alcun canto

e come l'una a l'altra è differente,

ch'abbia com'egli di saperle il vanto,

e 'l proprio dirne minutamente?

Ei te le mostra, te le pigne e esplica,

il ver ti dice ed ogni dubbio estrica.

130.

Ma del soave suo candido stile,

che posso dir ch'al ver del ver arrivi?

Non può il mio canto cosí basso e vile

giunger gli onori suoi chiari e divi.

Mi baste adunque dir in voce umile

ch'egli il mio parlar non sdegni o schivi:

questo è 'l gran Giulio Cesar che la Scala

al ciel inalza, e vera fama esala.

131.

Deh, perch', Italia mia, privata sei

d'uomo dotto, chiaro e glorïoso?

Piú d'una etá e forse quattro e sei

vedrai finir prima che famoso

spirto dal ciel t'infondan gli alti dèi,

ch'è senza par, se dir il ver i' oso:

tu l'hai pur dato al mondo e ancor nodrito,

ben ch'egli stanzi in altro clima e sito.

132.

Trasportato dal ver e dal disio

di render testimonio al ver, ho detto

ciò che detto ho, ma giúrovi ben ch'io

al ver non giungo del suo ben perfetto.

Or ritornando al primo canto mio

de l'aprico giardin vago ed eletto,

dico che v'era d'ogni frutto sorte,

che l'Autun, Primavera e l'Está porte.

133.

E su li rami il rossignuol gientile

piagneva dolcemente il suo dolore.

E con soave canto udi' lo stile

di tali augelli in voci piú canore,

quali comincia udir il vago Aprile,

quando risveglia gli animali Amore.

Poi tutto 'l luoco folgorar parea,

n'altro che luce quivi si vedea.

134.

E qual miracol se col sol la luce

allor apparse e con la luce il sole?

Di questa il chiar de gli occhi riluce,

che dove mira il tutto chiarir suole.

E tanto il suo bel fuoco abbruscia e luce,

quanto le aggrada e quanto quella vuole,

per c'ha ne gli occhi mille soli ardenti,

del sol del ciel piú chiari e piú possenti.

135.

Cosí dentro al palazzo ritornai

tutto pensoso e tutto in me raccolto,

e vidi folgorar que' vivi rai,

onde ogni suo poter Amor ha tolto:

e da lunge sott'occhio rimirai

la grazia del divino e vago volto,

e vidi ben che mai non fu né fia

volto ch'a par di questo bel sia.

136.

Le magnanime due gientil sorelle

stavan gioiose a la nipote intorno,

mirando le fattezze vaghe e belle,

col viso d'ogni grazia ricco e adorno.

Vedean le due lucenti e vive stelle

che fanno a mezzanotte un chiaro giorno,

udivan quel parlar cosí soave,

candido, puro, mansüeto e grave.

137.

Stupivan rimirar in quell'etate

gli atti leggiadri sempre vaghi e schivi,

e la nativa bella beltate,

u' non è fuco che l'accresca o avivi:

cessavan mirar la maiestate

di que' bei modi compiti e divi,

ché se stava, parlava o si movea,

era pur forza dir: «Ecco una dèa».

138.

Qual meraviglia adunque s'io restai

dentro a' begli occhi preso ed arso allora,

s'uscia vertú da que' fulgenti rai,

che l'alma accese in un momento d'ora?

tosto i begli occhi rimirai,

che fui di libertá cavato fòra,

e quanto piú mirava il vago viso,

piú mi legava ogni or da me diviso.

139.

Ond'io che giá per fama tutt'ardea

di tante sue vertuti e rare doti,

e d'Eridania il dir vero credea,

in que' begli occhi aveva gli occhi immoti;

tal ch'un sottil velen da quei bevea,

che, fin che l'alma queste membra roti,

le midolle e la carne inferma e l'ossa

pascerá sempre con divina possa.

140.

Né mai potrá di pietre o d'erba forza

cosí dolce velen smorzar in parte,

né di carmi l'incanto mai lo sforza,

o qual si voglia ingegno, prova ed arte.

Anzi a dentro il vigor cosí rinforza,

e tra le vene il suo liquor comparte,

ch'ogni impossibil cosa prima fia

che sano mai da tal velen i' sia.

141.

E chi mai pose solfo e nitro al fuoco

vicin che, se sparge le fiammelle,

e ch'una sol li tocchi pur un poco,

che ratto non gli accenda una di quelle?

Volerlo poi smorzar non trova luoco,

anzi par che la fiamma rinovelle;

ché quanto piú ricerca di smorzarlo,

tanto il vede maggior, né sa scemarlo.

142.

Ond'io vicin di que' begli occhi a i rai,

arsi in un tratto, e crebbe la fiamma,

che, se scemarla pur ricerco mai,

fassi maggior, piú forte, e piú s'infiamma.

Da indi in qua s'aíta ricercai,

di soccorso non ho sentito dramma:

cresce l'ardor, ahimè, di tempo in tempo,

via piú penace quanto piú m'attempo.

143.

Se come del parlar posso posarmi,

cosí potessi racquetar il core,

non fôran focose le calde armi

con che mi fere ogni or e accende Amore;

anzi pur questa che non vuol sferrarmi,

ma piú mi sferza, e accresce piú l'ardore.

Or sia qui fin per ora al quinto canto,

che riposi al men la lingua alquanto.





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