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Matteo Bandello
Canti XI... Le III parche

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  • CANTO VII
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CANTO VII

 

1.

I varii effetti che produce Amore,

o che paion d'Amor fatti e produtti,

son la cagion ch'a noi sovente in core

nasce un pensier che poi n'ingombra tutti:

ché veggiendo un amante far errore,

credem che faccia Amor effetti brutti,

e che nascan da lui tormenti e guai,

con altre pene ed altri danni assai.

2.

Talor si vede un amator che sempre

si lamenta e si lagna pien di noia,

e par ch'ogni or si strugga e si distempre,

e mille volte l'ora mesto moia.

Un altro cangia poi pensieri e tempre,

ed or s'attrista ed or sen vive in gioia,

saldo in un tenor mai ferma il piede,

ma mille volte il cangiar si vede.

3.

Quell'altro ch'averá la donna altiera,

anzi soperba e sempre mai ritrosa,

segue l'impresa amando, né despera

farla col tempo ancor venir pietosa.

E quanto serve piú con sincera,

piú la ritrova dura e disdegnosa,

né però lascia quella di servire,

disposto strazii e guai ogni or soffrire.

4.

Ci sará poi chi gode il bene amato,

ed ha l'amata ad ogni cenno e voglia;

ma per che gielosia l'ha venenato,

vive, anzi mor ogni or in aspra doglia:

e se gusta piacer è turbato,

e gustando di timor s'addoglia,

che quel piacer chiamar si può tormento,

ch'una ora mai nol lascia star contento.

5.

Si piglia il tutto alcuno a grado e 'n pace,

o sia sprezzato o che la donna l'ami:

non ride, non s'esalta, né si sface,

s'avien che quella il fugga o che lo chiami:

altro non vuol se non quel sol che piace

a chi l'ha preso come i pesci a gli ami:

e come l'elitropio mira il sole,

ei la sua donna segue e mirar suole.

6.

Che direm poi di tanti che 'l veleno

beven spezzando l'amoroso strale?

Quei con la spada acuta ne vien meno,

e stima morte piú ch'amar men male.

Ha sempre quell'il laccio ascoso in seno,

e poi l'annoda al collo e fassi quale

Ifi si fece ed altri a simil scempio,

che fan ch'Amor si dice crudo ed empio.

7.

Questi accidenti strani fan ch'assai

arman la lingua contra Amor ben spesso,

e dicon che 'n Amor son pene e guai,

mettendo con Amor il danno espresso:

ond'il mio mastro allor i' ricercai,

che quanto mi dicea seguisse appresso,

e mi dicesse quai ministri toglie

Amor per me' seguir l'ardenti voglie.

8.

Il buon dottor dapoi ch'inteso m'ebbe,

alzò le ciglia con le labra chiuse,

e tanta grazia al grave volto accrebbe,

ch'un certo non so che per quel si fuse.

E com'ogni poeta allor farebbe,

che favor implorasse da le Muse,

ambe le luci al ciel rivolte e fisse,

con dolce e chiara voce cosí disse:

9.

– Se prima Amor pregai che soccorresse

a le deboli forze de l'ingegno,

acciò che chiaramente dir potesse

quant'egli è grande, liberale e degno,

or supplicar è forza con piú spesse

preci, e pregarlo che mi dia sostegno,

che dir possa di lui quanto conviene,

cagion non mai del mal ma del bene.

10.

E se fin qui l'un giogo di Parnaso

assai m'è stato a dir quant'i' n'ho detto,

or tutti dui son uopo, ed anco il vaso

d'Ippocrene bisogna, terso e netto.

M'aiutin le donzelle di Pegaso,

ch'Erato m'ingombri l'alma e 'l petto:

m'aspiri Febo acciò scopra l'errore

ove si trova il mondo in dir d'Amore.

11.

Ma tu ch'assiso meco te ne stai,

e fai conserva de le mie parole,

fa che di mente piú non t'esca mai

quanto d'Amor dirò, cieleste prole.

Da gli ardenti, focosi e chiari rai,

che vibra d'ognintorno il vivo sole,

ne difende quest'ombra fresca e folta,

che ciò che ti dico intento ascolta.

12.

Ti dissi com'Amor in tutto sprezza

alcun d'i sensi come sporchi e inetti,

e che la vista con l'udir apprezza,

insieme col pensar quando son netti.

Con questi si fruisse la bellezza

da menti sagge e temperati petti:

chi vuol in gli altri sensi porr'Amore,

in tutto di ragion si trova fòre.

13.

Quell'ardor turbulento che lascivo

in gli atti si dimostra, è sozzo e brutto:

ma l'ardor che del gusto e tatto è schivo,

è leggiadro, gientil e vago tutto.

Chi questo segue resta sempre vivo,

sente il viver suo travaglio o lutto,

ché sol a l'opre attende oneste e belle,

ed ogni rio voler dal cor divelle.

14.

Ministri questi son d'Amor perfetto,

che spiritali sono, onesti e puri.

Gli altri chi segue de' chiamarsi inetto,

perché noiosi son, lascivi e furi.

Dunque ben cribra quanto chiudi in petto,

e mira s'i pensier son netti o impuri,

guarda ciò che desidri e ciò che brami,

e quai ministri, amando questa, chiami.

15.

I' so che l'ami fòr d'ogni misura,

e tanto l'amerai che resti vivo,

perché fia sempre la maggior tua cura

questa seguir, il resto aver a schivo.

Indarno adoprarebbe la natura,

se l'attempato fosse d'amar privo,

perch'ogni sesso ed ogni etate vale

al vero Amor spiegar ogni ora l'ale.

16.

Quant'altri ch'oggi viva so che puoi

l'alma beltá fruir che tant'ammiri;

colmi di gioia sono i pensier tuoi,

quando l'ascolti e intento la rimiri.

Altro ch'udir e lei mirar non vuoi,

e tutti i tuoi pensier a questo giri,

ché come l'odi, vedi o di lei pensi,

senti nel cor piacer gioiosi e immensi.

17.

È d'Amor il pensier ministro vero,

e l'amato obbietto t'appresenta

c'han gli occhi il lor gioir, e quel sincero

suon del parlar dolce al cor t'aventa

ch'un piacer gusti soave e intiero,

che null'altro da te par che si senta,

tal che dal tuo pensier la mente elice

d'Amor la gioia che la fa felice.

18.

Se dunque questa è quella vera gioia,

che dona Amor a i cari suoi seguaci,

se 'n questa non si trova affanno o noia,

né cosa v'è che turbi queste paci,

se fin che l'alma parta e 'l corpo moia,

questi d'Amor tre sensi son capaci,

dir ne convien che questi sono i veri

d'Amor ministri, candidi e sinceri.

19.

Se figlia, o madre, o sorella, o sia moglie

di chi si voglia, amar Amor t'induce,

per questo al suo marito non si toglie,

n'infamia alcuna ad altri si traduce,

quando si mette il freno a quelle voglie

c'han l'appetito per lor guida e duce,

e s'ha nel cor un sol e rar disire:

fruir pensando e col mirar e udire.

20.

Ma quei che 'l tatto per ministro ha posto

ed in quel ferma il suo lascivo velle,

dal vero Amor si trova discosto

come siam noi da l'alte e aurate stelle.

Questi arde il verno e giela a mezz'Agosto,

e spesso sé da sé cosí divelle,

che di persona al mondo non si fida,

e diventa fellone ed omicida.

21.

Indi ne nascon tanti e tanti mali

quanti tu vedi tutto 'l seguire,

né ciò ci fanno gli amorosi strali,

o che per forza Amor a tal ne tire.

Noi semo quei che ci facciamo tali,

perché prezzamo sol il rio disire,

e dietro andiamo a l'appetito folle,

ch'a la ragion l'imperio allora tolte.

22.

Non sia ch'ardisca adunque a l'appetito

d'Amor il nome porre o dirlo Iddio.

Qui taccia Dicearco e l'infinito

stormo che 'l segue scelerato e rio,

ché non conviene a' dèi se non gradito

nome di buono e ben, di bello e pio;

ond'Amor vero i sacri e antichi vati

chiamano Dio e gli han gli altar sacrati.

23.

Se di sacro Amor s'aman duo cori,

cerca l'un l'altro di piacersi sempre.

Son questi i casti, sono i giusti Amori,

c'han l'opre sagge e sol d'oneste tempre.

Aborren questi il mal, fuggon gli errori,

lascian ch'appetito il cor gli stempre.

Né da lor esce mai parola o cosa,

che possa Momo dir vituperosa.

24.

Il pensar dunque col veder e udire

son di perfetto Amor ministri veri.

E chi, di questi fòr, altro fruire

cerca co i sensi disonesti e neri,

questi si vede a precipizio gire,

e si può dirgli: «Amico, certo pèri,

per che vai fòr de la diritta strada,

ove chi va, convien ch'al fin ci cada».

25.

E ch'altro volle dir Fedro gientile

allor ch'Alceste nel Simposio loda,

e da lei volge al dotto Orfeo lo stile

che Patrocle e 'l forte Achil v'annoda,

se non ch'amor di donna ed il maschile

ogni inganno e viltá da sé disnoda,

e rende l'amator buono e perfetto,

se quei ministri adopra ch'io t'ho detto?

26.

Due cose, dice, son ch'ogni mortale

devrebbe aver, se cerca farsi grande.

No' spiegherá mai troppo in alto l'ale

chi di rossor il volto non si spande,

allor che cosa vede o fa di male,

perché vergogna questo segno pande.

Dunque arrossar in cose disoneste

par ch'una indole buona manifeste.

27.

Quest'è la prima e segue la seconda,

che la scala di gir ad alto presta,

e tutti i gradi saldamente fonda,

ché non si faccia cosa men che onesta.

turbo d'aria, né di pelago onda,

sorte avversa mai al mal l'inesta:

ché chi l'avrá la vertüosa strada

di bene in meglio ogni or convien che vada.

28.

Or queste chi dará? chi fia lo mastro,

che in cor a' giovanetti le suggelle?

Ben fia concetto sotto benigno astro

chi possessor si troverá di quelle.

Ma se vi spiega Amor quel sacro impiastro

onde fa l'opre glorïose e belle,

tu vederai costor costanti e forti

a soffrir l'un per l'altro mille morti.

29.

Ed oltra questo, ov'egli il fuoco accende,

ogni vertú germoglia e senti olire.

Il timidetto e vile ei forte rende,

e tra perigli ardito lo fa gire.

A l'opre glorïose sempre attende,

e d'ogni grazia l'uomo fa gioire;

e fa chi 'l segue virile e saldo

ch'egli non teme freddo e meno il caldo.

30.

Se si potesse unir un'oste insieme,

che di veri amator fosse compita,

eccelse imprese, glorïose e estreme

faria la gente in vero Amor unita.

Fôran le forze lor grandi e supreme,

stimando piú l'Amor assai che vita,

perché prima ciascun vorria morire,

che dinanzi a chi s'ama mai fuggire.

31.

Ché l'amator innanzi al caro amato

non fa mai cosa men ch'onesta e degna,

ché se padre ha, parente o servo a lato,

poco lor vista e lor rispetto degna.

Ma sendo da chi l'ama accompagnato,

saldo mostrarsi e forte ogni or s'ingegna,

e piú da questi esser veduto teme,

che da quant'altri sono al mondo insieme.

32.

Di Pillade e d'Oreste perché pensi

che sia l'istoria scritta e tant'amore?

Di Teseo, di Piritoo sono immensi

i gesti perché 'n lor era un sol core.

D'Eurïalo e di Niso i cori accensi

quanto men stiman vita che l'onore?

Gracco per ch'ama di buon cor la moglie,

la morte volontaria per sé toglie.

33.

Questo è d'Amor perfetto il vero nodo,

che stima la vertute e 'l vizio sprezza.

Questo i' t'esalto, ti commendo e lodo,

che da spirti gientil sempre s'apprezza.

Questo è l'onesto, giusto e santo modo

che n'insegna fruir l'alma bellezza

con la mente, con l'occhio e con l'udire,

ove consiste in tutto il ver fruire.

34.

Ed onde avien sovente che i piú saggi,

e molti c'hanno sovvra altrui l'impero,

a l'incontrar di bei lucenti raggi

di que' begli occhi amati d'amor vero,

cangiar vedi color a que' paraggi,

e quasi dir tremando: «Ahimè, ch'i' pèro»?

Questo è che spira ne l'amato obbietto

cosa divina e non umano affetto.

35.

L'almo divin splendor e santa luce,

che, 'n la cosa che s'ama, luce e splende,

con tal chiarezza e tal vigor riluce,

che chi vi mira in un momento accende.

E tanta riverenza allor induce,

che come idol di Dio l'occhio l'apprende,

e teme e trema e 'l riverisce e onora,

e com'innanzi a Dio s'inchina e adora.

36.

Brama l'amante allor l'amato farsi,

ed è ben giusto Iddio a l'uom preporre,

onde vorrebbe in quello trasformarsi,

per ciò che l'alma a chi l'informa corre.

Si veggion dolcemente poi lagnarsi,

s'Amor a l'uno e a l'altro non soccorre:

vive l'amante ne l'amato, e poi

questi in colui, ed un si fan di doi.

37.

E perché la bellezza che si brama,

raggio è del sol de la beltá divina,

ella a sé l'uomo tira ed egli l'ama,

ch'al divin lume allor umil s'inchina.

Questa beltá sospira, questa chiama,

ed in que' rai com'oro in fuoco affina:

poi sente non so che che lo trasforma,

altro abito pigliando ed altra forma.

38.

Se timido era e astretto da paura,

si vede lieto e diventar audace:

s'era di fredda e gielata natura,

arder lo miri com'accesa face:

se rintuzzato ingegno e senza cura

aveva, fassi acuto e perspicace:

e qual è cui divino raggio aspiri,

che non si cangi e sol grandezza spiri?

39.

Siam dunque astretti a dir ch'Amor è Dio,

grande, mirando, nobile e potente,

e di profitto tal cortese e pio,

che la sua largitate ogni uomo sente:

dal suo favor s'acqueta ogni disio

di bellezza fruir rara e eccellente:

questa è d'Amor il fin, quest'è colei

che lodan tanto tutti i detti miei.

40.

Con ciò che si conosce, si fruisse,

conosce l'alma, orecchia ed occhi ancora,

con questi Amor i suoi disir finisse,

e piú perfetto si conserva ogni ora.

Son gli altri sensi, come giá si disse,

da' servigi d'Amor in tutto fòra:

son ministri del corpo vili e bassi,

cui nel regno d'Amor luoco non dassi.

41.

Con questi tre sagaci can perfetti,

come si caccia per le selve fera,

andrem cercando quei divin diletti

ch'ogni sincero amante cerca e spera.

E dal bel de le voci e corpi eletti

avrem de l'alma la bellezza vera,

questa da me lodata e su la cima

posta d'ogni beltá come la prima.

42.

E quando un corpo tutto bello e vago

informa un'alma d'ogni grazia priva,

com'ombra e tosto peritura imago,

da noi si miri quella spoglia viva.

Ben col pensier e co l'udir m'appago,

se 'n corpo sozzo alberga un'alma diva,

ché questo de la mente bel candore

amar, bramar si de' con tutto 'l core.

43.

Ché sotto a belle membra tien talora

un vizïoso spirto e falsa mente,

e come il pome che ti par di fòra

di candor misto con rossor lucente,

s'un poco questo premi, allor allora

ciò che di dentro v'è trovi fetente,

cosí quell'uom o donna fatta tale

può ben bella parer ma nulla vale.

44.

Quel vago fior che giovenezza serba,

è come rosa tra le spine colta,

o come tronco fior da la sua erba,

cui sol un giorno ogni bellezza ha tolta.

Cosí quel corpo lieve morbo snerba,

e picciol tempo ogni beltá gli occolta;

ché sol vi resta d'uom l'imago, dove

graziabeltá né modo piove.

45.

E quante volte avien che un uom si vede

ne l'apparenza tutto vago e bello,

e tal di dentro qual di fòr il crede

chi 'l mira, ed ama ardentemente quello;

ma come a pratticarlo ei move il piede,

il trova rozzo, ignavo, inetto e fello,

e si vergogna averlo amato, poi

che tanto bambo appar ne i gesti suoi.

46.

Avrá quell'altro qualche donna vista

con duo begli occhi ed un polito viso,

e li parrá bella a prima vista,

che se stesso a lei, d'amor conquiso;

nel parlar seco poi troppo s'attrista,

quando que' modi suoi contempla fiso,

ché senz'ingegno e doti la ritrova,

e per svegliarla indarno si riprova.

47.

Non sol bisogna rimirar la scorza,

che si vede di fòr e poco dura,

ma penetrar con l'intelletto è forza

se v'è l'alma gientil, accorta e pura.

E chi 'l petto di quella non discorza,

e mira s'arte v'è, se v'è natura,

si trova al fin aver amato in vano,

e di grilli e farfalle un stormo in mano.

48.

Or quando in belle e ben composte membra

un'anima gientil e chiara alberga,

che la beltá del gran Fattor n'assembra,

ed ogni cosa vil da sé posterga,

questa bellezza doppia ne rimembra

il primo bel del ciel, e vuol che s'erga

mai sempre l'alma ed ogni suo pensiero

per contemplar di questo bell'il vero.

49.

Questa beltá si de' con ogni cura

da noi cercar, e, come s'è trovata,

amar con cor ardente oltra misura,

e la luce fruir desïata.

Qui s'affatichi umana crïatura,

se brama farsi nobile e beata;

ché questo è il vero, dritto e buon camino

a ritrovar d'Amor l'imperio trino.

50.

Cosí cantò di quell'in chiara lode

Orfeo, cantando Vener con la lira,

ch'ivi cantar il buon poeta s'ode,

come d'Amor l'imperio il tutto tira.

Regna nel ciel ed ivi lieto gode,

e 'l suo valor in terra infonde e spira:

l'acque governa e gli elementi regge,

e mette al tutto, come donne, legge. –

51.

– E mi par, padre, che tu tocchi il regno

d'Amor triforme che ne gli inni Orfeo

chiari n'esprime col suo canto degno,

allor ch'estolle l'amoroso dèo.

Ma 'l cor mi rende d'un sol dubbio pregno

l'inno che in lode de la notte ei feo,

u' la necessitá fa che commandi

a tutt'i dèi, quantunque altieri e grandi. –

52.

Questo diss'io: e 'l mastro mi rispose,

come suol sempre, con ridente faccia:

– Se metti, figlio, il cor a quelle cose

ch'insieme Orfeo con bei nodi allaccia,

non ti fia uopo di commento o chiose,

ch'egli da sé que' suoi legami slaccia,

quando canta ch'Amor sovvra i tre fati

impera ed è padron da tutti i lati.

53.

Tra questi fati sta necessitate,

di cui Platone il regno ci dimostra.

Di lei piú forte, Amor, quante fïate

li par, la sfida, e quella vince in giostra.

Ei le contempra l'ira e feritate,

ch'ella sovente senz'Amor ne mostra;

per ch'ei da sé per sé fa tutte l'opre,

ov'ella in parte alcuna non si scopre.

54.

Odi come Platon te lo depigne,

e come il persüade bellamente.

Dice che nulla lega Amor o cigne,

perch'egli il tutto fa liberamente.

L'almo operar di Dio chi sforza o strigne,

se vera libertate in lui si sente?

E ch'altro è quell'oprar se non Amore,

che l'immensa bontá ci scopre fòre?

55.

Fur d'Amor dunque l'alme menti fatte,

e quanto fece il primo buon Maestro.

Il regno qui d'Amor con manna e latte

governa il tutto mansüeto e destro.

A quel convien che l'angelo s'adatte,

che sacro è tutto e nulla ha del terrestro.

È libero il produr che lo fe' tale.

ma come fatto fu, far ei non vale.

56.

Fatta da Dio la mente è santa e buona,

ma da la prima gran bontá traligna.

L'effetto a la cagion mai non consona

perfetto in tutto com'ella è benigna.

Adunque primo Amor la tromba suona,

dietro poi lui necessitá ralligna.

Cosí filosofando, il buon Platone

d'Amor il regno sovvra tutti pone.

57.

Ma perché par che nel Simposio ei voglia

che la necessitá tenesse il regno,

allor ch'a Celio i genitali spoglia

con la falce Saturno pien di sdegno,

ed egli poi da Giove in aspra doglia

legato di sua miseria segno,

quivi Agaton ci vuol mostrar allora,

che l'imperio d'Amor non era ancora.

58.

Come sofferto avrebbe Amor giá mai,

dice Agaton, s'egli era donno in cielo,

che l'uno a l'altro dio donasse guai,

non che svellesse pur un picciol pelo?

Son stati i vati, che con canti gai

favoleggiando sotto oscuro velo,

van nascondendo le divine cose,

per tenerle a' profani e al volgo ascose.

59.

Non déi, figliuol, pigliar la pura scorza

di queste poesie e lor figmenti:

chi vuol gustarle al vivo le discorza,

e ficca a dentro in la midolla i denti.

Non è ch'a Dio un angiol faccia forza,

ch'ogni or li son soggiette quelle menti;

ma 'l don che dato è lor, in qualche parte

l'angiol divide, e quasi scevra e sparte.

60.

Alluma il Re del ciel la mente allata,

che senza alcun discorso il tutto piglia;

ma questo lume non si dilata,

come in quel che lo , in chi s'appiglia.

Se l'angiol poi inspira un uom e il guata,

resta piú scuro in l'uomo e non rifiglia,

ché, se lo deve nel suo grado tòrre,

fa sillogismi e 'l tutto pria discorre.

61.

Giá t'ho detto io ch'a la cagion l'effetto

in tutto non s'aguaglia, e quando Dio

a que' spirti revela il suo concetto,

quasi quel lume par che paghi il fio;

ché ciò che nel Fattor è perfetto,

in lor non splende chiar com'egli uscío.

Per questo par si castri il suo maggiore

dal men perfetto spirto inferïore.

62.

E questo, quando la necessitate

impera, par ch'avenga, non che voglia

chi e chi riceve dignitate

che quella dal suo grado unqua si toglia;

ma nel recipïente a forza pate,

che 'n lui, come nel dante, non germoglia;

per ciò che non s'aguaglia a la cagione

l'effetto, ma menor di lei si pone.

63.

Cosí ci par che Celio sia castrato,

come cantan poeti, da Saturno,

perché l'angelo, ancor che sia beato,

a par del divin resta notturno.

Cosí Saturno trovasi legato

da Giove, e perde il vago scettro eburno,

perché del mondo l'alma, il dolce Giove,

come il riceve il gran poter non move.

64.

Onde conforme a questo leggerai

che, s'a Saturno Giove si congiunge,

o se 'l riceve, o ver gli oppone i rai,

o con sestile aspetto il guarda e punge,

o ver col trino che i maligni guai

e l'influsso crudel Giove emunge,

che 'l lega, il purga, lo contempra, e rende

tanto men tristo quanto piú l'accende.

65.

Non fu Saturno, dicono altri, il quale

la falce contra Celio adoperasse;

ma Giove fu che fece tanto male,

volendo che Saturno egli castrasse.

O fosse l'uno o l'altro, quel morale

senso c'ho detto a favola tal dasse.

E di questo potrei parlar assai,

ma tempo è di tornar ov'io lasciai. –

66.

Ond'io mi mossi a dir allor veggiendo

che seguitar volea le sue pedate,

e dissi: – Padre e mastro reverendo,

tu mi mostri d'Amor la deïtate,

e quant'antico sia, largo e stupendo,

calcando con li piè necessitate;

ma non m'insegni, sendo varii Amori,

qual si debbia fuggir e qual s'onori.

67.

Se fosse un sol Amor, i' crederei

che fosse il tuo parlar vero e perfetto.

Ma perché molti son gli Amor, direi

che dir bisogni piú di ciò c'hai detto.

Però se nulla ponno i preghi miei,

tu che 'n fronte mi vedi ogni concetto,

mostrami qual Amor si debbia tòrre,

e sovvra gli altri in degnitá preporre.

68.

Questo so io che di liggier potrai

chiarir e dimostrarmi aperto il vero,

ché 'n questo 'l tutto so che vedi e sai

quanto possa capir uman pensiero.

E parmi rammentar, come apparai,

gemini Amor aver fra noi l'impero.

E tu dicendo: «Il vero Amor fa questo»,

che sian diversi Amori è manifesto. –

69.

Allor con un soave e santo riso

il venerabil Veglio mi rispose:

Figliuol, in parte questo i' t'ho deciso,

s'hai posto mente a le giá dette cose.

Ti dissi che l'Amor, che va diviso

da l'occhio, udir, pensar senz'altre chiose

ch'Amor non è né mai fu bello o buono,

ché gli altri sensi segue in abbandono.

70.

Quell'Amor, dice Plato, déi seguire,

che di fruir bellezza è sol disio.

Ma di gemini Amor or non vuo' dire,

dirolli poi, né porransi in oblio.

Lasciami pur il mio sermon finire

che poco avanti cominciato ho io,

dal qual col dubbio fòra mi levasti,

quando de la necessitá parlasti.

71.

Questa selva d'Amor è larga e folta,

perché da pochi ancor è frequentata;

ma chi v'entra di dentro una sol volta,

trova la stanza al fine beata

che si ferma, né d'uscirne ascolta:

cosí sen gode la bellezza amata.

E per varii sentier colá si viene,

com'intendrai se tu m'ascolti bene.

72.

Far mi bisogna come il cacciatore,

quando cacciar ei vuol e prender fera:

prima che del covil la mandi fòre,

o la faccia levar dal luoco ov'era,

scieglie tra' cani quel c'ha per migliore,

e con le reti tutti mette in schiera:

cosí convien che molte cose i' faccia

prima ch'i' venga a la bramata caccia.

73.

Pitagora saggio, dotto e buono,

ch'umil da sé filosofo s'appella,

di tutte quelle cose che ci sono

il tre misura chiama giusta e bella.

Col numero ternario ch'io t'espono,

ogni crïata forma Iddio suggella,

ed è perfetta che 'n ciel ancora

in tre persone un Nume sol s'adora.

74.

Però cantando Orfeo, com'egli suole,

di Dio le lodi con sonoro verso,

che sia 'l folgorante Giove vuole

prencipio, mezzo e fin de l'universo.

Nel produr de le cose e d'ogni prole

fassi prencipio luminoso e terso:

è mezzo poi ch'a sé il tutto tira

con quel favor ch'infonde e che gli spira.

75.

Si chiama d'ogni cosa poi la fine,

perché ciò ch'a sé tira fa perfetto:

indi quel re del ciel che vuol s'inchine

ogni crïata cosa al suo cospetto,

buon, bello e giusto con voci divine

è veramente da piú saggi detto:

e queste voci son proprie sue,

come queste palpèbre sono tue.

76.

Ei mostra nel crïar la sua bontate,

poi che produce il tutto di sua voglia.

Si vede allor la bella sua beltate,

quando mortali a lui volar invoglia.

La giusticia con somma largitate

si scerne e vivamente allor germoglia,

quand'ei 'l merto a l'opre che si fanno,

secondo ch'elle mertan premio o danno.

77.

A la beltate adunque s'appertiene

le voglie a sé tirar de li mortali.

De la beltá quel bel che bel viene,

di volar suso a Dio ci presta l'ali.

Tra la bontate e la giusticia tiene

bellezza 'l luoco, e con bei passi uguali

da la bontate a la giusticia corre,

ov'ogni bel ed ogni ben concorre.

78.

Questa beltá divina in tutto Amore

genera di sé stessa ch'è disire,

e se del mondo trae Iddio il core

ch'ei si mire a Dio correndo gire,

un sol atto si scerne che vien fòre

da Dio al mondo e 'n Dio si va finire:

onde ne nasce un circolo perfetto,

che con tre nomi rettamente è detto.

79.

Quanto che 'n Dio comincia ed indi alletta,

bellezza questo cerchio allor si chiama,

nome d'Amor vuol poi che vi si metta,

che nel mondo distilla, il tira e affama.

Quanto ch'a Dio si volge e torna in fretta,

e si congiunge a Dio che lo richiama,

si dice voluttá, perciò ch'Amore

finisse in questa, dove ha posto il core.

80.

Di quel che tant'illustra Ariopago,

e del gran Gieroteo l'inno preclaro,

ch'altro ne volse dir nel canto vago,

quando santamente ambo cantaro?

Amor altro non è ch'un cerchio vago,

che buon dal buono gira al buon piú caro;

ch'Amor è buono, che dal buon proviene,

di quel si pasce e termina nel bene. –

81.

In questo ragionar guardommi il mio

caro maestro, e disse dolcemente:

– Se quant'i' dico non metti in oblio,

ma ben raccogli il tutto ne la mente,

Amor ritroverai esser disio

di bellezza fruir bella e eccellente.

Ed indi de gli effetti suoi gran parte

t'ho dicchiarato in una ed altra parte.

82.

E seguo tutta via il dir di prima,

dimostrandoti chiar qual sia l'Amore

ch'amarsi deve, e di che faccia stima

questo, che tanto lodo, santo ardore.

Ma so che 'l cor un gran pensier ti lima,

pensando or uno ed or un altro errore

che spesso si fará se del fruire

il fin non mostro che si de' seguire.

83.

Sappi ch'amando queste crïature

si deve il fin saper di tal affetto,

e scerner il valor e le nature

di ciò che s'ama per non far diffetto,

e come vuol ragion che si misure

l'ardor da poi che s'ha nel cor concetto;

perché sovente nascon molte cose,

che par che faccia Amor vituperose.

84.

Queste ti vo scoprendo e scieglio fòra,

come ci mostran di Platon le carte;

ma via piú chiare scoprirolle ancora

sciogliendo e' dubbi tuoi a parte a parte;

se prima ti dimostro in poco d'ora

una vertú che l'alma in sé comparte,

ch'intellettiva è detta ne le scole,

util a quel ch'amar con ragion vuole.

85.

Se del lodato Amor si de' parlare,

e del suo fin che fa gli effetti buoni,

questa vertú bisogna seguitare,

cui senza, vani fôran miei sermoni.

Ella col torchio acceso suol andare

scoprendo del camin fossi e valloni,

ed è natura sua, è suo costume

al poggio di vertú drizzar il lume.

86.

Tre gradi son diversi in le crïate

cose c'ha fatto il sommo Crïatore.

Sotto un son gli elementi e l'animate

bestie e le pietre e 'l ciel col suo splendore:

e le forme visibili e sensate

da questo grado non si cavan fòre:

d'esse ciascuna al dritto fin s'adopra

che dato l'è dal lor Fattor di sopra.

87.

L'altro poi grado sotto sé mantiene

l'invisibil sustanze e spiritali,

che 'n tutto sciolte son da le catene

de li misti elementi e corporali.

Questa da noi natura detta viene

angelica, e i pittor la fan con l'ali,

ferma talmente ne la prima voglia

ch'indi non fia giá mai che piú si scioglia.

88.

Tra questi estremi gradi ch'io t'ho detto,

il terzo grado v'è che ne dimostra

l'incorporea natura in un soggietto

ch'invisibile a gli occhi non si mostra,

ma 'l corpo informa e move, (suo ricetto),

fin ch'ella resta in la mondana chiostra:

anima questa è detta razionale,

che segue le passion del suo mortale.

89.

Sopra questi tre gradi e tre nature

Iddio, fattor de l'universo, regna,

ch'egli è 'l principio de le crïature,

e l'una ha fatta piú che l'altra degna.

Quelle sustanze separate e pure

prima de l'altre del suo fuoco degna,

e come piú propinqua, piú riscalda

l'angelica natura al ben far salda.

90.

Come si sente accesa ella si move,

e nel Fattor il raggio suo reflette;

onde col fuoco in lei tal grazia piove,

che ferma al ben oprar tutta si mette.

Da Dio conosce tante grazie nove,

a lui si volge e 'n quello si rimette.

Questo piú volte giá t'ho detto, ed ora

non istá mal che lo ridica ancora.

91.

L'altre sustanzïali forme e vive,

come li pesci sono e gli animali,

e le composte d'alma saggia prive,

arbori, pietre ed altre cose tali,

e le cielesti sfere ornate e dive,

girate da sustanze spiritali,

secondo il lor instinto naturale,

a l'alto lor Fattor dispiegan l'ale.

92.

Tirate sono amar l'eterno Regge

ed ubedir a' suoi commandamenti;

ma senz'elezïone e senza legge,

ché crïate non fur intelligenti:

onde al Signor che l'universo regge

mai non si mostran dure o resistenti,

anzi il lor corso di natura fanno,

e d'un tenor eternamente vanno.

93.

Ma l'alma nostra in questo corpo immersa,

che de l'angelo a par non può scaldarsi,

puote verso Dio restar conversa

che non possa come vuol cangiarsi,

per che la mole corporal che versa

quasi l'opprime, onde non sa levarsi

a conoscer Iddio come devrebbe,

ed amar quello quanto converrebbe.

94.

Le non mai viste cose amar si ponno,

ma non l'ignote giá, onde conviene

ch'a svegliar l'alma dal suo grave sonno,

acciò conosca in parte il primo bene,

che l'intelletto in lei si faccia donno,

allor che di ragione a l'uso viene,

e volga la possanza intellettiva

a la prima cagion eterna e viva.

95.

E ben che suffocata quasi sia

per lo commercio che col corpo face,

da le sensate cose pur s'invia

a la notizia de la prima Face.

E giunta a l'uso de la dritta via,

deve col suo Fattor fermar la pace,

ch'altri per lei a buona fede ha data,

quando dal sacro fonte fu levata.

96.

Dapoi, con la vertú de l'intelletto,

a conoscer comincia la bellezza

di quel che solamente è bel perfetto,

e come saggia quell'ammira e apprezza.

Ma poi sovente, da qualch'altro obbietto

svïata, il primo bel poco apprezza

ch'assai piú stima le bellezze frali

che le divine, eterne ed immortali.

97.

Con questo bel che 'n terra sparso vede,

devria levarsi a contemplar quel bello

dal qual in terra ogn'altro bel procede,

come in la cera forma dal suggello.

Ma la sciocca donando al senso fede,

di mille mali vien capace ostello;

onde procedon poi cotanti errori,

che fan parer diversi in terra Amori.

98.

Devrebbe la vertute intellettiva

a l'alma gli occhi aprir e far vedere

come, per la beltá che l'alme aviva,

si debbian queste in riverenza avere,

e non lasciar che cosa sensitiva

la debbia salda al basso ogni or tenere,

amando senza la ragione, e quello

nulla curando ch'è vago e bello.

99.

Saper bisogna de le cose il fine

a che son fatte, e quell'allor amare,

e quanto vuol ragion che 'l cor s'inchine,

ed a qual grado quest'amor fermare,

perché, passando il debito confine,

si vede in precipizio l'uomo andare.

Onde l'Amor ch'è giusto, santo e pio,

tenuto è fiero, scelerato e rio.

100.

Di qui son nate quelle openïoni

che fan Venere donna e ancor maschile.

Dan duo Cupídi lor e le cagioni

spiegan che tristo è l'un, l'altro è gientile.

Né ti voglio or narrar le lor ragioni,

né come fanno Amor or buono, or vile.

Perch'Amor semprvero, dritto e buono,

strazii, affanni o morti in Amor sono.

101.

Fingan poeti e quegli antichi vati,

che sacri detti sono e sacerdoti,

duo Veneri trovarsi con duo nati,

di cui l'un gioia, l'altro danno roti;

far non potran giá mai tanti trattati,

ch'Amor con veritá tristo si noti:

sempre si trova buono Amor, ma spesso

tristo egli par s'in cor fellone è messo.

102.

Ché, quand'egli non s'usa qual si deve,

albergo fassi l'uom di tutti i mali,

n'Amor per questo colpa ne riceve,

ma gli appetiti nostri ci fan tali.

Cose ci fan seguir che come neve

ratto si sfan, son caduche e frali:

indi bestemmia l'uom e biasma Amore,

chiamandolo crudel, pien d'ogni errore.

103.

Chi l'appetito segue e pon l'affetto

fòr di misura ove non de' fermarsi,

servo d'Amor a torto sará detto,

n'amante questi deve mai chiamarsi.

Infermo si de' dir, sporco ed inetto,

che non ha voglia punto di sanarsi,

e certo furïoso, stolto e cieco

egli è, perché ragion non ha piú seco.

104.

E forse forse che color c'han scritto

duo Veneri trovarsi e duo Cupídi,

se 'l senso lor sará con occhio dritto

mirato, e ben cercati a dentro i nidi,

al vero non faran gran prescritto,

come par che ne suonin tanti gridi;

però mi piace ragionarne alquanto,

acciò si veggia il vero Amor e santo.

105.

Due Veneri e Cupídi adunque fanno

costor che parlan di diversi Amori,

una cieleste a cui Cupído dànno

pien di cielesti ed immortali ardori,

l'altra volgar con cui volando vanno

dietro al figliuol terrestre mille errori;

onde si vede in quella pace eterna,

di raro in quest'avien che 'l ben si scerna.

106.

Perché la prima in tutto sprezza il senso,

e si governa sol con la ragione,

ha sempre il suo piacer fermo ed immenso

ov'ogni grazia Amor infonde e pone:

è poi de l'altra il cor saldo e intenso

a queste cose vili, che dispone

sol l'appetito usar e sol la voglia,

ch'esser non può che non si trove in doglia.

107.

Gli antichi fan che la cieleste dèa

del ciel sia figlia, e che non abbia madre:

l'altra volgar afferman che si crea

nel ventre di Dione, e Giove è il padre.

La prima è sempre buona e l'altra è rea,

e chi la segue a lor convien che quadre,

ben che talor in la terrestre sia

albergo d'onestate e cortesia.

108.

Son varii effetti per rispetto a noi,

secondo che l'affetto in noi si gira.

E ben che 'n voce sian Cupídi doi,

un sol Cupído è quel che l'arco tira.

Or buono, or tristo appar come poi

l'amante o bene o mal l'obbietto mira.

Tutto 'l ben, tutto 'l mal da noi dipende,

s'a la ragion, s'al senso l'uomo attende.

109.

Gran cose in poco d'ora il t'appresento,

e quelle tronco e chiudo in breve dire.

Trapasso or uno ed or altro argomento,

ché 'l tutto non si puote a pien scoprire.

E s'io volessi dir quanto ne sento,

come potrei tant'opra mai finire?

Basta ch'i' dubbii tuoi i' ti discioglia,

e del commune error che fòr ti toglia.

110.

Prende dal ciel la prima sua natura,

né del terrestre in sé vuol parte alcuna:

quest'altra al basso mette ogni sua cura,

ivi si ferma e 'l suo poter raguna.

Quell'è l'intelligenza altiera e pura,

che con la mente angelica s'aduna:

l'altra è 'l dato vigor del mondo a l'alma,

ch'unita al corpo a generar l'inalma.

111.

Ha ciascuna di lor d'i duo Cupídi

il suo Cupído a lei tutto simile.

L'una è tratta d'Amori sacri e fidi

a fruir la beltá di Dio gientile,

l'altra, a produr diversi in terra nidi

di tal bellezza, volge ogni suo stile.

La prima, piena del divin splendore,

a la seconda instilla il suo favore.

112.

Ond'ella, ornata di cotai scintille,

brama aventarle in questi corpi e 'n quelli,

che quanto di bellezze han piú faville,

appaion piú graditi a gli occhi e belli.

Ed ove piú beltá par che sfaville

in questi corpi formosi e snelli,

per gli occhi piú il desir che 'n noi sen vaga,

bellezze tai mirar mai non s'appaga.

113.

L'animo nostro è fatto da Dio tale,

che due potenzie in sé chiude e mantiene:

intendere e saper le cose vale,

e poi di generar potenzia tiene.

Queste possanze in noi son gemine ale,

che puon volar al mal, volar al bene:

le due Veneri parlo, c'hanno sempre

i lor Cupídi con diverse tempre.

114.

Ti dico adunque quand'a gli occhi nostri

appar d'un vago corpo la bellezza,

che nostra mente, ch'è la dèa da i chiostri

scesa del ciel, il bel de la vaghezza

intenta mira, ch'ivi par si mostri

de l'incrïato ben l'alta chiarezza;

onde la riverisce, ama ed onora

come cosa cieleste, e ancor l'adora.

115.

E col mezzo di questa a Dio s'inchina,

ché l'imagine sua contempla in quella,

e tal sente del cor farsi rapina,

che tutta a questo bel si rinovella.

L'altra, ch'a questa diva s'avicina,

sembianza generar brama bella,

ed ebra sol di tal disir a questo

ha 'l suo Cupído a l'opra intento e presto.

116

Adunque in l'una e 'n l'altra regna Amore,

ch'ama la sacra e la profana ancora;

ma differente assai è il lor ardore,

com'elle diseguali sono ogni ora.

La sacra un sol disir ha fisso in core,

mirar il bel de l'alma ch'ella onora:

quest'altra brama sol di generare

sembianza di quel bel, ch'a gli occhi appare.

117.

E l'uno e l'altro Amor è buono e onesto,

d'aver cercando la divina imago:

che dunque ci sará di disonesto,

se 'l lor disir si trova buono e vago?

I' ti dirò con quanti modi questo

Amor si fa, qual porco in mezzo 'l brago,

ché chi non ha de la ragione il freno,

gusta d'Amor non mèle ma veneno.

118.

Chïunque di produr è tant'ingordo

quella bellezza che con gli occhi vede,

che lascia il contemplar, e brutto e lordo

cerca tener nel fango fermo 'l piede,

ed a leggi divine e umane sordo

del generar il giusto modo eccede,

questi, lasciata la cieleste dèa,

servo è de la volgare Citerea.

119.

Chi fòr di modo ancor quest'appetito

seguendo, è tra le donne notte e giorno,

e contra il corso da natura ordito,

al sesso feminil fa danno e scorno,

cura d'esser mostro ogni or a dito,

perché nel fango faccia il suo soggiorno,

questi è terrestre e tutto bestïale,

senz'intelletto qual brutto animale.

120.

Anzi pur peggio assai si può chiamare

questi che sta nel fango sempr'involto:

bestia non vedi contra il corso oprare

ov'ha natura il generar raccolto;

ma che si de' di questo mostro fare,

che non merta levar al ciel il volto?

Costui si porti tra gli antropofaghi,

ove smembrato tant'error ei paghi.

121.

E chi s'ammira sol de la beltade

che luce sparsa per l'umane membra,

e come còlto fior repente cade,

che di lei nulla in brevi si rimembra:

e chi non mai, o pensa volte rade

quella beltá ch'al suo Fattor assembra,

anzi la sprezza e sol quell'altra brama,

questi la dèa volgar sol segue ed ama.

122.

Questo è l'abuso che chiamate Amore,

e s'appella volgar da i sacri vati;

ma se ragion contempra quel furore

che de l'alma i rai piú sian prezzati,

a la cieleste dèa si rende onore,

e del diritto i gradi son serbati.

Ché se del corpo la bellezza brami,

quella, qual scala al ciel, tu cerchi ed ami.

123.

Queste bellezze fuggitive e vane

che passan come nebbia al vento e al sole,

per scala usate a l'alte e sopra umane

bellezze de la mente belle e sole:

allor vedrete come sian lontane

da quelle queste, e come Amor si cole,

e com'a contemplar Iddio si sale

con queste de l'ingegno bell'ale.

124.

Onde chi s'erge con la mente e vola

a contemplar il primo gran Motore,

cosí da i sensi e' sensi ruba e invola,

che mai de la ragion non esce fòre.

S'abbassa al generar, e questa sola

mente usa come vuol il vero Amore,

e com'Iddio commanda ed ogni setta

che sia dal lume natural diretta.

125.

Ch'ama sol la bellezza ch'ei rimira,

ama una cosa momentanea e frale,

che, come un po' di febre la martira,

o corso d'anni o qualche doglia o male,

qual nebbia a l'ôra si dilegua e spira,

o come d'arco spinto dritto strale:

indi con la bellezza manca Amore,

che seco se ne fugge, passa e more.

126.

Ma ch'ama le beltati de l'ingegno,

d'un animo gientil, leggiadro e chiaro,

del primo bel conosce che son segno,

che con l'eternitá va sempre a paro.

L'Amor di queste è ver Amor e degno,

e merta lode, come santo e raro:

questo perfetto è piú di giorno in giorno,

ché morbi a tal beltá non fanno scorno.

127.

Or chi in altrui adopra o in sé la spada,

e la fune annodar al collo brama,

uscito è questi de la dritta strada,

e mente quando dice ch'egli t'ama

E se 'l velen stemprar a questi aggrada,

o cerca per morir qualch'altra trama,

chi dir oso sará ch'alberghi Amore

in duro, ferrigno e crudo core?

128.

sol chi donna, come sia, ancide,

ma chi l'oltraggia o 'l viso le percuote,

ogni senso d'Amor da sé divide,

e merta funi, ferro, fuoco e rote.

Di simil uom non sia chi mai si fide,

ma si trasporte a l'isole remote,

com'indegno di star ove mai sia

o d'uomini o di donne compagnia.

129.

Com'i' t'ho detto, Amor ferro non opra,

lacci, né veleno nel suo regno:

né mi par uopo ch'ora ti discopra

ch'accenda in mente d'uom fiero sdegno.

Ti basti ciò ch'udito n'hai disopra,

non far Amor in quest'alcun dissegno,

perch'ei ferro non vuol, non vuol veneno,

ma sempre gioia e pace porta in seno.

130.

Or perché Febo quasi a l'occidente

col carro aurato par che s'avicine,

quant'i' t'ho sporto chiudi ne la mente,

e d'Amor loda le vertú divine.

Ciò che ci resta crai compitamente

dirotti, al mio parlar mettendo fine:

tu n'anderai di dentro del castello,

ed io pian piano verso il mio ostello.

131.

Non vuo' che meco tu ne venga adesso,

o ch'usi cerimonie al mio partire.

Come del Gange fòr il sol fia messo,

i' qui t'aspetto se mi brami udire.

A dietro torna, non venir appresso,

ch'a la mia stanza solo i' voglio gire. –

Indi partendo il sacro dottor mio

mi disse nel partir: – A Dio, a Dio. –





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