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Matteo Bandello
Canti XI... Le III parche

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  • CANTO VIII
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CANTO VIII

 

1.

Quando da me partí quel santo Veglio,

che mi dicea d'Amor quant'io ne scrivo,

pensando a ciò piú de l'usato meglio,

e succiandone il suco fin al vivo,

«Ecco», diss'io, «ch'adesso mi risveglio

de l'affetto terrestre quasi schivo,

e conoscer comincio qual Amore

si de' seguir con puro e saldo core.

2.

I' veggio dileguarsi quella nebbia

che gli occhi m'offoscava freddamente:

il saggio del mio mastro dir disnebbia

quant'era d'ombra sparso ne la mente.

Non penso piú fallir come si debbia

nudrir Amor quando nel cor si sente,

e come deve amarsi la beltate

che de la prima è raggio e chiaritate».

3.

Cosí tra me pensando ritornai

ov'era assisa l'alma donna mia.

E mi parve piú bella e vaga assai

che non m'era paruta giá di pria.

Ella vêr me girando i dolci rai

di gioia pieni e santa leggiadria,

parea che mi dicesse: «È questa l'ora,

che torni a riveder chi t'innamora?».

4.

I' non sapea che dir innanzi a lei,

tal gustava piacer e tal dolcezza,

e mi parea che i tre de i sensi miei

del detto vero avesser giá contezza,

quasi dicendo: «Amico, ora ben déi

saper il fin di questa gran bellezza».

Cosí fruiva il bel di quel bel viso,

ch'arra ne del bel di paradiso.

5.

La notte poi, tra miei pensier involto,

quasi desto restai fin che l'aurora,

di croco e rose ornata, il vago volto,

le stelle discacciando, mostrò fòra.

Si vedeva l'albor aver disciolto

le scuro de la notte velo allora,

e farsi l'alba giá, di ranza, bianca,

quando nel sormontar di Febo manca.

6.

Avevan l'Ore il carro aurato al sole

condotto, ed egli si metteva in via.

E fòr del Gange, come sempre suole,

tutto di raggi cinto se n'uscia.

E da l'erbette e fiori e da vïole

giá la rugiada quasi sen fuggia,

quand'io al bel boschetto ritornai,

ove il mio mastro passeggiar trovai.

7.

Con quell'onor ch'al suo maggior si deve,

inchino il salutai, ed egli, pieno

di grazia e maiestá, con motto breve

resalutommi, e disse: – Il luoco ameno

ch'i mirti e i bei genebri in un riceve,

fin che 'l sol s'alzi a mezzo 'l ciel sereno,

presso al fonte su la molle erbetta

a parlar e seder dolce n'alletta. –

8.

Cosí per man pigliommi e verso il fonte

passo passo si mosse, ed io con seco.

Come fummo, disse: – A fronte a fronte,

figliuol, tu sederai su l'erba meco:

e perché l'ore al corso son pronte,

e lungamente star non posso teco,

comincierò seguir u' ier lasciai

quando del sacro Amor i' ti parlai.

9.

I' ti dicea ch'Amor questa bellezza

che si vede cosparsa in belle membra,

per quest'ammira, onora, ama ed apprezza,

per ciò che la beltá di Dio rimembra:

e ch'egli il ferro ed il veleno sprezza,

come cosa ch'a lui non si rassembra,

vuol gioia Amor, tranquillitate e pace,

e pascer di bellezza il cor li piace.

10.

Però ti prego e quanto posso esorto

che tal Amor tu segua ardentemente.

Questo mai danno non riceve o torto,

ma quanto cresce piú, vien piú fervente.

Con questo si perviene al vero porto,

u' tempesta non può né turbo ardente,

perché con questo mezzo l'uomo viene

a conoscer il primo sommo bene.

11.

Tutte le cose che tu miri in terra,

di sua bontá le fece Iddio per nui.

In tutte le crïate cose s'erra,

chi non le volge a contemplarlo lui.

Se non si leva l'uom, ma qui s'atterra,

e 'l fin vi mette de gli affetti sui,

questi perverte l'ordine di Dio,

e resta scelerato, ingrato e rio.

12.

Ma chi le prende al fin che fatte sono,

e d'ogni cosa a Dio vera lode,

questi, se cosa trova qui di buono,

come da Dio prestata a tempo gode.

Il tutto piglia per prestato dono,

né 'l fin biasmar a che fu fatto, s'ode,

anzi col mezzo lor si leva e grida:

«Pazzo è chi 'n terra il cor per sempre annida».

13.

Contempla il corso de le vaghe stelle,

e di Febo e la luna le fatiche,

e come par ch'ogn'anno rinovelle

tutte le cose fatte quasi antiche:

poi tra sé dice: «Queste cose belle

ha fatto il gran Fattor a l'uom amiche,

perch'egli s'erga amar chi a lui le diede,

che tutte fan del ben del ciel qui fede».

14.

Non ti par egli quando pensi al viso

e la bellezza di colei ch'onori,

che 'n terra aperto sia un paradiso

pien d'ogni gioia e di soavi ardori?

Non pensi allor intentamente e fiso

al Re del ciel, a que' divini cori,

fra te dicendo: «Se costei vale,

che fia mirar colui che la fa tale?»

15.

Se que' begli occhi a te girarsi miri,

ov'è mai sempre con le Grazie Amore,

esser in ciel allor non credi, e ammiri

tanta vaghezza e divin splendore?

Non ti par egli allor ch'Amor ti tiri

a contemplar l'eterno almo Fattore?

Ché s'una sol scintilla tanto piace,

che fia veder d'ogni splendor la face?

16.

E quando poi ragiona, e l'armonia

de le soavi e angeliche parole

nel cor ti penetra che ti svia,

e da te stesso te rubar poi suole,

se ti par ch'ogni dolcezza sia

in quelle parolette saggie e sole,

non pensi che su maggior dolcezza

senza par sia ogni or e piú bellezza?

17.

Questa nova beltá che tant'ammiri,

t'è data perché sia tua scala, e grado

col mezzo suo salir a i certi e miri

beni del ciel che si contemplan rado.

Fa dunque che costei ti volga e tiri

di que' cielesti fiumi al vero guado,

e pensa un raggio qui mirar di quelli

raggi divini, lucenti e belli.

18.

S'un picciol lume al sol parangonarsi

può, quand'egli arde in mezzo 'l ciel l'estate,

cosí queste bellezze compararsi

potran a quell'eterne ed increate.

Ch'altro si deve adunque da noi farsi,

se non con queste amar quelle beate,

Iddio lodando che le basse cose

arra ne de l'alte e glorïose?

19.

Né qui si scusi d'uom alcuna sorte,

ch'ogni suo sesso amar e etate puote:

giovani e vecchi, povvri e ricchi in corte

stanno d'Amor, e donne ancor son note.

Aperte sempre son tutte le porte,

né sue promesse son d'effetto vote.

Questo ti dico ogni or, ch'Amor non vuole

altro che 'l cor in mezzo a le sue scole.

20.

Or ve' che l'uomo ancor che vecchio e grave,

come ti dissi, amar può veramente:

e che del vecchio piú il giovane have

ch'esser non possa ogni or d'Amor fervente?

In quest'Amor l'amante mai non pave,

o sia presso a l'oggietto o sia assente,

che 'l mezzo s'opra qui de l'intelletto,

che con gli anni maturi è piú perfetto.

21.

Chiar'è non far natura cosa indarno,

Dio, che di natura è il mastro e 'l padre:

or ecco ch'argomento qui t'incarno,

e mira se ti par ch'al giusto quadre.

L'infermo, il vecchio, il macilento e scarno,

come potran fruir quelle leggiadre

vaghezze che cosí la dèa volgare

ama ed apprezza e sempre suol cercare?

22.

S'i giovani e gagliardi adunque sono

eletti soli a tal beltá fruire,

segue ch'indarno è dato questo dono

a l'uom, se tutti non lo pôn ghermire.

Ma la cieleste dèa, di ch'io ragiono,

n'etásesso priva di gioire,

anzi ogn'etate d'uom ed ogni sorte

vuol che Cupído il suo figliuol conforte.

23

Vuol che conforte e non ch'affliga Amore,

per ch'ei sospiri e lagrime non pasce,

si contenta albergar un puro core,

pur ch'ogni affetto tristo a dietro lasce:

e chi riceve questo santo ardore

può dir ch'un'altra volta egli rinasce

perché li dona Amor fatta aíta,

ch'ogni gioia si trova in quell'unita. –

24.

– Quanto mi parli, – i' dissi, – o mastro mio,

molto mi piace e mi conforta assai,

e veggio sciolti i dubbii dov'er'io,

quei dico che poco anzi ti spiegai;

ma nasce in me di novo or un disio,

a cui so ben che sodisfar potrai:

però ti prego che m'ascolti, quando

giova passar il tempo ragionando.

25.

Tu sai che 'l nostro dotto e divin Plato

altrimenti parlò di quest'effetti,

e ciò ch'Orfeo cantò con stil ornato,

ch'empie d'orror e di spavento i petti.

Quei disse che l'amante ne l'amato

vive, in sé morto, e questi ne' suoi detti

cantò l'amara e miseranda sorte

di ch'Amor segue con perpetua morte.

26.

E tu non mi dimostri altro che gioia

in questo Amor che mi commendi tanto.

Piacer mirar non so dove si moia,

né l'allegrezza sta dove è 'l pianto. –

– Se questo dubbio adesso t'annoia,

tosto mancrá, se tu m'ascolti alquanto –

rispose il dolce mastro al detto mio,

e saggiamente il suo parlar seguio:

27.

– Non ti spaventi in questo, né terrore

ti ponga a seguitar colei ch'onori,

ché come apprendi il senso interïore

di ciò c'han detto questi duo dottori,

e chiaro ti si mostre com'Amore

da lor lodato merta grandi onori,

vedrai che vita è quella morte, e dolce

è quell'amaro con ch'Amor si folce.

28.

Disse Platon ch'Amor è cosa amara,

e che ciascuno è morto mentre ch'ama:

un dolce amaro Orfeo Amor dicchiara,

perché libera morte Amor si chiama:

amaro s'egli è morto esser s'impara,

e dolce se morir l'amante brama:

l'amante mor perché se stesso oblia,

e vive ne l'amato tutta via.

29.

Non disse il Mastro de li mastri ch'ove

è 'l tuo tesoro ch'ivi alberga il core?

E ch'altro volle dir chi tutto fove,

se non che 'n sé l'amante sempre more?

Da quel si parte l'alma e vola dove

le par che prenda al viver suo favore:

ivi dimora come in suo tesoro,

ch'apprezza piú, che quant'al mondo è oro.

30.

E de le genti il gran dottor non dice:

«Qui sète morti e su vivete in cielo:

qui vostra vita mor, ma piú felice

s'asconde e vive in Dio con puro zelo»?

Da questo chiaramente pur s'elice

che la morte d'Amor e il freddo gielo

di tal morir è ben gioiosa vita,

che di grado l'amante a morte invita.

31.

L'alma, d'Amor al forte laccio presa,

'n sé non opra e meno di sé pensa.

E come puote oprar, s'ad altri, resa

a l'altrui voglie, l'opre sue dispensa?

Di par gravezza oprar ed esser pesa,

e senza l'altro l'un non siede a mensa:

nessuno, ove non è per sé, non opra:

u' l'uomo si ritrova, ivi s'adopra.

32.

L'animo adunque in sé de l'amatore,

s'ivi non opra, come star vi puote?

E, s'in sé non istá, dove favore

avrá d'aver di vita alcuna dote?

Se non è vivo, anzi di vita è fòre,

ch'in sé fa nulla, né si move o scuote,

e se d'aura vital si trova privo,

ove dir si potrá che spiri vivo?

33.

Bisogna dir che son d'Amor due speci,

per dimostrar se mor l'amante o vive.

Poi ch'egli ardendo sette volte e dieci

mostra a l'amata le sue fiamme vive,

e si vede mirar con occhi bieci,

ch'ella par che lo fugga e che lo schive:

morto è costui del tutto, né vitale

spirto in tal corpo ritrovarsi vale.

34.

In sé non vive, come giá s'è mostro,

anzi morto si vede e senza vita:

ne l'alma de l'amata questo nostro

viver non può, perch'ella non l'aíta,

che come fiera e qual orrendo mostro

da sé lo scascia con furïa infinita.

Vivrá costui ne l'aria forse o 'n fuoco,

o tra brutti animali averá luoco?

35.

Lo spirto fatto al suo Fattor simíle,

qua giú non vive che nel corpo umano;

però non tiene altrove alcun covile,

u' vita possa aver da quel lontano.

In corpo non amato cangia stile?

E questo in tutto si dimostra vano:

ché s'ei non vive u' vivere disia,

come vivrá dove sprezzato sia?

36.

In luoco dunque alcun vita non have

chi ama altrui né si conosce amato:

caso inaudito, periglioso e grave,

che da tutti devrebbe esser schifato.

Ei sempre stará morto se la chiave

d'un fiero sdegno non gli è posta a lato,

n'altro rimedio al viver suo si trova,

ché sol un sdegno a questa morte giova.

37.

Un forte sdegno allor nascer bisogna

che t'apra gli occhi e scioglia le catene,

e mostri il danno aperto e la vergogna

che tutto 'l per tant'error ti viene.

Misero 'l cor ch'amando morte agogna,

d'esser amato sempre fòr di spene:

quest'un si trova piú che morto ogni ora,

ché mille volte il forza è che mora.

38.

Rammenta che ben spesso udito hai dire

ch'un sdegno puote piú ch'Amor non vale.

E degli effetti in ciò vist'hai seguire,

quando lo sdegno spiega in alto l'ale.

Ché ben può nulla chi non può morire,

o d'Amor rompre il velenato strale:

e tu se' stato a questo punto quando

gelavi ardendo e indarno sospirando.

39.

Non ti sovien che sovvra il Mencio mille

e mille volte tu cantato l'hai?

D'Amor biasmavi allor le gran faville,

perché t'eran cagion di pene e guai.

Ché se talor la Mencia le pupille

di que' begli occhi ti celava e i rai,

tu fòr di te gridavi con martíre:

«Non morendo mi sento, ahimè, morire».

40

Non hai tu detto che senz'alma e vita

vivo eri, e morto, ancor la vita avendo?

Ove era l'alma allor da te fuggita,

il cor dove albergava sempre ardendo?

E quando l'alma teco stava unita,

come spirava, quella morta, essendo?

E come in tanti strazii stava gioia,

se la tua vita ogni or sentiva noia?

41.

So, dice un altro, come da sé il core

si sgiunge e come far sa pace e tregua.

So come in lui la gioia è col dolore,

e come il sangue resta e si dilegua.

So come il ghiaccio verna e insieme il fiore,

e come il riso, lungo pianto adegua.

So che si mor gioioso, ed in qual guisa

si vive ed è dal cor l'alma divisa.

42.

So mille volte il ingannar me stesso,

cercar madonna e temer di trovarla.

So voglia, so color cangiar ben spesso,

e fuggir ch'amo, e insieme seguitarla.

So da lunge brusciar, gelar d'appresso,

e l'alma abbandonar e ripigliarla.

So come nostra vita è dubbia e vaga,

ch'un poco dolce molt'amaro appaga.

43.

Se voi che ciò diceste assai sovente

pensato avessi a la bellezza interna,

e la vaghezza amata de la mente,

che ci rammenta la beltá superna,

non era uopo accorta far la gente

di ciò ch'un amoroso cor interna;

ma seguendo la dèa volgar, cotale

è de li suoi seguaci il fiero male.

44.

Guardi ciascun da questo stato fiero

il Re del ciel, ché troppo è strano e duro:

e ch'esser peggio puote, a dir il vero,

ch'amar né di compenso esser sicuro?

Questo terrestre Amor è liggiero,

che viene e vassi come un scaltro furo,

e fa ch'ami sovente chi ti sprezza,

e de l'onesto piú l'util apprezza.

45.

dove il Lambro il bel paese parte,

un giovane conobbi ricco e bello,

ch'a Febo sacro e sacro ancor a Marte,

a tutt'i vertüosi dava ostello.

Fallace e bella donna con grand'arte

d'Amor il trasse al regno e fier flagello,

e l'accese con un finto viso,

ch'egli si diede a lei da sé diviso.

46.

Del Lambro e del Tesino ardentemente

le vaghe e belle ninfe il ricercaro:

egli a la falsa avea le voglie intente

che quest'altre indarno il ripregaro;

onde sprezzate, con preghiera ardente,

a Giove la vendetta dimandaro:

ed ecco ciò ch'avenne, mentre ch'ei

tutt'era intento ad ubedir costei.

47.

Questa di lui cosí donna divenne,

che piú di lui poteva sopra lui:

quant'ella volle tutto 'l giorno ottenne,

e largamente fe' donar altrui.

Arso e legato lungo tempo il tenne,

fin che scoperti fur gl'inganni sui,

ché si trovò ch'un servo mezzo stolto

s'avea per donno del suo corpo tolto.

48.

E ciò che di profitto ella traeva

dal giovane gientil al pazzo dava,

di che l'amante tutto si struggeva,

per ciò che gielosia il consumava.

Il manifesto oltraggio egli vedeva,

e di sgridarla punto non osava:

or so ch'Amor l'aveva concio, ch'ei

quant'era piú sprezzato amava lei.

49.

Del Lambro e del Tesin, con gran pietate,

si mosser quelle ninfe saggie e belle,

e pentute d'aver con crudeltate

ad ira tratte contra quel le stelle,

Giove pregaron tutte che svelate

di quella trista fosser l'opre felle,

e che al giovane aprisse gli occhi al vero,

a ripigliar omai di sé l'impero.

50.

Onde egli che si vide tradito,

e senza pro servir un'aspra tigre,

tal ch'era per l'Insubria mostro a dito

qual che la fama a studio ogni or denigre:

«Sarò», dicea, «mai sempre, ahimè, schernito,

avrò le voglie a sciogliermi pigre

ch'ami chi mi disama e chi mi fugge,

e per un servo e pazzo si distrugge

51.

Da l'altra parte poi, come 'l pensiero

volgeva a la beltá del vago volto,

«Lassodiceva, «adunque adesso i' spero

abbandonar costei e viver sciolto

Ed ecco poi che si scopriva il vero,

che lo garriva e riprovava molto,

dicendo: «Mira, mira questo speglio,

se scerner brami di tua vita il meglio».

52.

Un terso specchio allor egli mirava,

ove vedeva il suo fervente amore,

e seco tanti torti contemplava,

che li facea colei da tutte l'ore.

Ivi vedeva il servo ch'ella amava,

indegno a par di lui di tal favore:

e l'ingordigia e la rapace mano

a mirar cominciò con occhio sano.

53.

Cominciò non andar ov'ella fusse,

chiuder le orecchie a messi ed ambasciate,

e se talor a quella si condusse,

di lei pensava sol la crudeltate.

che ragion lo tenne e lo ridusse

ne lo speglio mirar molte fïate,

tal che, di sdegno armato, la catena

ruppe, ed uscí di tant'amara pena.

54.

E questo è sol rimedio a questo male

aver innanzi a gli occhi nott'e giorno,

diss'ella, e andò, e rise con il tale,

ed a me fece cosí chiaro scorno.

«Se la mia servitú con lei non vale,

a che seguirla e seco far soggiorno?

Amerò chi non m'ama? ver non fia,

che 'n preda a donna crudel mi dia».

55.

Cosí deliberando a poco a poco

cominciò divenir di sé signore,

e quell'ardente e inestinguibil fuoco

di tempo in tempo si facea menore.

Egli magro ne venne, afflitto e fioco,

e si sentiva ogni or sterpar il core;

ma fermo di spezzar que' nodi gravi,

non cessò ch'ebbe del suo cor le chiavi.

56.

Come fu fòr del laccio e che si vide

libero e sciolto da gli stretti nodi;

piú che da prima chiar allor s'avide

di tant'inganni e manifesti frodi.

E l'alme ninfe cortesi e fide

pagaro a Giove i voti e dieder lodi,

un sdegno d'oro offrendo ricco e largo,

ch'avea piú occhi che non fur quei d'Argo.

57.

Tu ben me 'l credi che veduto l'hai,

perch'egli te ne fe' piú volte certo,

e so che veramente affermerai

che, non avendo al suo servir mai merto,

era in sé morto e sempre pien di guai,

l'aspro suo duol mostrando al mondo aperto,

bramando mille volte il morire,

che men pena credea che 'l duol soffrire.

58.

E se gran tempo stava in tanto scempio,

certo egli usciva de la vita fòra,

ch'era il martír crudo, fiero ed empio,

ch'ei ne moriva mille volte l'ora.

Ben puote il vóto affigurar nel tempio,

perché miracol fu camparne allora,

fòr che un sdegno mai rimedio valse,

tanto di lui a lui quell'ora calse.

59.

Quest'una spece ogni uom devria fuggire,

n'altro amar che di par anco ei non ami.

L'amante de' l'amata ogni or seguire,

pur ch'ella quello apprezzi e a sé lo chiami,

ed ella a lui voltar ogni disire,

quand'egli, altra che lei, non cerchi e brami.

Misero ch'ama e non si trova amato:

quant'era me' che mai non fosse nato!

60.

Ma se la donna amata onestamente,

di par amor al tuo disir risponde,

se mori, perché fugge la tua mente,

in quella vivi ove 'l tuo cor s'asconde.

O miracol d'Amor raro e eccellente,

quando tal grazia il Re del ciel infonde,

che morte vita e vita morte sia,

u' si more e si vive tutta via.

61.

Se reciproco amor duo cori incende,

in quello questo e quello in questo stassi.

L'un de l'altro a vicenda vita prende,

ed a donar se stesso a cambio fassi.

Ciascuno a la vertute intento attende,

e corre a migliorar con lunghi passi.

Amato ed amator è l'uno e l'altro,

Cosí si trova Amor avisto e scaltro. –

62.

– Come lor stessi oblian, come si dánno

l'un l'altro intendo, dotto mastro e pio;

ma come ad accettar l'un l'altro fanno,

questo no' scerne ancor l'ingegno mio.

Quel che lor stessi in lor poter non hanno,

come aver altri possan, non vegg'io. –

Cosí li dissi, ed egli, tutt'umano,

ch'allor tacessi m'accennò con mano.

63.

– Anzi se stesso, – il mastro mi rispose, –

ciascun di lor ed il compagno tiene.

L'amante se in l'amata giá si pose,

ivi ha se stesso ed ivi si mantiene.

In questi quella che giá l'alma ascose

sempre s'aviva, e gode ogni suo bene,

e fan duo vite d'una sola vita,

ch'a la sua n'ha ciascun un'altra unita.

64.

L'amante che l'amata onora ed ama,

ed egli è amato d'un medemo amore,

mentr'egli pensa a lei, mentre la brama,

che sempre fitto v'è con l'alma e il core,

perduto in sé trovarsi in lei si chiama,

e l'un l'altro s'acquista in tal ardore:

o d'Amor forza inusitata e nova,

che di natura fòr statuti innova!

65.

Mirabil cosa ancor quest'altra appare,

e pur s'usa d'Amor ne l'ampio regno:

col mezzo de l'amata ritrovare

si suol l'amante e 'l suo perduto pegno.

Quella via piú che sé si può chiamare

ch'egli posseda, e certo ben è degno

che 'n lei piú viva, a lei piú s'avicine,

tratto da quelle luci alme e divine.

66.

Con l'altrui mezzo l'amator se stesso

cigne ed abbraccia, e da sé s'allontana,

e come more in sé si vede espresso,

che 'n altrui trova vita piú soprana.

In questo una sol morte Amor ha messo,

che con due vite ricompensa e sana:

ei vive amando e poi s'aviva ancora,

s'amar si vede da colei ch'adora.

67.

Fortunata, felice e cara morte,

che due vite a chi si trova anciso.

Beata, aventurosa e dolce sorte,

altrui tener e star da sé diviso.

Indicibil guadagno e nodo forte,

che lega dui in un, né fia reciso,

per ch'un perdendo si guadagnan dui:

tai sono, Amor, i privilegi tui.

68.

In questo apertamente, Amor, si vede

che la vendetta è giusta che tu fai:

ch'ancide altrui o fa furtive prede,

merita morte con tormenti e guai.

Ladra e omicida esser colei si crede

che fere altrui con duo lucenti rai,

e 'l cor li ruba e lo tormenta in fuoco,

l'arde e l'agghiaccia ogni or a poco a poco.

69.

Ecco 'l micidïal dapoi che more,

quand'ama il suo ferito e caro amante,

che come l'ama li ritorna il core,

e quell'aviva con le luci sante.

Si trovan tutti dui di vita fòre,

e due vite acquistar in uno instante.

Cosí la vita l'uno a l'altro torna,

ed in due vite ogni un di lor soggiorna.

70.

Di ragion dunque, ch'ama, amar si deve,

ch'Amor a null'amato amar perdona,

altrimenti di ladro infamia greve

ha chi l'amante fugge ed abbandona:

ché s'ei li ruba il cor e quel riceve,

il suo perché dapoi a quel non dona?

sol l'amato deve amar l'amante,

anzi è sforzato da le leggi sante.

71.

Da simiglianza Amor crïar si suole,

ché cosí vuol il ciel e la natura:

s'ad un tu t'assimigli, ragion vuole

ch'egli simile a te posseda cura.

Come tu l'ami e del suo mal ti dole,

forza è ch'ei t'ami, e ch'ogni tua sciagura

reputi sua, e tal ch'egli ti trovi

qual vuol Amor che quel da te si provi.

72.

Si leva a sé l'amante e a quel si dona

ch'a sua natura simil vede, ed ama.

Questo l'amato induce, astrigne e sprona

amar colui ch'a sé l'invita e chiama.

Come sua cosa mai non l'abbandona,

ché ciò ch'è suo ciascun conserva e brama

averlo sempre appresso, né soffrire

può che si parta per altrove gire.

73.

E chi non sa che 'n cor ogni amatore

d'aver la cosa amata è sempre vago?

Tal che veder si può che 'n mezzo il core

ha sempre un specchio luminoso e vago,

ove l'amata rimirando fòre

resultar vede la sua propria imago,

cagion ch'ella ami da chi sente amarsi,

piú d'Amor rubella voglia farsi.

74.

E ciò che m'allegasti di Platone,

e del vate di Tracia, il sacro Orfeo,

ben che del tutto reso i' t'ho ragione,

e mostro il buon che v'è, e mostro il reo,

il piú di ciò che dicon si ripone

nel regno del terrestre e alato dèo,

ove son sdegni, pianti, rabbie ed ire,

non regolando il sensüal disire.

75.

Questo di rado va per buon sentiero,

per che 'l talento segue e non chi scerne.

E se talor trascorre presso al vero,

di quell'o nulla o poco unqua discerne.

Al tatto dona quanto v'ha d'impero,

e fugace piacer sotto vi sterne,

ed è breve quanto v'ha di gioia,

ch'a pena è nato che forza è che moia.

76.

E questo avien perciò che sol al tatto

egli l'impero dona d'ogni voglia,

il contemplar non cura, ma ne l'atto

ogni opra ed ogni gesto al tutto invoglia.

E spesso, quando il suo desir ha fatto,

si trova mal contento e pien di doglia,

e colei ch'egli tant'onora ed ama,

come goduta l'ha, sprezza e disama.

77.

Quanti ci son che mentre sono in via

per conseguir il fin che braman tanto,

seguon l'amata e onoran tutta via,

a quella essendo sempre a canto a canto:

ciò ch'ella può bramar è fatto pria

che di bramarlo quella mostri alquanto,

e notte e giorno dicon: «Commandate,

se nostra ferma provar cercate».

78.

Tu vedi in questo mezzo le parole

esser oneste e un viver singulare.

Fòr de la bocca motto uscir non suole

che di mal possa indicio alcun mostrare,

e s'esser disfrenato altrove vuole,

qui santa Cita o san Maccario appare:

vergognoso si scopre e timidetto,

fin che consegua il desïato effetto.

79.

Ché quando possessor egli si trova,

ed ha la preda qual astor ghermita,

bisogna ch'ella al suo voler si mova,

e timida si mostri ed or ardita.

Novi statuti ed altri patti innova,

e parlar cangia, e muta stile e vita,

e spesso altra ama, e ben sovente quella

donna sfacciata ed indiscreta appella.

80.

Figlie gientil che facile credenza

a le parole date che vi dice

questi e quell'altro a la vostra presenza,

o che per lor apporta la nutrice,

pensate che talor da la semenza

il desïato frutto non s'elice:

semino grano, e spesso poi raccoglio

sterili avene e l'infelice loglio.

81.

Non è tutt'oro ciò che luce o splende,

vaghe fanciulle, però piú che spesso

altro metal per oro quegli prende

che l'occhio a dritto segno non ha messo.

La mano a puro vetro un altro stende

in vece di rubin, par espresso,

e l'uom talor i piè move per l'erba,

cui sotto, ascoso il serpe s'inacerba.

82.

Però, figliuole, quando tocche sète

da messi ed ambasciate di costoro,

la pietra del paraggio in man prendete,

che scoprirá che fine sia la loro.

La ragion sempre innanzi a voi tenete,

facendo seco ogni ora concistoro:

in quella vi specchiate: ella vi sia

in le vostre opre guida tutta via.

83.

Cosí non cascarete in tanti errori,

come si vede tutto 'l avenire,

che gli uomini per altro non son fòri,

se non per gli appetiti lor finire.

Parrá che quei v'osservi e che v'adori,

e tutto 'l vostro ben si vuol rapire:

Amor, che l'util sol per fine osserva,

come l'util non ci è, piú non si serva.

84.

Ma quei che cercan che di mutuo amore

s'aman, come si de', d'una sol voglia?

Bellezza van cercando in tant'ardore,

come quella ch'Amor vuol che si voglia.

Ed è bellezza un vivo e chiar splendore,

che nostre menti a sé rapisse e invoglia.

Del corpo la beltá sta nel decoro

de l'uniforme linear lavoro.

85.

Poi de l'animo umano la bellezza,

è di molte vertuti essere un vaso:

quella luce del corpo e la vaghezza

comprende l'occhio e non l'odora il naso:

se l'occhio sol conosce la chiarezza

che fa fiorir i gioghi di Parnaso,

ei sol, (e giá l'ho detto), sará quello

che de' fruir cosí perfetto bello.

86.

Giá s'è dimostro com'è sol disire

Amor che la beltá fruir disia,

la qual a gli occhi sol si può scoprire,

onde del sol mirar convien che sia

contento l'amator, né voglia gire

piú oltre per gioir in altra via;

ché l'ingordigia di toccar con mano

è petulante affetto, sporco e insano.

87.

Ma quella leggiadra e chiara luce

d'un animo gientil, di bei costumi,

che 'n mezzo l'alma si diffonde e luce,

come del ciel i duo maggiori lumi,

la nostra mente a sé rapisse e duce,

e vuol ch'a quel splendor ogni or s'allumi;

ond'ella del gioir cosí s'appaga,

che d'altra gioia non si mostra vaga.

88.

E se la gioia del terrestre mondo

che sotto il globo de la luna stassi

è scala al ciel, a quel imperio mondo

ove mai sempre festa eterna fassi,

che del fruir su cosí giocondo

un'ombra è quel piacer che 'n terra dassi,

questo è il principio di quel ver gioire,

che né pensar si può, n'a pieno dire.

89.

Non si può dir il ver gioir che s'have

in contemplando la divina essenza,

che vuol che tre persone in un inchiave

una divina e eterna sussistenza.

O dolce vita, o godere soave,

ed uno e trino in una continenza,

ove quanto di bell'e buon si trova,

tutto in quel dolce contemplar si prova!

90.

S'una favilla sol di tanto bene,

cui senza, ben non è, non fu, né fia,

qui giú cadesse, e le menti terrene

tant'allumasse quanto in ciel s'indía,

dolce il martír e dolci ogni or le pene

a chi quel ben amasse ella faria,

e tal accenderebbe in terra amore,

che fôran l'opre nostre senz'errore.

91.

Chi mostro n'ha di quel divino stato

l'indicibil, beata e eterna vita,

di tutti i beni un bene ivi aggregato,

ch'Amor unisse, a noi mortali addita.

E questo bene eterno ed incrïato,

colmo tutto d'amor, su n'invita,

ove la vera e la perfetta gioia

l'eterno Amor ci dona senza noia.

92.

Quivi il veder, l'udir e l'intelletto

ogni beato adopra, n'altro vuole.

Con questi tre su l'uomo è perfetto,

con cui si gode ogni or chi fece il sole.

Però non t'ammirar se giá t'ho detto

ch'altri sensi adoprar Amor non suole,

Amor, che de l'Amor eterno e sacro

in terra si può dir un simulacro.

93.

Or se qui tanto contemplar il viso

di questa verginella, ch'è sua diva,

il cor t'aggioia, che da te diviso

senti ch'ogni or in lei lieto s'aviva,

tal che ti sembra star in paradiso,

ed è d'ogn'altro la tua mente schiva,

che fia sopra nel beato regno,

se di quel n'appaga un'ombra e un segno?

94.

Se non avesse in terra il Re del cielo

un raggio sparso del divino Amore,

chi fôra che soffrisse e caldo e gielo,

e di tanto martír l'aspro dolore?

Mentre sta l'alma in questo fragil velo,

com'esser può d'affanno e noia fòre?

Ma il tormento che soffre e quella noia,

di maggior bene Amor asperge e aggioia.

95.

Se non lucesse il raggio ch'io ti dico,

non fôra in terra alcun consorzio umano:

l'un uomo a l'altro non sarebbe amico,

differenza dal propinquo a un strano:

ogni paese diverria mendico,

e di cercar piacer sarebbe vano:

tal che, priva d'Amor, s'io ben discerno,

sarebbe nostra vita un duro inferno.

96.

Non fôra estinta omai l'umana spece,

s'Amor a repararla non studiasse?

Disposti a questo, Amor tutti ci fece,

acciò che nostra stirpe non mancasse.

Non sian d'altrui le voglie storte o biece,

che di questo la gloria ad Amor dasse:

ragion è ben ch'instaurator si dica

Amor de la natura nova e antica.

97.

E per restar un poco al basso ancora,

onde partito i' m'era e in ciel salito,

non sará forse del proposto fòra,

che qual giá fosse l'uom ti mostre ordito.

Ab antico non era qual è ora

semplice l'uom, vago e polito:

ci pigne Aristofane e ci dimostra

tre generi ne la natura nostra.

98.

Non era sol la donna e l'uomo, quali

vedemo adesso in simile figura,

ma v'era un'altra spece di mortali

da questi, unita in una sol natura.

Si vedeva dapoi tra questi tali

da lor diversa in tutto una fattura,

ch'avea duo capi, quattro mani e braccia,

con quattro gambe e piedi e doppia faccia.

99.

Vedevi in que' duo capi duo bei visi,

l'un contra l'altro, e quattro orecchie, e poi

duo vasi genitali dietro assisi,

con tutti gli altri membri a i luoghi suoi.

Rotonda era la forma, se l'avisi,

come se volto a volto fossem noi:

fe' l'uom il sol, la terra fe' la donna,

al promiscuo la luna la gonna.

100.

Eran soperbi e di gran spirto altiero,

e gagliardi, robusti e forti,

ch'egli affettaro a Giove tòr l'impero,

com'i giganti giá difformi e storti.

I dèi nel ciel il lor consiglio fêro,

acciò ch'audacia tal non si comporti,

ed eran varie le sentenzie loro,

non sapendo che farsi con costoro.

101.

Folgorarli col tuono e ardente lampo

che vivo nessun ce ne restasse,

come fu saettato a Flegra il campo,

u' fur le forze a li Titani casse,

non parve lor; ma darli qualche scampo,

acciò l'onor divin non si guastasse;

perché, morendo l'uom, il divin culto

per la piú parte rimanea sepulto.

102.

Ma dopo molte cose dette, Giove

rivolto al suo consiglio disse allora:

«Uopo non è che pena si ritrove,

acciò che questo mostro ingrato mora.

Il modo e via ho ritrovato, dove

gastigo grave li daremo or ora.

Uomini resteran, ma piú modesti,

ch'or feroci sono e a noi molesti.

103.

In la sua forza ogni un di lor si fida,

onde impotenti farli ci conviene.

Vuo' che 'l lor corpo in mezzo si divida,

da l'alto al basso, e che si seghi bene:

onde il vigor che 'n quel gran corpo annida,

a debolirsi e farsi poco viene».

Cosí partí per mezzo allora l'uomo,

che, diviso, divenne umile e domo.

104.

A Febo commandò che quella parte

ch'era recisa, ratto medicasse,

e che dinanzi usando ingegno ed arte,

e' vasi genitali gli appiccasse;

ma che facesse, ch'apparisse in parte

il segno perché a farlo tal lo trasse.

Ei la pelle tirò, e l'ombilico

vi fece con un groppo o nodo o plico.

105.

Volle che l'uomo innanzi gli occhi avesse

il segno, come fu per mezzo fesso,

acciò se contra Dio giá mai s'ergesse,

fosse di novo in duo cavezzi messo.

Diviso, l'uomo parve si mettesse

a star mai sempre a la sua parte appresso,

e con le braccia al collo l'annodava,

perciò ch'unirsi ancora ricercava.

106.

Cosí l'un l'altro tutto 'l abbracciando,

nulla prendevan di cibarsi cura,

tal che di fame e di torpor mancando

moriva la divisa crïatura.

Era per questo il generar in bando,

e giva quasi al fin nostra natura:

indi a pietá si mosse Giove, e 'n core

di generar a l'uom pose l'ardore.

107.

Nacque l'Amor allor ed il disire

di reparar de l'uom a l'uom la spece,

Amor è quel che cerca insieme unire

la natura che d'una in due si fece.

Ciò che ne cante Aristofane, dire

il tutto per adesso non mi lece,

ch'ei dice cose tanto fòr di modo,

che piú mostrosa cosa unqua non odo.

108.

Ma sotto questa scorza sta nascoso

in mille groppi avilluppato il vero,

ché tra gli antichi il vate non era oso

le cose sacre, in dir aperto e mero,

scoprir altrui, ma sotto qualch'ombroso

velo copriva quel divin mistero,

acciò gl'impuri ed i profani a dietro

fosser tenuti con fatto metro.

109.

E chi ricerca la midolla fòra

de la figura trar con senso puro,

non deve tutto quel che la colora

interpretar, e molle far il duro.

Dice Agostin che 'l buon Fittor talora

molte cose dirá con quell'oscuro

figmento che si fa, che non son tutte

con vero senso dal Fittor costrutte.

110.

Per ordine di quel che 'l vero cela,

per commodo e beltá vi son le cose,

che quando 'l vate il suco ne trapela,

a queste dar non suol commento o chiose:

basti di quelle il senso che rivela

ov'util o diletto si ripose:

il vomer sol la terra finde, e appresso

ordigni assai, che 'l faccia, l'uom v'ha messo.

111.

Però di quel figmento ch'or t'ho detto,

la somma è questa che si deve esporre:

tre sessi aveva l'uomo in sé ristretto,

onde poi volle il giogo a Giove porre,

tal che 'n due parti fu il soperbo setto,

e se con Dio per sorte piú concorre,

sará diviso ancor un'altra volta,

ed ogni forza a quell'in tutto tolta.

112.

Or da la sua la parte giá recisa,

quella ricerca, a quella si congiunge,

non può soffrir di remaner divisa,

e per unirsi a quella ogni or si giunge.

Perché bearsi in questo ella s'avisa,

se tutt'unita insieme si ragiunge:

ho detta la figura, e se m'ascolti,

saran li veli or or da quella tolti.

113.

È l'uomo l'alma quando Dio l'infonde,

che 'nfondendo la crea ben perfetta.

Due luci a questa il suo Fattor diffonde:

ingenita una, infusa l'altra è detta.

La non genita il lume al basso fonde,

ed a l'ugual la vista aguzza e getta:

l'infusa il suo splendor a le superne

cose levando, quell'ammira e scerne.

114.

La miserella, troppo insuperbita,

a l'alto suo Fattor volse aguagliarsi,

ed al non nato lume sol unita,

piú del dever cercò di sullimarsi.

Fu da ministri subito rapita,

e per mezzo si vide dismembrarsi;

perché turbato se le scopre Giove,

che la data eccellenza le rimove.

115.

Per tanto perde quella il chiar splendore

infuso, e sol a l'altro si reflette:

ché fa 'l peccato in l'alma quest'errore,

quand'ella sprezza il ciel e giú si mette.

Se piú superbirá e cerchi fòre

Giove dal ciel cacciar, egli promette

in due parti di novo risecarla,

e di men grado piú di prima farla.

116.

Questo vuol dir, s'al natural ingegno

in tutto si dará, che quel chiar lume

non nato oscurerassi e fia men degno,

perdendo il natural suo buono acume.

Cosí peccando in tutto perde il segno

che la reggeva com'un sacro nume,

e mancherá di giorno in giorno quella

vertú, ch'aveva luculenta e bella.

117.

Tenea tre sessi, tra' quali il maschile

nacque di Febo, il feminil di Terra;

il terzo da la Luna, tra 'l virile

e l'altro fatto, nova spece afferra.

Or vedi com'è fatto con sottile

arte il figmento e come si disserra,

acciò che sol i saggi con prudenza

ne traggan la perfetta sua sentenza.

118.

Di Dio l'inaccessibil chiara luce,

se l'alma con vigor e forza apprende,

a viril sesso questa si conduce,

e fortemente a quel splendor s'accende:

chi temperatamente a lei s'induce,

al grado feminil quella si rende:

chi con giusticia gli occhi al lume gira,

in sé 'l promiscuo sesso apprende e tira.

119.

Queste vertú, fortezza e temperanza

e la giusticia, trovansi figliuole

di quelle tre c'ha Dio in sua possanza,

che son la Terra, con la Luna e il Sole.

Han quelle in Dio questa nominanza

da chi Platone ammira, segue e cole.

In noi son dette poi maschil e donna,

col terzo che di tutti dui s'indonna.

120.

Secata l'alma e 'n parte due divisa,

in questa e 'n quella sente starsi Amore,

e l'una e l'altra pezza ogni or s'avisa,

come, qual pria, divenga d'un tenore.

Quest'è che l'alma, al corpo unita in guisa

che di' primi anni venga al vago fiore,

col natural non nato lume allora

l'infuso lume vuol unir ancora.

121.

Con l'ingenito lume e naturale,

ch'avea servato come di sé parte,

al chiar infuso e sovvra naturale

ch'avea perduto drizza l'ale sparte.

E portata d'Amor in alto sale,

il ver cercando in questa e 'n quella parte:

cosí s'unisse e integra cosí fassi,

e tutta a contemplar il vero dassi.

122.

Com'ella integra viene, e ch'Amore

dolce la leva a contemplar in alto,

ella s'appiglia al suo divin Fattore,

«E qui», dice, «mi godo, qui m'esalto.

Quest'util dammi il ver cieleste ardore,

che 'n cor mi rompe ogni terrestre smalto».

Cosí beata l'alma ne diviene,

e loda Amor, cagion di tanto bene.

123.

Questa è la somma che ti posso dire

sovvra il figmento a te prima narrato,

ov'hai potuto apertamente udire

ch'Amor è quel che l'uomo fa beato.

E chi tal grazia brama conseguire,

da bassi sensi il cor tenga purgato;

ma forse ben sará tacer un poco,

ch'i' son quasi dal dir venuto fioco. –





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