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Matteo Bandello
Canti XI... Le III parche

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  • CANTO XI
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CANTO XI

 

1.

Suol esser gran conforto in ogni impresa

che l'uomo faccia, se succede bene,

la fatica narrar, dir la contesa

che ne l'oprar sovente gl'interviene:

e ben che si riceva qualche offesa,

diverse ogni or soffrendo angoscie e pene,

dir a gli amici la passata noia,

a chi la dice e ascolta apporta gioia.

2.

Gioisce l'uom gli affanni suoi narrando

allor che salvo si ritrova in porto,

si rallegra l'amico ch'ascoltando

ode colui che reputava morto:

chi legge i gesti altrui è lieto, quando

vede a le pene sue qualche conforto,

e cerca d'aiutarsi come trova

ch'altri a se stesso in simil caso giova.

3.

E se fu travagliato alcuno mai,

fatto versaglio a colpi di fortuna,

i' son quell'uno, dove strazii e guai

accolse sorte avversa oscura e bruna:

o per dir meglio, ahimè, perché peccai

contra il Signor che fe' col sol la luna,

egli lasciommi andar errando molto

in gran travagli ed aspre pene involto.

4.

A pietá mosso poi, la sua mercé,

di me che pur comprò col sangue sacro,

al buon camino ritornar mi fe'

con un gastigo tormentoso ed acro,

e di quel lume al cor un raggio dè,

che l'uom trasforma in nuovo simulacro;

ond'io ringrazio ogni or la sua bontate,

che mai non cessa aver di noi pietate.

5.

E perché l'infinita sua prudenza

modi infiniti a redrizzarne adopra,

qual desse a me di me vera scïenza,

chiaro saprá chi leggerá quest'opra.

E ben ch'ella potesse farlo senza,

questo piú piacque a l'alto Re di sopra,

i cui consigli stabili ed immoti

sono a' mortali ascosi, sono ignoti.

6.

Meco s'allegri il caro e buono amico,

che del lungo stentar son giunto al fine,

e mal grado del fier, aspro nemico,

uscito son da tante sue roine.

E ciò ch'altrui mostrar qui m'affatico,

il faccio affin che meco ogni uom decline

de le mal opre la patente strada,

e su 'l piú stretto calle se ne vada.

7.

Dopo gravi fatiche e duri stenti,

ch'apporta ogni or la strada perigliosa

ov'io soffersi morsi di serpenti

e l'aria guasta e fatta venenosa,

eran tremanti i passi miei e lenti,

sendo vicino a l'alta selva e ombrosa

ove né strada né sentier scorgea,

e dentro pur intrar i' vi volea.

8.

Armato di speranza e ferma fede,

a sveller cominciai alcun virgulti,

e dentro il bosco posi il destro piede,

sterpando bronchi noderosi e inculti.

Quanto piú vado innanzi, piú mi cede

del bosco la spessura senza insulti,

e caminando in un pratello arrivo,

u' d'acqua chiara discorreva un rivo.

9.

Era il ruscello sí tranquillo e chiaro,

che d'or scernevi la minuta arena.

E d'intorno l'erbetta verde a paro,

di varii fior splendeva tutta piena.

Sí dolce mai le Muse non cantaro,

né qual piú vaga mai cantò sirena,

com'io senti' allor un dolce canto

che 'n riso avria cangiato ogn'aspro pianto.

10.

V'eran stormenti varii e sí sonori,

da mastre mani tocchi e sí soavi,

ch'i bei concenti con le voci fòri

suonavan dolci, acuti, bassi e gravi:

e l'armonia cosí rubava i cori

che per forza al concento drieto andavi.

Non si vedeva alcun, sol si sentiva

l'armonia singular, gioiosa e viva.

11.

Lasso! che sí quel suon passommi al core,

e sí mi parve il luoco ombroso e bello,

e tal sentiva d'ognintorno odore,

che quasi mi fermai su il chiar ruscello.

Iva sciegliendo or uno or altro fiore,

vermiglio, azurro, giallo e ancor morello,

sendomi in parte fòr di mente uscito

com'arrivato i' fossi in quello sito.

12.

L'acqua sí chiara m'invitava a bere,

sí caldo mi parea sentir il sole:

l'erbetta m'invitava ivi sedere,

ch'era sparsa di rose e di vïole.

Del vario suon l'insolito piacere,

che d'ogni dir avanza le parole,

m'avea sí concio che piú non sapea

ciò che 'n quel luoco far i' mi devea.

13.

Ma 'l santo genio allor in cor mi disse:

«Scuotiti, sciocco, e non fermar il piede.

Abbi le luci al sacro tempio fisse

lá su la cima al colle ov'egli sède.

Chiudi l'orecchie, come fece Ulisse:

se 'l suono ascolti, sei di morte erede:

chi qui si ferma par che viva e more,

come da vomer svelto un vago fiore».

14.

A questo i passi volgo verso il colle,

rompendo a gran fatica i folti rami;

ma s'un ne sbranco, un altro il capo estolle

ch'a gli arbor par s'avinchi e che s'irrami.

Per un che schiante tenerello e molle,

o ch'a tagliarlo poco il ferro aggrami,

mille ne trovo noderosi e duri

che poco v'entran le taglienti scuri.

15.

Ma l'animo fermato di passare,

e la fatica lieta ed indefessa,

mi facean cerri e quercie allor sbrancare,

la selva aprendo pria sí folta e spessa.

Giá si vede la strada dritta fare,

ch'era sí storta, dubbia e sí perplessa:

e sentiva la forza in me doppiarsi,

ben che sovente allor ed alsi ed arsi.

16.

I' me n'andava lieto e giubilando,

pur qualch'intoppo avendo per la via,

e, 'l tutto facilmente superando,

dicea fra me: «Omai chi mi disvia?

al sacro colle drittamente andando,

chi sará che disturbo piú mi dia?»

Cosí dicendo a un luoco ameno arrivo,

ch'ombravan mirti e circondava un rivo.

17.

Ivi l'autunno e men l'estate e 'l verno

parte non hanno, ma la primavera

l'aer temprato vi conserva eterno,

qual è s'al Toro il sol s'aggiunge in sfera.

E c'ha sí vago luoco in suo governo,

di fior il pigne, ch'ivi in bella schiera

si mostran penti di varii colori,

esalando soavi e cari odori.

18.

Vedesti mai di Maggio o sia d'Aprile,

quando il corno di copia versa Flora

una landa, un pratel verde e gientile,

come l'erbetta gaiamente infiora?

Tal ivi si vedeva il signorile

giardin d'ogni credenza umana fòra,

e 'l rossignuol sí dolce vi cantava,

che l'aria queta ad ascoltar sen stava.

19.

Mille altri penti augelli un rar concento

facean cantando con diversi tuoni,

e pascer quell'erbetta a passo lento

begli animai vedevi e gir carponi.

Poi, se spirava pur un poco il vento,

rendean tra lor le frondi dolci suoni:

ivi gli augelli, l'erbe, l'acqua e 'l luoco

m'invitavan seder posando un poco.

20.

Cosí sospeso veggio una matrona

ver me venir con bell'aspetto e grave,

e dirmi: – Amico, raro mai persona

passa che qui non si rifreschi e lave.

L'usanza ti parrá salubre e buona;

a ch'è stracco il posar sempr'è soave.

Però vien meco e alquanto poserai:

dopo, piú forte, al tuo camino andrai. –

21.

La veste ch'ella indosso allor avea,

era sí strana nel cangiar colori,

ch'ad ogni banda, dove si volgea,

nove ombre dispiegava dentro e fòri.

E sí soave odori diffondea,

che tai Sabei non han, Panchei e Mori,

ed era il suo parlar sí bleso e molle,

che spesso l'alme a' corpi a forza tolle.

22.

Spirava poi da gli occhi suoi lucenti

ne gli occhi di colui che la mirava,

raggi di fuoco sí sottili e ardenti

che 'n un momento il core gli abbrusciava:

e le gioiose luci alme e ridenti

tanto soavemente raggirava,

ch'era ogni guardo un intricato laccio,

da porr'i saggi in l'amoroso impaccio.

23.

Passo passo i' n'andava e gli occhi avea

fermati in lei ch'incontro mi veniva.

E dolce ragionando mi dicea:

– Questo giardin da te perché i schiva?

Che cosa vedi dispettosa o rea,

o che si possa dir trista o nociva?

S'una sol volta meco te ne vieni,

vedrai non piú veduti molti beni.

24.

E se pur brami, com'ha fatto alcuno,

salir su 'l colle sí selvaggio ed erto,

come passar potrai, sendo digiuno,

sí lunga strada in tanto gran deserto?

Che ti guide non veggio qui nessuno,

e 'l sentier periglioso è storto e incerto.

Vien dunque e prendi il cibo, e io dapoi

ti darò guida a gir dove tu vuoi.

25.

Ma se la stanza mia ti parrá tale

che dimorar un tempo qui tu voglia,

tutto 'l piacer che possa un uom mortale

goder gioioso senz'alcuna doglia,

meco averai, ché noia, angoscia o male

colui che meco alberga non addoglia:

ma qui si vive ogni or allegra vita,

ove ogni gioia ha questo luoco unita.

26.

Di ciò che piú ti piacerá potrai

trastullarti a bell'agio, notte e giorno.

D'ogni sesso ed etá tu vederai

uomini e donne meco far soggiorno.

Lo star ed il partir come vorrai,

in tuo piacer sará senz'alcun scorno;

ché qui nessun si sforza, e ciò che piace

può ciascun far, e star in gioia e 'n pace.

27.

Vi sará tempo assai di gir al monte,

e lá serrarti in quell'angusto luoco.

Cose ti parlo manifeste e conte,

ch'uscir non se ne può molto né poco.

E se brami d'uscir, allor in fronte

mostri il desir ardente com'un fuoco

e ratto se' cacciato com'indegno

di star lá dentro in quel pudico regno.

28.

È troppo dura e perigliosa cosa

lá su serrarsi senza compagnia.

Credilo a me che pochi vi fan posa

di que' che vi caminan tutta via;

non puon soffrir la grave e faticosa

vita che lá si fa: dopo la via

tien tanto l'uomo caminante a bada

ch'arrivan pochi al fine de la strada.

29.

S'acquista a star qui meco ancor il cielo,

ben che si viva in allegrezza e gioia:

qui 'l caldo non può molto e meno il gielo,

né v'ha luoco tristezza, affanno o noia.

Colui che sempr'è pallido ed anelo,

né prende mai piacer e ogni or s'annoia,

ch'averá piú di noi che, 'n festa e 'n riso,

mentre si vive avemo il paradiso?

30.

Godiamo adunque il mondo fin che vuole

Colui che qui ci ha posti e ci mantiene:

di Dio indarno si lamenta e duole

chi potendolo aver non piglia il bene:

ciascun che vuol piú far di quel che suole,

spesso trabocca in mezzo a gravi pene.

Fa come hai fatto per a dietro, e pensa

che questi beni a l'uomo Iddio dispensa.

31.

Una sol volta ciò ch'io dico prova,

e vederai che ti consiglio il dritto.

Varie cose provar diletta e giova,

e reca a chi le prova gran profitto.

I' non ti dico cosa strana o nova,

se leggi ciò che Paulo giá n'ha scritto:

«Ogni cosa provate, e poi tenete»,

scrisse egli, «ciò che buono esser vedete». –

32.

Mentr'ella i suoi parlari proseguiva,

i' me m'andava sonnacchioso e tardo,

e scura nebbia l'aria ricopriva,

che non lasciava al ciel passar il guardo.

Giá fòr di strada, quasi errando giva,

ché piú non era al caminar gagliardo,

onde fra me dubbioso disputava

se gir deveva o s'ivi mi fermava.

33.

Qual chi, su l'Alpe il ciel toccanti, il giorno

per ghiaccio e neve caminar si vede,

che 'n un momento poi con grave scorno

tutto s'annebbia, quando meno il crede,

ch'altro che l'aria bruna d'ognintorno

scerner non può, né sa se va, se riede,

e, dubbio di perir, un po' di luce

scorge da lunge ch'al camin lo duce;

34.

o qual è posto in mar, quando duo venti

combatteno la nave a poggia ed orza,

e de la notte tutti i lumi spenti,

gragniuola e pioggia versa il ciel a forza,

ch'egli tutti i rimedi trova lenti,

e men s'aíta quanto piú si sforza,

né sa dove addrizzar il suo timone,

ch'a pregar Dio, e voti far si pone:

35.

ed ecco fuoco vede o 'l suo splendore

per cui s'accorge dove è posto il porto,

onde ringrazia Iddio con tutto 'l core,

e vigor prende, ch'era quasi morto;

giá del periglio uscito si tien fòre,

tanto in quel punto prende di conforto,

e col favor di quel cieleste invito,

arriva salvo al desïato lito;

36.

tal mi trovava allor e peggio assai,

che perder l'alma e 'l corpo era dubbioso.

Mi diceva un pensier: «Or su, che fai?

Per che non prendi un poco di riposo?

Vi sará tempo a gir se tu vorrai,

quando sarai piú forte e piú gioioso:

prova ciò che la donna qui ti dice,

che ti promette far lieto e felice».

37.

Un altro poi pensiero mi diceva:

«Chiudi l'orecchie a questi lusinghieri:

il dimorarti qui nulla rileva;

anzi, se resti, senza dubbio pèri.

Non senti ch'un tal peso giá t'aggreva,

che pervenir al colle omai desperi?

Etti sí tosto uscito fòr del petto

ciò che tante fïate ti fu detto?

38.

Alza al ciel gli occhi, e mira con la mente

il sacro tempio dove andar bisogna:

s'a le false lusinghe si consente,

tu l'ombre abbraccierai, com'uom che sogna,

e resterai tra la perduta gente,

che del carcere uscir indarno agogna.

Destati omai e l'alta strada prendi,

ove tanto di bene aver attendi».

39.

Cosí tra' due combattuto e scosso,

dubbio restava, né sapea che farmi,

ed era in viso colorito e rosso,

sentendo il male e 'l bene rinfacciarmi.

Era il torpor passato fin su l'osso,

che gir non mi lasciava, né voltarmi,

quando su 'l colle i' scorsi un scintillare,

qual una stella tra le nubi appare.

40.

Al folgorar di quel divin splendore,

che fin nel cor mandommi i santi raggi,

parve un tuono tonar con tal fragore,

che sbrancò querce, pini, cerri e faggi.

Fuggí la donna a quel sí gran romore,

e i luoghi ameni diventâr selvaggi,

che piú giardin né prato alcun non v'era,

ma selva tutta spaventosa e fera.

41.

In luogo del ruscel ch'era sí chiaro,

stagnava un'acqua negra come pece,

d'odor fetente e di sapor amaro,

che tanto amaro il fel chiamar non lece.

E come pria gli augelli vi cantaro

su per le frondi, a quattro, a sette e diece,

con biforcate lingue li serpenti

sibilando facean strani concenti.

42.

L'arida Libia quando 'l sol piú scalda

quelle deserte e inabitate arene,

tanti non ha serpenti, né riscalda

di sí varie figure e tante mene,

quanti ne vidi allor su quella falda,

con faree, draghi, serpi e anfesibene,

con giacoli, chelidri e aspidi sordi,

che l'uomo a velenar son sempre ingordi.

43.

Veggiendo tanta copia e sí diversa

d'i crudi mostri velenosi ed empi,

ratto mi posi fra la selva persa,

nulla curando tanti strazii e scempi.

Cosí il ferito cervo s'attraversa,

fuggendo il cacciator che non lo scempi,

e mille intoppi andando trapassai,

tanto che sotto il colle mi trovai;

44.

ma sí traffitto da pungenti morsi,

che nulla o poca d'uom sembianza avea,

che per le vene i fier veleni corsi

sentiva sfarmi e torpido parea.

I' che cangiar figura allor m'accorsi,

tra me di dentro tacito dicea:

«Quando sará che sovvra il monte ascenda,

prima che 'n tutto nova forma i' prenda?»

45.

Non credo che si trovi al mondo monte

tant'alto cd erto a chi vi vuol salire:

il grand'Olimpo, posto quivi a fronte,

sopra di sé lo vederia scoprire.

Era ivi un fresco, chiaro e vago fonte,

che tra l'erbette si scorgea fuggire:

i' che stracco era e rotto dal camino,

a le bell'acque, lasso, m'avicino.

46.

E poi ch'ebbi ripreso un po' di lena

e riposato su la verde erbetta,

di polve e di sudor la faccia piena,

tre volte immersi sotto l'acqua netta.

Calcai co i piedi la minuta arena

che sotto l'acqua si vedeva schietta,

e diguazzando i piedi, mani e volto,

mi senti' snello, libero e disciolto.

47.

Penso che 'l ghiaccio freddo sí non sia,

come l'acqua era di quella fontana,

e sendomi lavato a voglia mia,

gli occhi rivolsi a l'alta selva insana.

E tra me dissi: «Ahimè, perché da pria

non corsi questa strada tanto strana,

quando su 'l fior de gli anni miei potea

soffrir ogni fatica ben che rea?

48.

Or tempo è di salir sovvra la cima,

ove il Tempio divino in alto sorge.

Lasciar convien la parte bassa ed ima,

che poca aíta a chi vi posa porge;

ma dove prenderò la strada prima,

se strada né sentier non vi si scorge?

Ove porrò per su salir il piede,

s'orma di pianta umana non si vede?»

49.

Gran pezzo andai cercando, e mai non vidi

nel duro sasso modo di salire,

ond'a me dissi allor: «In cui ti fidi,

che ti faccia su il colle pervenire?

Convien che 'n quella cerchi i tuoi sussidi,

che mai non lascia chi la vuol seguire:

a lei ricorri che t'impetri l'ale,

cui senza, alcun mortal lá su non sale».

50.

Col cor contrito, affettüoso e umile

a la Madre di grazia mi rivolsi,

ed in terra prostrato, abietto e vile,

senza parlar i prieghi miei disciolsi.

Un certo non so che, come un focile,

vigor spirommi per le vene e i polsi,

sí che levai di speme e forza armato,

e m'aggrappai del monte al destro lato.

51.

Del destro lato ai duri e rosi sassi

m'appiglio, e suso vo di balzo in balzo,

e secondo che movo i lenti passi,

a scheggioni m'attacco e su m'inalzo.

Con rubi e vepri aíto i contrapassi,

e quanto posso in alto mi rincalzo.

Cosí montando con fatica assai,

la costa piú di mezza trapassai.

52.

I' mi sentiva quasi venir meno

da la fatica e dal periglio vitto:

le man graffiate e il lacerato seno

davano indicio quant'i' fossi afflitto:

era di spini e roghi cosí pieno,

ch'un istrice parea tutto traffitto;

onde mi posi per posar alquanto

de l'interrotto sasso in uno canto.

53.

Al basso non ardiva rivoltarmi,

ché tant'altezza m'abbagliava il viso,

e facilmente avria potuto farmi

restar, cadendo, subito conquiso.

Sentiva poi da i serpi seguitarmi,

che s'appressavan dov'i' m'era assiso.

Per questo mi riscossi, e ancor di novo

a la cima salir mi sforzo e provo.

54.

Men erta ritrovai la via allora,

che per diversi giri andava in suso:

e pur intoppi assai v'eran talora,

col sentier da caduti sassi chiuso.

Tornar indietro, n'ivi far dimora,

non era buono, e men restar confuso;

per ciò col petto innanzi e con le mani

rompeva urtando sassi e bronchi strani.

55.

Secondo ch'io per que' diruppi andava,

sempre avanzando verso l'alta cima,

a dietro qualche serpe riversava

glomerando con gli altri a la parte ima;

ché quanto di salir piú m'affrettava,

liggiero mi sentiva piú che prima,

e sentiva cader i serpi al basso,

facendo nel cader un gran fracasso.

56.

I' non potrei di mille narrar l'una

parte de le fatiche ch'io soffersi.

Gir mi pareva al cielo de la luna,

con gravi affanni duri e sí diversi,

che quei perigli che 'l camino aduna,

e senza guida in luoco tal vedersi,

farebbero smarrire il piú sicuro

tra quanti mai piú forti al mondo furo.

57.

Al fin su il monte giunsi forte ansando,

ov'era una campagna spazïosa,

e per lo lungo gli occhi miei drizzando,

scorsi del mondo la piú bella cosa.

Ché un Tempio vidi altiero e venerando

di struttura soperba e sí pomposa,

di piramidi, collossi, archi e mura,

che simil mai non vide crïatura.

58.

Tanta la gioia fu d'esser lá giunto,

ch'ogni passata doglia smenticai:

di balsamo mi parve d'esser unto,

perché di piaga segno non mirai:

e se prima era lacero e trapunto,

sano del tutto allora mi trovai.

Il vestimento vidi saldo e intiero,

anzi piú bell'assai e piú sincero.

59.

E quivi sendo riposato alquanto,

una capanna scorgo a destra umíle,

e rivoltato verso il luoco santo,

una chiesetta veggio e un campanile.

Di pietra una colonna lor a canto

stava intagliata d'ogni lingua e stile;

perch'ivi ogni uomo in qual si voglia lingua,

par che 'l parlar nativo ogni or distingua.

60.

L'Arabico ivi, il Siro ed il Caldeo,

l'Armeno, il Parto e l'Indo al sol traffitto,

quel di Scizia co l'Afro e co l'Ebreo,

leggeva l'idïoma suo lá scritto:

il Latin, Greco, Tosco e l'Arameo,

e s'altro v'è parlar con quel d'Egitto,

era ivi sculto: e, fatto piú vicino,

lessi distintamente in dir latino:

61.

«Tu che fin qui se' giunto, se tu vuoi

intrar nel sacro e reverendo Tempio,

pensa gli enormi tuoi peccati, e poi,

dolente d'ogn'error fallace ed empie,

al sacerdote tutti i falli tuoi

umil confessa, e soffri il santo scempio

ch'ei ti dará: cosí con cor sincero

di Cristo prendi il corpo sacro e vero».

62.

In questo veggio uscir del basso ostello,

vestito a bianco, il casto sacerdote,

che 'a man tenea di funi un gran flagello,

con cui i peccator solve e percuote.

Ratto m'ingienocchiai dinanzi a quello,

e con parole vere, umili e note,

tutte le colpe mie piagnendo dissi,

gli occhi chinati a terra avendo e fissi.

63.

Ciò che mi disse il sacerdote allora,

l'oglio col vino e 'l sal mischiando insieme,

a raccontarlo troppo lungo fôra,

né mai 'l penso ch'i' non sudi e treme.

Egli mi trasse d'i' miei lacci fòra,

e di certa salute mi dè speme,

mentre però ch'i non lasciass'il destro

sentier del ben oprar duro ed alpestro.

64.

– Non t'ingannin costor, figliuol, – dicea, –

che stanno ad aspettar dal ciel la manna.

Stanno ozïosi in vita lorda e rea,

e pensan di salvarsi a dir Osanna.

Questo ti mostra il buon fratel d'Andrea,

che grida, e nel gridar s'ange ed affanna:

«Sforzatevi, fideli, ogn'or con l'opra

certa la voglia far del Re di sopra».

65.

Dice poi Paulo, quella chiara tromba,

che tutti andremo innanzi al tribunale

di Cristo, u' si vedrá chi fia colomba

o corvo, perché l'opra il fará tale.

Usciti che saremo de la tomba.

vedrassi il bene oprar, vedrassi il male:

e secondo che l'uomo avrá oprato,

assolto si vedrá o condannato.

66.

Or mentre avemo il tempo, non cessiamo

lasciar il mal e far mai sempre il bene,

ché se la notte oscura aspettïamo,

nulla potremo oprar che non conviene.

Adunque avendo il tempo operïamo,

con l'opre colligando ogni or la spene. –

Ed altre cose assai mi disse il padre,

de l'opre di vertú, sante e leggiadre.

67.

Egli dopo mi diede quel verace

corpo di Cristo in pane consacrato,

e disse: – Or va, figliuolo, in santa pace,

che sempre il Re del ciel ti venga a lato!

Questa campagna che sí larga giace,

che par un spazïoso e novo prato

d'erba sí strana, passa, fin ch'arrivi

al Tempio de gli spirti casti e divi.

68.

Indrizza gli occhi e ben intento mira

lá dove vedi che la chiesa sède.

Quella 'l segno ti sia, ti sia la mira

ove tutt'ora indrizzi e movi il piede.

Brama l'ospizio casto, e quel sospira,

se d'ogni pace vuoi restar erede.

Or se' pur giunto sovvra il santo colle,

e la vista del Tempio nulla tolle. –

69.

Qui de le nove Muse non invoco

né di Febo l'aíta o di Parnaso:

qui d'Ippocrene non mi giova il luoco

ne 'l fonte che co i piè cavò Pegaso;

ma prego il santo Amor che un po' di fuoco

in cor mi spire, e tal mi faccia vaso

ch'io sia capace del suo santo ardore,

e quant'i vidi allor dimostri fòre.

70.

O sacro Amor, a l'ultimo lavoro

non mi negar il tuo soccorso fido:

d'edra ghirlanda né di verde alloro,

né tra poeti cerco porr'il nido:

il tuo soccorso a questo fine imploro,

ch'altrui discopra quant'in cor annido,

e giovi a chi l'udrá com'ha giovato

a me l'esser colá un tempo stato.

71.

I' dico che dapoi che 'l sacerdote

cibato m'ebbe del cieleste pane,

e dette le parole sí divote,

che le menti disprezzan sciocche e vane,

fur le mie piante verso il Tempio mote,

per quelle erbette di sembianze strane,

ov'orma n'appareva, né pedata,

che fosse da vestigio uman segnata.

72.

Mi metto a caminar su quella erbetta

carca di fiori al nostro clima ignoti:

candida l'erba si vedeva e schietta,

e parea latte a gli occhi piú remoti:

oliva piú soave l'erba eletta,

che s'ambra o muschio maneggiando scuoti:

quai stelle scintillavan tutti i fiori,

odorati e distinti in bei colori.

73.

Col piè premeva l'erba, e via passava

affrettandomi gir a l'alta mole:

levando il piede l'erba ancor s'alzava,

com'un salce piegato alzar si suole,

di modo che vestigio non restava

come su il mar s'avien che nave vole:

era sí molle, e nata a tal costume,

che mi parea calcar bombace o piume.

74.

Poco era andato e quasi al Tempio appresso,

quando dinanzi a la facciata i' veggio

di chiar cristallo un bel collosso messo,

ch'al Rodïan con veritá pareggio:

d'una matrona v'era il corpo espresso

di topazii e zaffiri sovra un seggio,

sí bella, cosí grave e tanto vaga,

che di mirarla ogni or l'occhio s'appaga.

75.

Ne la sinestra mano un armellino

candido aveva come pura neve,

e con la destra il Tempio a lei vicino

mostrava, dispiegando a l'aria un breve.

Era d'argento ben purgato e fino,

ch'altro metallo in sé mai non riceve,

ove leggevi: «Pudicizia i' sono,

raro al mondo da Dio donato dono».

76.

Qual latte il vestimento biancheggiava,

ma lucido, sottile e trasparente,

che le belle fattezze sí celava

com'il bel vetro in sé un lume ardente:

e chi nel viso suo gli occhi affissava,

nova gioia sentiva nella mente,

con un desir onesto che l'ardeva

di star soggietto a quella che vedeva.

77.

Dal collosso men vado al Tempio santo

che le porte ha di perla orïentale:

elle eran chiuse e 'l Tempio tutto quanto

era di bianco marmo naturale.

Mi volgo al destro a me piú vicin canto,

ov'era un arco ricco e trïonfale,

tutto di puro e lucido alabastro,

fatto per man d'un eccellente mastro.

78.

Vedevi sculta quella casta ebrea

che 'l capo ad Oloferne avea reciso:

viva mostrava, e quasi si movea,

lieta d'aver il gran nemico anciso:

tutta Betulia incontro le correa

con festa, con trionfo, gioia e riso.

La bella istoria in quell'era intagliata

che piú par bella quanto piú si guata.

79.

Si levava dapoi al manco lato

un arco a l'altro simigliante e bello.

Ivi era il giovanetto figurato

che de la donna in man lasciò 'l mantello

e soffrí di restar imprigionato

prima che farsi a castitá rubello,

ed era d'alabastro anco egli schietto,

terso, polito, trasparente e netto.

80.

Scorgevi al Tempio sacro poi d'intorno,

distante con perfetta simmetria,

di puro avorio fabricato al torno,

or una istoria antica, or nova e pia:

di ciò restava il luogo tant'adorno,

ch'esser piú bello e vago non potria,

con le basi d'argento, e i capitelli

fòr di natura rilucenti e belli.

81.

Quivi vedevi sovvra un alto sasso

ingienocchiata orar la Maddalena:

lá poi moveva il lento e afflitto passo

coperta da' suoi crin, di pianto piena:

vedevi poi levarla da quel basso

da gli alati corrier con dolce lena,

sette fïate il dí, sovra quel monte

che quasi tocca il ciel con l'alta fronte.

82.

Né troppo lunge contemplavi quella

Maria d'Egitto sí devota e umíle:

antri e spilonche le facevan cella.

Pallida, macra, spaventosa e vile

ivi òra, e lá le carni sue flagella,

diece e piú lustri tal serbando stile:

e certo fu di penitenzia specchio

in molte etati, senz'alcun parecchio.

83.

Aveva il mastro poi da l'altra parte

l'orrende rote e naturali fatte

ch'orando Caterina furon sparte,

anzi pur rotte, dispezzate e sfatte.

Dal busto il capo il fier littor le parte,

onde in vece di sangue n'esce latte:

le verginali membra indi levaro

gli angeli, e sovvra Sina la posaro.

84.

Ivi appresso intagliata Dorotea,

vergine bella, giovanetta e pura:

gli strazii e li tormenti derridea

del corpo, e l'alma sol prendeva a cura.

Dopo su 'l ghiaccio e neve si vedea

e rose e pomi con fresca verdura

altrui donar, e lieta dar la vita

piú tosto assai che mai restar schernita.

85.

V'eran poi dentro al marmo luoghi fatti

con figure d'eroi e d'eroine,

dal natural sí mastramente tratti

che parean respirar se t'avicine.

Tutti mostravan con lor opre ed atti

che casti e mondi furo sin al fine,

e li tiranni sempre disprezzaro,

ché piú la castitá che vita amâro.

86.

S'ad una ad una i' voglio raccontare

de l'intagliate statue la cagione,

ben potrò questa e quella cominciare;

ma il fine a tante istorie chi poi pone?

Era di lor ciascuna singulare,

e meritar di gigli le corone,

o di provinca aver ghirlanda, quale

dar il costume de la patria vale.

87.

Poi ch'ebbi visto attorno attorno il luoco,

gli occhi pascendo tra le statue e forme,

torno a mirarle ancor, e parmi poco

tempo aver speso, n'indi so distorme.

Ed era sí gioioso questo gioco

ed al disir di rimirar conforme,

sentendo gran piacer nel cor destarmi,

ch'i' non sapea da tal vista levarmi.

88.

Ritorno innanzi al ricco limitare,

l'opra mirando rara e sontüosa:

sopra la porta veggio sculta stare

del Re del ciel la Madre glorïosa.

Iscontro a quella, mostra che parlare

le voglia Gabrïel, e dirle cosa

fòr di credenza, e ch'ella intenta ascolte

la divina ambasciata e grazie molte.

89.

D'un perfetto cameo le due figure

eran sí variamente e ben formate,

che le piú rar'e eccellenti sculture

non sono a queste d'essere uguagliate.

Aveva il mastro espresso le nature

sí de le vesti, come figurate

quelle del volto, di' capei, del fiore,

dando a ciascuna il debito colore.

90.

Eran sorposte in cima a l'architrave

che sopra due colonne fa la porta;

e com'avien che 'l fabro in bronzo inchiave

col ferro altro metal quando il raporta,

cosí su l'una e l'altra colonna have,

con opra or alta or bassa or lunga or corta,

intagliata e commessa il mastro saggio

la vita di Maria senza paraggio.

91.

Ciò che mai fece l'alma Verginella

madre e figliuola del Figliuol di Dio,

l'artefice ivi cosí ben sugella

ch'opra sí vaga mai piú non vid'io:

allor con le gienocchia in terra: – O stella, –

diss'io, – di questo mar ondoso e rio,

come qui veggio la sembianza tua,

prega ch'a terra l'alma mia non rua.

92.

Impetrami dal caro tuo Figliuolo

(che negherá il Figliuol a tanta Madre?)

che mi degni levar dal basso stuolo

de le lascive e appetitose squadre,

e come te di cor onoro e colo,

lavi le colpe mie oscure ed adre,

e mi conceda in ogni luoco e passo

de la ragion usare il contrapasso. –

93.

In questo le gemmate porte aperse

un venerando e casto sacerdote,

ch'a me dinnanzi subito s'offerse,

e d'acqua sacra mi bagnò le gote:

dapoi con bel sembiante mi proferse

l'intrata dov'ogni uom intrar non puote.

I', ch'era a questo fin lá su salito,

con riverenza tenni il santo invito.

94.

Ma come il piede dentro il Tempio metto,

scorgo nel pavimento una figura

non so se sculta, o fatta pur di getto,

o che fosse formata da natura.

Pareva viva, e di color sí schietto,

com'ha chi è pien d'affanno e di paura,

ch'aveva spennacchiate ambe due l'ali,

la face senz'ardor, rotti gli strali.

95.

Tenea le mani avinte dietro al dorso,

e, di legami adamantin legata,

senza speme d'aver mai piú soccorso,

era da ch'intra a forza calpestata.

I' che mi vidi sovvra quella scorso,

quasi rittrassi indietro la pedata:

ella era ignuda, ma di tal aspetto

ch'arebbe a i tigri radolcito il petto.

96.

Chi a Roma mira in marmo Lacoonte

con suoi figliuoi da serpi attornïato,

li par che veda lor crispar la fronte,

e 'l padre mesto dir: «Ahi sfortunato!»:

e ch'a' suoi passi fa di questa ponte,

par ch'ella tremi e spiri fòr il fiato:

cosí la mastra man l'ha fatta tale,

che la vista ingannar sovente vale.

97.

Però calcando quella bella effige

ebbi di lei pietate, a dir il vero,

ché mi parve, com'un si torce e afflige,

ch'ella piegasse alquanto sul sentiero;

ma seguendo del prete le vestige

intrai nel tempio, riverendo e altiero,

e ne l'intrar da me fui sí diviso,

ch'esser mi parve giunto in paradiso.

98.

Guardo quell'alta e glorïosa mole

tutta di pietra come neve bianca,

e piú lucente assai che 'l chiaro sole

allor che senza nubi il messor stanca;

ma di color distinta, come suole

l'Indo che 'l volto ingemma, mostra e imbianca,

che quante ricche gemme sono in terra

il ciel aurato riccamente serra.

99.

Quando la notte il ciel è piú stellato,

che non v'è segno alcun di nebbia o nube,

qual lo discerni vago in ogni lato

che d'oro par, d'azurro, e spesso rube,

tal vedevi del Tempio il ciel gemmato

in quelle sue declivi volte e cube,

sí variamente fregiate e sí belle

come s'adorna il ciel da tante stelle.

100.

Il pavimento marmi peregrini

facean splendente con diversi segni,

porfidi con dïaspri e serpentini,

e quanti ce ne son di fama degni.

Tersi coralli prezïosi e fini

v'eran di piú colori in piú dissegni,

disposti come l'ingegnosa mano

avea distinto tutto 'l vago piano.

101.

Diece colonne di saldo diamante

reggevan de le volte tutto 'l peso:

del Tempio al capo poi verso levante

stava innanzi l'altar un torchio acceso,

e fummi detto ch'ivi sempr'avante

ardeva eterno in l'aria ogni or sospeso,

diverso al fuoco che giá Roma a Vesta

sacrò con legge a le Vestai funesta.

102.

V'eran diversi altari e simulacri

del Tempio eretti in l'una e l'altra banda,

a quelli e quelle dedicati e sacri,

che visser casti com'Iddio commanda.

Vedevi ne l'intrar duo bei lavacri,

onde su ch'intra l'acqua il prete spanda,

con ramuscelli de l'umile isopo,

che può far bianco l'adusto Etïopo.

103.

E chi salir voleva al grand'altare,

sette gradi di pietra alto montava.

Era la pietra rara e singulare,

ove certo color nessun mirava,

ch'or scura, or rossa, or gialla, or persa pare

a chi su vi saliva o giú callava.

Ha poi l'altar la mensa di smeraldo

perfetto orïental, ma fermo e saldo.

104.

Ivi in gienocchi feci orazïone

e, quella fatta, ritto mi levai.

In questo veggio intrar cinque persone:

quattro conobbi, la quinta non mai.

Cantavan dolcemente una canzone,

de gli occhi al ciel tenendo fissi i rai:

«Beati mundo corde», dicean sempre,

replicando il parlar con dolci tempre.

105.

Mi volsi al sacerdote che meco era,

ch'avea del Tempio l'argentate chiavi.

E dissi: – Padre, se la mia preghiera

può nulla, i' prego un dubbio che mi schiavi.

Veggio un prelato in mezzo a quella schiera

di quelle quattro donne sante e gravi,

che mai non vidi, ma le quattro belle

conobbi sempre chiare come stelle. –

106.

A questo il sacerdote mi rispose

dicendo: – Figlio, il vero so che dici.

Di porpora il capèllo in capo pose

il prelato che vedi in questi uffici,

quando lasciata Roma e le famose

del trïonfante Tebro alme pendici,

il papa in Avignon la stanza prese,

ond'in Italia fur lunghe contese.

107.

Di Luzemborgo, terra imperïale,

che giá produsse reggi e imperatori,

detto è il famoso e vero cardinale,

degno d'eterni fregi e sacri onori.

Giaceva in letto oppresso da gran male,

che li facea sentir mortai dolori,

né si trovando al suo martír riparo,

i fisici concordi il consigliaro

108.

ch'egli di donna quel piacer prendesse

che piglia de la moglie il buon marito,

altrimenti per fermo ch'ei tenesse

impossibil che mai fosse guarito.

Ma 'l buon pastor morir di voglia elesse,

che l'alma sua macchiar a tal partito.

Di Luzemborgo Pietro allor morio,

la vita disprezzando, amando Iddio.

109.

Non ti par egli meritar gran lode,

che peccar puote e trasgredir non volle?

Per questo eterna gioia e vita gode,

e chiara fama il suo valor estolle.

Poi, tanta continenza dir, chi ode,

s'è san di mente, buon esempio tolle;

perché sparger il seme a l'uom non lece,

salvo nel matrimonio che Dio fece.

110.

E per che rari son ch'osservin questo,

ché sempre la vertute è stata rara,

il Tempio dove sei, pudico e onesto,

a' casti ed a' pudici ogni or s'appara.

Chi perde il verginal nativo cesto,

se poi pudico vive, ha l'alma chiara:

chi sol la moglie gode, al resto casto,

avrá la veste nuzzïal al pasto.

111.

Di pudicizia e castitate il Tempio

è questo, al mondo raro e sí famoso.

Qui si pervien con gran fatica e scempio,

strazio soffrendo ogni or fiero e doglioso.

Ma chi vince il camin sí storto ed empio,

difficile, intricato e periglioso,

passa in brevi ora tutta l'aspra noia,

e resta eterna l'acquistata gioia.

112.

Eterna dico gioia, persevvrando

nel buon proposto candido e sincero,

non sol il corpo netto conservando,

ma netto ancor tenendo il suo pensiero.

A mirar non si pecca, ma bramando

si lascia il bianco vel, si piglia il nero;

ché chi la donna brama fòr di modo,

adultero è costui di cor con frodo.

113.

Si casca e si risorge ne la vita

mortal, fin che tien l'uomo in mano 'l freno:

ma com'è l'alma dal corpo partita,

ogni poter oprar allor vien meno;

però chi vive e levar non s'aíta,

riman costui riverso su 'l terreno;

ma quante volte ei casca se risorge,

quest'a se stesso buon aiuto porge.

l14.

Chi subito si leva, tal fortezza

ogni or acquista che di raro cade,

e se pur toma, con maggior prestezza

rileva la caduta libertade,

e fa nel ben oprar sí gran fermezza,

che piú non piega al mal la volontade,

ma segue oprando ogni or di bene in meglio,

a sé facendo di sua vita speglio.

115.

E chi 'l candido giglio ed odorato

del verginal pudor un tratto perde,

questi vergine piú non fia chiamato,

ché tal seccato fior mai non riverde,

né per star casto il fior è ritornato,

ch'era sí bello e sí fiorito e verde:

ben casto si dirá, mondo e pudico,

vivendo a pudicizia sempr'amico.

116.

E dopo morte con trïonfo e festa

il seggio avrá tra l'anime beate,

com'al presente qui possede questa

schiera gientil de l'anime sacrate,

che sempre ad onorar ch'arriva è presta,

e farli l'accoglienze oneste e grate;

dico, a ch'arriva qui dopo la morte,

e d'esser casto seco 'l titol porte.

117.

A te che veggion qui nulla diranno,

perché sei vivo e puoi far bene e male:

a gli altri vivi il simile faranno,

s'un altro, come tu, qui sopra sale;

ch'ad esser mondi tutti inviteranno,

fin ch'oprar l'uomo di sua voglia vale:

a chi poi morte vien casto e beato:

«Venite benedicti», gli è cantato.

118.

E chi può dir la festa e l'accoglienza,

ch'a questi tai si fa e 'l grande onore,

l'abbracciar casto e onesta riverenza

che fa l'un l'altro con acceso core?

Sforzati dunque con gran diligenza

farti capace del divin favore,

ammendando la vita in meglio ogn'ora,

ché cosí Dio si riverisce e onora.

119.

La millesima parte ch'ora vedi,

di mille crescerá a mille e mille,

che come qui, che Dio tel doni! riedi,

ti parran fuochi tutte le scintille.

E s'al parlar che faccio punto credi,

fa che di dentro il cor ogni or ti stille,

ch'un punto a pena vedi in l'universo,

di tanto ben che qui ti par cosperso.

120.

Ma come sciolta l'alma da te sia,

sí che non l'ombri il suo terrestre velo,

minutamente e molto piú che pria

le bellezze vedrai di questo cielo.

E meglio gusterai la melodia,

ché regolato allor sará 'l tuo zelo.

Ma ritorniamo omai al parlar nostro,

ed odi quant'adesso qui ti mostro.

121.

Il cardinal che vedi e l'eroine

or son del sacro Tempio li custodi:

com'egli sian del lor officio al fine,

altri il faran con que' medemi modi;

per che s'avien ch'alcun qui s'avicine,

disciolti gl'intricati e stretti nodi,

il Re del ciel ci manda chi li mostri

questi candidi, puri e sacri chiostri.

122.

Del cardinal t'ho detto ciò che fue,

e dove visse e come sen morio:

tu che conosci le compagne sue,

s'altri saperlo avran giá mai disio,

cantale al mondo con le rime tue,

ed altre quattro a te che dirò io,

ch'eternamente furon destinate

esser al tempo lor qui collocate. –

123.

Finiro in questo il lor soave canto

il buon cantor e caste cantatrici,

e fòr usciro del sacrario santo,

del mondo vere ed uniche fenici.

Iva io lustrando quasi in ogni canto

la bella mole e tante sue cornici,

per poterne dapoi qualch'una parte

altrui mostrar ne le mie basse carte.

124.

Avea veduto sculti d'arïento

su colonne di marmo i volti loro,

ed altre assai di strano portamento,

con fregi ricchi di gran gemme e d'oro.

Bastante a dirle tutte non mi sento,

ché sí pudiche e sí famose fôro,

né la metá narrar di tanti eroi,

che mille anni saran famosi e poi.

125.

Tanti archi, tante statue e gran trofei,

collossi, altari, vòlti, alti pillastri,

vasi e finestre vider gli occhi miei,

d'acati, di cristalli e d'alabastri;

ma tutto ciò ch'i' vidi i' non torrei

altrui ridir e men chi fur i mastri,

né forse i' vidi il tutto, e le scritture

non lessi sottoposte a le figure.

126.

Tante eran, cosí belle e sí diverse

le sculture ch'io vidi, nove e antiche,

che la memoria il numer non sofferse,

benché di rammentarle i' m'affatiche.

Poche moderne l'occhio tra lor scerse,

né tutte è di bisogno ch'io replíche:

quelle dirò che la mia guida vuole,

che sono in terra d'onestate il sole.

127.

Di quelle che cantavan, saggie e belle,

il nome qui porrò, si sape il resto.

Stava la prima de le quattro stelle

in abito regal pudico e onesto,

la magnanima piú di tutte quelle

ch'ebbero il cor a l'alte imprese desto,

Beatrice gientile d'Aragona,

che d'Ongheria portò scettro e corona.

128.

Fu moglie al glorïoso e sempre invitto

terror di turchi, il buon Mattia Corvino,

e dal regno cacciata per dispitto

da chi star le devea innanzi chino.

Quell'animo pudico, altiero e dritto,

levato ogni or da terra e 'n ciel divino,

visse sí saggiamente e 'n tanta fama,

che la pudica e liberal si chiama.

129.

La seconda era quell'esempio vero,

e forse senza par, mai non sentito,

di pura pudicizia e corpo intiero,

vergine stando ogni or col suo marito.

Né per tanto si dolse, né l'impero

di quel da lei fu mai disubedito;

ma seco sempre visse in santa pace,

ne mai provò la maritale face.

130.

Isabetta Gonzaga, al dotto Guido

duca di Urbino moglie fu costei,

piú bella de la dèa di Pafo e Gnido,

degna ch'Omero sol cantasse lei:

che sciocco i' son, se despiegar mi fido

tante sue lodi in questi versi miei:

bastimi dir ch'a' tempi suoi fu tale

che maggior nulla, e rara n'ebbe uguale.

131.

Era la terza l'onorata e vaga,

magnanima, gientil, onesta e saggia,

la Sforza e Bentivoglia, in cui s'appaga

bellezza e castitá che mai non caggia.

Di lei la fama d'ognintorno vaga,

e cosí chiara com'il sol irraggia,

ch'ebbe in ogni fortuna il petto saldo,

a l'opre di vertú purgato e caldo.

132.

Fu di bellezza e d'onestate un sole

ad Alessandro Bentivoglio moglie:

risse non seppe il letto lor, né fole,

ma sempre d'un voler ebber le voglie.

Ella sedeva tra le dotte scole,

u' Febo con le Muse Cirra accoglie,

facendo d'Elicona nascer fiume,

Ippolita gientil in terra un nume.

133.

Di nome e sangue a lei congiunta v'era

la quarta, com'un sol in fra le stelle.

Giovane d'anni ancor ma tant'intiera

d'ingegno, di vertú e d'opre belle,

che si poteva por per la primiera,

onor non sol di tutte le Torelle,

ma gloria e pompa de la sua etate,

di beltá, di valor, di castitate.

134.

Chi la vide e per lei non arse ed alse,

fu di porfido duro o di dïaspro,

perché vivendo in terra, nulla valse,

e dir poteva ogni or: «M'immarmo e inaspro».

Ma chi fu tal ch'a lui di questa calse,

divenne uman, se pria fu duro ed aspro,

e s'ella mai li disse: «Tu mi piaci»,

questi ebbe in terra ogni or tranquille paci.

135

Ché 'n que' begli occhi suoi regnava Amore,

Amor dico, ch'al ciel le menti invia;

per che n'usciva cosí casto ardore,

che sol spirava onesta leggiadria.

Per questa il Mencio ogni or acquista onore,

ch'ivi ella prese al ciel di gir la via,

lasciando al Castiglion suo car marito,

ed al mondo di sé pianto infinito.

136.

Ella volando al ciel partí da noi

quasi fanciulla, ma di senno veglia:

che, se compiva i lunghi giorni suoi,

qual fôra stata a lei giá mai pareglia?

Or si noma dal Mauro a i liti Eoi,

e da l'Austro lá dove il Carro sveglia

i bobolci nel freddo e duro gielo,

sotto il Boote al piú rigente cielo.

137.

Non ciò che dirsi de le quattro dèe

con veritá si può, detto n'ho io,

ché chi volesse dir quanto si dée,

sarebbe tra' poeti un novo iddio.

E chi giá mai sí gran miracol fee

che derivasse il mar in picciol rio?

Chi a mezzo giorno può nomar le stelle,

dirá quanto fur vaghe, oneste e belle.

138.

– Ma dimmi, padre, de le quattro il nome,

che vuoi ch'io canti e al mondo manifeste,

perché soviemmi che dicesti come

ve n'eran d'altre ancor in mortal veste,

ch'avean d'Amor lascivo vinte e dome

le forze, sí pudiche sono e oneste:

e dimmi dove l'altre se n'andaro

col cardinal, dapoi ch'elle cantaro. –

139.

– I' tel dirò, – rispose il sacerdote, –

ma prima ciò ch'io parlo un poco ascolta:

e fa che drittamente il tutto note,

acciò lo sappi dir alcuna volta.

Quando pietá regnava e le divote

alme tenean la mente in Dio rivolta,

fu questo Tempio molto frequentato,

ch'or è del tutto quasi abbandonato.

140.

E gli occhi tuoi di ciò ti faccian fede,

se dentro e fòri l'alta chiesa miri.

Di getti e di sculture qui si vede,

e su palchi e pillastri aurati e miri,

il numero infinito che vi siede

cosí di donne com'ancor di viri,

che per intrar in questo santo Tempio,

la morte no' stimaro, n'alcun scempio.

141.

E gli epitafi lor se leggerai,

che mostran l'ora che di qua passaro,

pochi moderni in lista troverai,

mercé del guasto mondo sporco e avaro.

A l'altre etati, peregrini assai

venivan tutto 'l giorno: or sí di raro

ci capita nessun che spesso suole

tutto l'anno passar, ch'assai mi duole.

142.

Per questo nel venir poche vestige

trovasti per camin, ch'a dir il vero,

se verginella de le bianche, o bige,

o mischie, o nere, o d'altro magistero,

o qualche sacerdote che s'afflige,

o casti frati chiusi in monastero,

o secolar pudico non ci viene,

lunga stagion il Tempio chiuso tiene.

143.

Solevan giá color ch'a Dio dicati

cangiavan panni, ancor mutar costume,

le monache ti dico, preti e frati,

e dar di lor esempi com'un nume:

per la piú parte or sono sí cangiati,

che 'n pochi piú si vede chiaro lume,

perché insipido fatto è sí lor sale,

ch'altrui la vita saporir non vale.

144.

Né perché molti da li lor antichi

tralignino, si de' sprezzar il resto.

D'ogni regola assai a Dio amichi

trova, chi vuol provar e quello e questo:

lasciamo andar chi vuol per calli oblichi,

e sia d'ogni uomo il cor svegliato e presto

far ciò che deve in qual si voglia grado,

e ciò che manda Dio pigliar in grado.

145.

Se si mettesse l'uom del sozio i panni,

né fesse ad altri ciò ch'egli non ama,

de l'etá d'oro tornarebber gli anni,

e netta di ciascun saria la fama.

Guerra non fôra, n'adultèri o danni,

ond'oggi il mondo tutto si dirrama,

e questo Tempio solitario e incolto,

vedresti ogni ora frequentato molto.

146.

Qualch'un ci viene pur, e sí n'aggioia,

ch'a la venuta sua si fa gran festa.

Com'i' t'ho detto, con diletto e gioia

si riceve ciascun, ma piú chi resta;

ché chi ci viene prima ch'egli moia,

cader potrebbe e rompersi la testa,

e viver sí disciolto e sí lascivo

che mertamente qui s'avrebbe a schivo.

147.

Per questo il cardinale e le signore

non ti fêr accoglienza, ma cantando

disser: «Beati quei c'han mondo il core»,

innanzi a te le voci replicando.

Chi vive mondo e puro, e tal sen more

con quella puritá perseverando,

qui si raccoglie sí gioiosamente

ch'altro che gioia e festa non si sente.

148.

Però s'uscito se' del bosco fòra,

non ci tornar mai piú, ché forse forse

il ritornargli e 'l recidivo fôra

del dente assai peggior che pria ti morse.

Ringrazia il Crïator e loda ogni ora,

che, (sua mercé), benigno ti soccorse,

e prega ch'ei ti doni un cor sí puro

che dal nemico ogni or resti sicuro.

149.

Tempo verrá dapoi se tu vorrai

la strada caminar ch'a gir hai preso,

ch'al fin tuo lieto qui ne volerai,

di vera caritate tutto acceso.

L'indicibil contento allor avrai

che fin che l'uomo vive gli è conteso,

e per te stesso proverai il fruire

che pensar non si può, non ch'altrui dire.

150.

Il cardinal con l'eroine sante

volato è su nel ciel al suo bel gioco,

e ben che li vedessi a te davante,

il lor fruir non manca assai né poco.

Or mira e vederai che tutte quante

le statue non hai viste in questo luoco:

leggi que' versi in quelle gran colonne,

e 'l titol vederai di quattro donne.

151.

Quando 'l tempo verrá che vengan quelle

sí che morte lor svella il fatal crine,

que' quattro seggi e sí gemmate selle

avran su le colonne pellegrine.

Or volgi il tuo parlar in lodi d'elle,

che son di vostr'etate l'eroine,

ove piú splende 'l ben, ove piú sale,

che 'n qual oggi alze a la vertute l'ale. –

152.

A le colonne allor mi volgo, e miro

sovvr'esse seggi riccamente adorni,

con tante perle e gemme in ogni giro,

e sí fregiati tutti i lor contorni

che, quanto piú ci guardo e piú rimiro,

forza è che l'occhio a quei la vista torni.

E lessi incisi dentro a fini marmi

de le donne le lodi in varii carmi.

153.

E ben m'accorsi allor ch'i' non avea

la millesima parte d'i trofei

vista che 'l Tempio dentro e fòr tenea,

ch'a par del resto non ne scorsi sei.

Il titol ch'io ci lessi allor dicea

ciò che diranno in parte i versi miei;

che il tutto non si può con dir umile

spiegar di quel sullime e altiero stile.

154.

Se quant'è 'l merto vostr', alme gientili,

i' non dispiego in queste basse carte,

mi scusi, ch'i divin, cielesti stili

i' non posso imitar in ogni parte:

ché le mie rozze rime basse e vili

prive di grazia son, le manca l'arte.

Ciò che posso vi do, basti il volere,

ch'i' piú vorrei poter del mio potere.

155.

Ben mi son messo a tralatar il senso,

e cavarne quel suco che si puote;

ma tropp'è l'alto stil perfetto e immenso

che la penna di man spesso mi scuote.

E quanto piú di tempo ci dispenso,

men mi par aguagliar le sacre note:

e pur quel poco ch'io ne trassi e scrissi

è breve stilla d'infiniti abissi.

156.

De la primiera il nome fu Gostanza,

sorella al gran Rangon, moglie al Fregoso,

che di fortezza d'alma e di costanza

oggi è nel mondo il parangon famoso.

È come in proprio albergo, in quella stanza,

sincera pudicizia, ed ha riposo,

perché col schietto cor son gli atti schivi,

leggiadri, onesti, mansüeti e vivi.

157

Col lieto viso il cor onesto alberga,

ch'ogni pensier, ogn'atto ben misura;

di rea fortuna i dardi sí posterga,

che nulla sorte aversa teme o cura.

E questa, quanto può, di duol l'asperga:

quel cor costante sempre saldo dura,

e discopre conforme effetto al nome,

ché mai non piega sotto a gravi some.

158.

Ad altri piú ch'a sé benigna e larga,

giá mai non chiuse l'onorata mano,

anzi cortese e liberal l'allarga,

e dona con ragione e senso sano.

Quivi Elicona il chiaro fiume sparga

con dolce stile ben sonoro e piano,

e canti ogni or con vera veritate

che 'l titol ella porta d'onestate.

159.

Eran di simil senso le parole

che 'n parte ho detto di tanta eroina,

di cui la fama insieme con il sole

risplende e di volar mai non raffina;

ma chi lodarla, quanto merta, vuole,

e dimostrar altrui com'è divina,

avrá fatica faticosa e immensa,

tante in lei doti il largo ciel dispensa.

160.

Or dove i' manco in tant'eccelsa impresa,

veggio il nodritto de le Muse in seno,

che con la lingua al poetar accesa,

di lei le lodi canta in verso pieno:

e quella per soggietto giá s'ha presa,

acciò per morte mai non venga meno:

lo Scaligero è questi, il cui bel stile

è chiaro al Gange, a Calpe, a l'Austro, a Tile.

161.

La seconda dopo m'occorse sede,

ove una donna in nera gonna avolta

assisa si vedea, cui sotto il piede

diceva un scritto: «Vïator, ascolta:

costei che qui con tanta grazia sède,

dal nodo marital, giovane, sciolta,

visse ed or vive cosí casta e saggia

qual altra ch'oggi tutto 'l mondo n'aggia.

162.

Del Ligustico mar lá presso al lito

nacque in dolci acque, non lontan dal Varo.

L'ancise allor l'Ispano il car marito

quando Genova fu con duol amaro

messa a diruba, ed il Fregoso ardito

indi levato, che gli Adorni intraro,

ond'ella con li cari figli a lato

astretta fu cangiar fortuna e stato.

163.

Cosí con tre figliuoli che duo lustri

tra tutti non avean, fuggí in Provenza,

u' spesso predicando de gli illustri

avi Fregosi loro l'eccellenza,

veder li fece come quai ligustri

mancan color che si ritrovan senza

la vita esercitar in opre, quali

opran chi farsi bramano immortali.

164.

Ond'i fanciulli quanto lor l'etate

dava, il parlar chiudevan sempr'in core,

tal ch'oggi dí comincian le lodate

opre mostrar con cui s'acquista onore;

ch'a l'armi han sí le voglie lor dicate

che giá fiorir si vede il lor valore,

mercé de la pia madre lor divina,

d'Oria e Fregosa la casta Argentina».

165.

Mi rivolgo e rimiro il terzo seggio

alto e sullime e riccamente ornato,

e su sedervi una matrona i' veggio

di grave aspetto, riverente e grato.

Onde allor dissi: – Se qui non vaneggio,

né m'abbaglia lo scanno tutto aurato,

questa mi par e credo certo sia

la Sansevvrina Margarita Pia. –

166.

Di nero l'adornava un vago manto,

con neri veli al capo d'ognintorno,

e vedeva posarsi a quella a canto,

né mai da lei partirsi, notte e 'l giorno:

pensier onesti e l'operar sí santo

ch'onta non teme in ciò che fa né scorno:

ed era il suo contegno sí gientile,

che d'uom mortale non l'aguaglia stile.

167.

Il titolo diceva in brevi versi:

«Tra le donne piú rare questa è rara,

né suoi pensier dal nome son diversi,

che perla orïental è schietta e cara.

D'un tenor saldo sempre suol tenersi,

o le sia sorte amica, o sia contrara.

Guarda l'aspetto quanto onesto, e grande

fermezza e maiestá ne gli atti spande».

168.

Questo ed altro di voi, donna famosa,

mostrava la scultura in la colonna,

onde si vede, come glorïosa

oggi vivete e sí perfetta donna.

Ma come posso con sí breve chiosa

dir il valor ch'ogni or in voi s'indonna,

s'un compíto de l'alma e ver valore,

come in voi splende, stil non mostra fòre?

169.

Era la quarta sella a la nipote

alzata di Gostanza in titol tale:

«Tu che questa oda in questi versi note,

che 'n lettre d'oro è sculta senz'uguale,

saprai che quanto mai bramar piú puote

di grazia e di beltá donna mortale,

unito si vedrá in questa sola,

che sovvra tutte giovanetta vola.

170.

E com'estrema in questa è la bellezza,

che 'n pace vive ogni or con castitate,

cosí vedrassi quanta gientilezza

ebbe mai donna, in qual si voglia etate.

Via piú vertute che la vita apprezza,

specchio di casto amor e di bontate,

ch'innanzi gli anni ha posto sotto il piede

ogn'appetito e sol a ragion crede.

171.

Qual ella è viva tal la vedi sculta,

quant'a l'effige e le fattezze vere;

ma il bello ingegno punto non ressulta

com'è, ché 'l fabro tal non ha potere.

La colonna da cui si tien suffulta,

e perle e gemme, come puoi vedere,

al raro suo valor s'alcuno aguaglia,

al fin piropo compara la paglia.

172.

Puote il mastro gientil il bel profilo

col martello formar del vago viso,

qual il pittor che col pennello il filo

d'un volto segna come sta preciso.

Ma que' begli occhi far non puote stilo,

né la grazia mostrar del dolce riso:

non Pirgotele o Lisippo n'Appelle

far il potrian che fêr tant'opre belle.

173.

Tre lustri a pena passa, e giá sormonta

di grazia e di bellezza le mature,

e quanto piú l'etate cresce e monta,

piú son di migliorar gli studi e cure.

Ed è la sua vertú sí chiara e conta,

e l'accoglienze son sí oneste e pure,

che chi la mira a gli occhi suoi non crede,

perché 'n lei cose sí stupende vede.

174.

Ma tutte quelle parti che la fanno

degna di lode, ch'infinite sono,

s'ad una ad una incise qui saranno,

capace il marmo non sarebbe o buono.

Fra molte grazie in lei ch'unite stanno,

questo le dona il ciel perfetto dono,

ch'a' tempi suoi in terra quella sia,

ch'insegni al mondo del ben far la via».

175.

Altre assai cose lessi del valore,

del pudor saggio e irreprensibil vita,

del sempre al ben oprar acceso core

di questa glorïosa alma e gradita,

e quant'è degna d'ogni ver onore,

a tant'altezza ha quella il ciel sortita;

ma chi d'April può dir le frond'e i fiori,

di Lucrezia dirá tutti gli onori.

176.

Quest'io cantava de le vere lode

di voi, Lucrezia, mio terrestre nume,

mentre che 'l gran pastor Paulo si gode

lá presso il Varo, sí nomato fiume,

che con Francesco Carlo ogni or s'annode,

acciò che Europa piú non si consume,

e da' membri di Cristo tante offese

si levin che v'avea discordia accese.

177.

Era in quella stagion di me Bandello,

in tante guerre fida stanza ogni ora,

di Luigi Gonzaga il buon castello,

ov'a me vissi ed a le Muse ancora,

mercé la vera cortesia di quello

ch'oggi l'Italia tant'esalta e onora:

Cesar Fregoso, il mio signor i' dico,

d'arme e chiaro valor perpetuo amico.

 

FINE

 




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