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Giuseppe Garibaldi
Clelia ovvero Il governo dei preti

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    • CAPITOLO XXXIX   L’ESERCITO ROMANO
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CAPITOLO XXXIX

 

L’ESERCITO ROMANO

 

«Ora ci si fa davanti la bella regione in cui l’uomo crebbe più grande che in qualunque altra contrada del mondo, e vi operò portenti di energia e di senno: entriamo nella sacra terra da cui venne la luce che illuminò l’universo. Anche qui alla rigogliosa vita d’un tempo è succeduta la morte; e in molti luoghi non trovi più che macerie in mezzo a vasto deserto, a solitudine desolata, a silenzio d’essere umano. Caddero le città dei dominatori del mondo ma i rottami dei monumenti che ingombrano il suolo, mandano ancora una voce eloquente che rompe il silenzio dei secoli, e dice della grandezza degli antichi abitatori nelle campagne latine, comecché desolate tutto è magnifico.

L’austera natura accresce solennità alle rovine delle città e dei sepolcri e alle grandi memorie. In mezzo al deserto, ad ogni passo, sono le vestigie di una potenza che ti sgomenta il pensiero. Spesso nel medesimo luogo e sul medesimo sasso, ti è dato di leggere i ricordi, gli affetti, i dolori di età fra loro lontanissime. Qui tu trovi le colonne dei templi, dai quali gli antichi ciurmatori coi loro oracoli ingannavano le turbe per renderle schiave: e più in incontri ciurmadori moderni che la religione fanno stromento di sozza tirannide: tristizie antiche e nuove, memorie di prepotenza e prepotenze viventi.

Se ti fa fremere il grido lontano dei miseri che la fiera aristocrazia precipitava dalle gemonie, fremito più profondo ti desta il grido vivente che esce dalle prigioni piene delle vittime del furore papale: e scavando la terra, puoi trovar le ceneri dei difensori del popolo antico, miste a quelle dei martiri che all’età nostra in nome di Dio e del popolo dettero il sangue alla nuova Repubblica, e caddero protestando contro il barbaro dominio sacerdotale. E dal meditare sulle memorie recenti ed antiche, trarrai coll’afflitto animo qualche conforto vedendo che per volger di secoli, e per imperversar di tirannide, i lontani figli non perderono l’energia dei primi padri, e su questa terra degli augurii prenderai lieti presagi alla nostra povera patria, che le antiche fortune ha ormai scontate con troppo lunghe sventure»50.

Questo superbo squarcio di poesia patria del grandissimo scrittore dell’Italia antica io ho voluto addurre per sorreggermi nella troppo, per me, ardua impresa di descrivere la Roma dei tempi eroici e la non morta virtù degli abitatori del Lazio moderno. E dovendo narrare di quell’accozzaglia di gente nostrana e straniera, che oggi si chiama Esercito Romano io desidero che si consideri cosa ponno essere uomini che si consacrano al servizio di un governo come quello del Papa, il quale non può ispirare che disprezzo.

Giova ripetere ciò che già dissi: solo il prete poteva cambiar nell’ultimo popolo della terra, questo «che nacque in una regione ove l’uomo crebbe più grande che in qualunque altra contrada del mondo». L’esercito romano è composto di Romani che sono sotto la vigilanza di soldati stranieri, e di soldati stranieri e romani custoditi da birri, sotto il nome di gendarmi. Mercenarii tutti poiché qual uomo d’onore e non spinto dalla sete dell’oro potrebbe adagiarsi su tale letamaio?

Il nome di soldato del papa è schernito. Lo straniero, per malandrino che sia, giungendo a far parte di questo esercito crede nobilitarlo. Disprezza quindi lo straniero, i soldati romani, e di qui le botte tra romani e stranieri, quasi sempre con la peggio degli ultimi, perché gli indigeni malgrado tutto lo studio dei preti per corromperli ed imbastardirli conservano ancora qualche avanzo dell’antico valore.

Ecco lo stato del moderno esercito romano, ed ecco perché i nostri proscritti informati d’ogni cosa se ne stavano tranquillamente aspettandone le mosse, mentre le mosse tardavano perché la confusione e la discordia regnavano in quella parodia d’esercito.

Gli stranieri, sprezzatori dei romani, volevano la destra nell’ordine di battaglia; e questi non temendo gli stranieri e giustamente credendosi migliori di loro non volevano cederla. Le sottane, impotenti a metter ordine in quella ciurmaglia, si rodevano d’impazienza, di rabbia e di paura.

Il giorno di Pasqua destinato allo sterminio dei briganti poco mancò non segnasse la distruzione dei mercenarii e se le malve51 italiane di fuori non avessero gridato «alla moderazione, all’ordineera questo il momento di farla finita con quella canaglia, morbo e disonore del nostro paese.

Regolo e con lui la maggior parte dei trecento, dinanzi al veto che era giunto di fuori «di non tentare nulla per allora a favore di Roma», non vollero rimanere inoperosi, e per molestare l’eterno nemico presero queste determinazioni. Si arrolarono nelle truppe pontificie indigene; e catechizzarono i soldati in modo che nell’ordinanza di marcia, col pretesto che lor toccava la destra si ammutinarono. Gli ufficiali che volevano usare la loro autorità furono bastonati ed avendo il Generale D. mandato alcune compagnie straniere per metterli all’ordine cominciò una di quelle zuffe peggiori di una battaglia campale il risultato della quale fu che gli stranieri volti in fuga riguadagnarono le loro caserme.

Uno degli instigatori principali della sommossa era stato il nostro sergente di dragoni, Dentato.

Uscito dalle torture dell’inquisizione che avea sostenute con uno stoicismo degno de’ tempi antichi avea giurato di vendicarsi alla prima occasione e non l’avea perduta. Alla testa de’ suoi dragoni, col suo sciabolone alla mano, egli era stato visto caricare nel più folto di un gruppo straniero dove avea fatta strage di mercenarii.

Terminata la zuffa, sapendo quale premio gli serbavano i preti per le sue sciabolate, senza smontare da cavallo si avviò coi compagni fuori di Roma in cerca dei proscritti che lo accolsero fraternamente. Narrò loro i successi della capitale e con grande ilarità di tutti ne fu udito il racconto.

 

 

 




50 Il Lazio, i suoi abitatori, e le sue città. Tradizioni sui primi tempi di Roma, i re, la rivoluzione e la guerra ai tiranni. (Atto Vannucci, Cap. I)



51 Nome dei moderati.






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