CAPITOLO XXXIX
L’ESERCITO ROMANO
«Ora ci si fa davanti la bella regione in cui l’uomo crebbe più
grande che in qualunque altra contrada del mondo, e vi operò portenti di
energia e di senno: entriamo nella sacra terra da cui venne la luce che
illuminò l’universo. Anche qui alla rigogliosa vita d’un tempo è succeduta la
morte; e in molti luoghi non trovi più che macerie in mezzo a vasto deserto, a
solitudine desolata, a silenzio d’essere umano. Caddero le città dei dominatori
del mondo ma i rottami dei monumenti che ingombrano il suolo, mandano ancora una
voce eloquente che rompe il silenzio dei secoli, e dice della grandezza degli
antichi abitatori nelle campagne latine, comecché desolate tutto è magnifico.
L’austera natura accresce solennità alle rovine delle città e dei
sepolcri e alle grandi memorie. In mezzo al deserto, ad ogni passo, sono le
vestigie di una potenza che ti sgomenta il pensiero. Spesso nel medesimo luogo
e sul medesimo sasso, ti è dato di leggere i ricordi, gli affetti, i dolori di
età fra loro lontanissime. Qui tu trovi le colonne dei templi, dai quali gli
antichi ciurmatori coi loro oracoli ingannavano le turbe per renderle schiave:
e più in là incontri ciurmadori moderni che la religione fanno stromento di
sozza tirannide: tristizie antiche e nuove, memorie di prepotenza e prepotenze
viventi.
Se ti fa fremere il grido lontano dei miseri che la fiera
aristocrazia precipitava dalle gemonie, fremito più profondo ti desta il grido
vivente che esce dalle prigioni piene delle vittime del furore papale: e
scavando la terra, puoi trovar le ceneri dei difensori del popolo antico, miste
a quelle dei martiri che all’età nostra in nome di Dio e del popolo dettero il
sangue alla nuova Repubblica, e caddero protestando contro il barbaro dominio
sacerdotale. E dal meditare sulle memorie recenti ed antiche, trarrai
coll’afflitto animo qualche conforto vedendo che per volger di secoli, e per
imperversar di tirannide, i lontani figli non perderono l’energia dei primi
padri, e su questa terra degli augurii prenderai lieti presagi alla nostra
povera patria, che le antiche fortune ha ormai scontate con troppo lunghe
sventure»50.
Questo superbo squarcio di poesia patria del grandissimo scrittore
dell’Italia antica io ho voluto addurre per sorreggermi nella troppo,
per me, ardua impresa di descrivere la Roma dei tempi eroici e la non morta
virtù degli abitatori del Lazio moderno. E dovendo narrare di quell’accozzaglia
di gente nostrana e straniera, che oggi si chiama Esercito Romano io desidero
che si consideri cosa ponno essere uomini che si consacrano al servizio di un
governo come quello del Papa, il quale non può ispirare che disprezzo.
Giova ripetere ciò che già dissi: solo il prete poteva cambiar
nell’ultimo popolo della terra, questo «che nacque in una regione ove l’uomo
crebbe più grande che in qualunque altra contrada del mondo». L’esercito romano
è composto di Romani che sono sotto la vigilanza di soldati stranieri, e di
soldati stranieri e romani custoditi da birri, sotto il nome di gendarmi.
Mercenarii tutti poiché qual uomo d’onore e non spinto dalla sete dell’oro
potrebbe adagiarsi su tale letamaio?
Il nome di soldato del papa è schernito. Lo straniero, per
malandrino che sia, giungendo a far parte di questo esercito crede nobilitarlo.
Disprezza quindi lo straniero, i soldati romani, e di qui le botte tra romani e
stranieri, quasi sempre con la peggio degli ultimi, perché gli indigeni
malgrado tutto lo studio dei preti per corromperli ed imbastardirli conservano
ancora qualche avanzo dell’antico valore.
Ecco lo stato del moderno esercito romano, ed ecco perché i nostri
proscritti informati d’ogni cosa se ne stavano tranquillamente aspettandone le
mosse, mentre le mosse tardavano perché la confusione e la discordia regnavano
in quella parodia d’esercito.
Gli stranieri, sprezzatori dei romani, volevano la destra
nell’ordine di battaglia; e questi non temendo gli stranieri e giustamente
credendosi migliori di loro non volevano cederla. Le sottane, impotenti a
metter ordine in quella ciurmaglia, si rodevano d’impazienza, di rabbia e di
paura.
Il giorno di Pasqua destinato allo sterminio dei briganti
poco mancò non segnasse la distruzione dei mercenarii e se le malve51
italiane di fuori non avessero gridato «alla moderazione, all’ordine!» era
questo il momento di farla finita con quella canaglia, morbo e disonore del
nostro paese.
Regolo e con lui la maggior parte dei trecento, dinanzi al veto
che era giunto di fuori «di non tentare nulla per allora a favore di Roma», non
vollero rimanere inoperosi, e per molestare l’eterno nemico presero queste
determinazioni. Si arrolarono nelle truppe pontificie indigene; e
catechizzarono i soldati in modo che nell’ordinanza di marcia, col pretesto che
lor toccava la destra si ammutinarono. Gli ufficiali che volevano usare la loro
autorità furono bastonati ed avendo il Generale D. mandato alcune compagnie
straniere per metterli all’ordine cominciò una di quelle zuffe peggiori di una
battaglia campale il risultato della quale fu che gli stranieri volti in fuga
riguadagnarono le loro caserme.
Uno degli instigatori principali della sommossa era stato il
nostro sergente di dragoni, Dentato.
Uscito dalle torture dell’inquisizione che avea sostenute con uno
stoicismo degno de’ tempi antichi avea giurato di vendicarsi alla prima
occasione e non l’avea perduta. Alla testa de’ suoi dragoni, col suo sciabolone
alla mano, egli era stato visto caricare nel più folto di un gruppo straniero
dove avea fatta strage di mercenarii.
Terminata la zuffa, sapendo quale premio gli serbavano i preti per
le sue sciabolate, senza smontare da cavallo si avviò coi compagni fuori di
Roma in cerca dei proscritti che lo accolsero fraternamente. Narrò loro i
successi della capitale e con grande ilarità di tutti ne fu udito il racconto.
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