CAPITOLO XLIV
IL 30 APRILE
Sull’albeggiare del 30 Aprile 1848 un sergente straniero era
condotto in prigione alla presenza del comandante il Gianicolo. Caduto in
un’imboscata di romani, durante la notte, quel soldato, cui i preti avevano
dato ad intendere che i difensori di Roma eran tanti assassini, giunto che fu
alla presenza del capo s’inginocchiò, e chiese la vita per amore di Dio59.
Il comandante porse la destra al giovine straniero e lo sollevò di
terra, lo confortò amorevolmente, quindi «Buon augurio!» esclamò il guerriero
italiano, rivolto ai circostanti. «Buon augurio! la burbanza straniera
prostrata davanti alla maestà romana, è indizio certo di vittoria!».
E veramente, quell’esercito straniero, che sbarcato a
Civitavecchia, se ne era con fraude impadronito, e col fallace titolo d’amico,
s’avanzava su Roma, beffandosi della credulità come della bravura del nostro
popolo, ben caramente ebbe a pagare le sue millanterie, e rotto in fuga dai militi
cittadini della Metropoli, dovette ripigliare vergognoso la via del mare.
Il 30 Aprile, giorno glorioso per Roma, non era dimenticato sui
sette colli ma come festeggiarlo in presenza di tanta sbirraglia? Né in Roma
soltanto, ma in tutte le città ancora soggette al Papa, rinasceva costante il
desiderio di festeggiare l’anniversario della propria liberazione. A Viterbo,
dove sappiamo che al tempo del nostro racconto non c’erano truppe, la
popolazione avea divisato di festeggiare il 30 Aprile, come anniversario della
cacciata dello straniero, e preparativi acconci furono fatti. Ma, se non v’eran
truppe, non mancavano spie ed il Governo di Roma fu informato d’ogni cosa.
Il Comitato Viterbese per la festa avea fissato un programma che
stabiliva: dopo il meriggio i lavori fossero sospesi, la gioventù in abito di
gala si riunisse sulla piazza della Cattedrale con nastro tricolore al braccio
sinistro, di là movesse in processione verso la porta Romana, per ivi dare un
saluto alla vecchia matrona dell’orbe ricordando il valore de’ suoi cittadini
in quel giorno glorioso.
Il governo di Roma, spaventato dalla notizia di tale avvenimento,
diede ordini ad un corpo di nuovi soldati stranieri, da poco tempo al soldo dei
preti, di marciare in fretta su Viterbo, per reprimere la dimostrazione a
qualunque costo.
Or, mentre il paese festoso, quasi dimentico del lungo servaggio,
si abbandonava alla gioia, e la gioventù dopo aver fatto solenne saluto di
porta Romana, a dispetto delle autorità pretine passeggiava in buon ordine preceduta
dalla banda che suonava inni patriottici; mentre le signore, sempre più ardenti
degli uomini quando si tratta d’atti generosi, acclamavano dai balconi, e
sventolavano graziosamente fazzoletti tricolori ai passanti; mentre infine la
città intiera, che i preti come tutte le altre avean tenuta nel lutto, si
destava alla gioia di un ricordo glorioso dalla stessa porta Romana, spuntava
la testa di colonna del corpo straniero, e con baionetta in canna, e a passo di
carica invadeva la via principale della città, ove ancora si trovavano
viterbesi festanti.
Un delegato di polizia, che con alcuni birri precedeva i
mercenarii impose al popolo di ritirarsi. A quell’intimazione risposero fischi
solenni ed alcune pietre ben dirette fecero fuggire il delegato ed i suoi
compagni, che rannicchiandosi fra la soldatesca, gridavano a squarciagola:
«caricate quella canaglia! Fate fuoco per Dio!». Il comandante di quella
ciurmaglia, che voleva guadagnarsi qualche cindolo e sapeva che facendo macello
del popolo si metteva sulla vera via per ottenerlo, persuaso ancora che
giovasse aizzare i suoi cagnotti contro i cittadini, acciò che l’odio reciproco
tra loro non si raffreddasse, ordinò tosto la carica alla baionetta.
I Viterbesi, che come tutte le popolazioni Romane, avevano ordine
dai comitati rivoluzionari di non muoversi e quindi non eran preparati alla
pugna. Si dispersero per le vie traverse, il che venne loro facilitato dalla
incipiente oscurità della sera, e dal subitaneo spegner dei lumi, che le donne
come per incanto, eseguirono dovunque.
La carica dei mercenarii non ebbe sfogo che contro alcuni cani e
somarelli di campagna che si ritiravano a casa e non s’udiva altro che un
grande abbaiare dei primi ed un urlar dei secondi, perseguiti colle baionette
alle reni dai valorosi campioni delle sottane.
Eran circa le 10 della sera e tutto era tranquillo in Viterbo. La
truppa aveva formato i fasci sulla piazza principale, riposandosi sugli allori
dalle fatiche e vittorie del giorno. Dei cittadini, ritirati nelle loro case,
non se ne incontrava uno solo per le strade. Al grande Albergo della Luna il
campanello chiamava a raccolta i commensali alla gran tavola rotonda. Circa
cinquanta posti erano preparati, con quel lusso che nelle odierne locande si
suole spiegare.
Verso l’istessa ora, una carrozza a quattro cavalli giungeva alla
porta della locanda, e vi scendeva una donna in abito da viaggio, che alla
sveltezza del passo e alla scioltezza d’ogni movimento si scorgeva essere
giovane. Il maestro di casa, dopo aver introdotto in una delle più eleganti
camere dell’albergo la forestiera, le chiese se desiderava rifocillarsi senza
uscire di stanza; ed essa rispose che volentieri sarebbe scesa alla tavola
rotonda, non piacendole di pranzar sola.
La sala era già affollata, e la maggior parte degli astanti erano
ufficiali stranieri del corpo recentemente arrivato. Il resto erano forestieri
italiani e cittadini di Viterbo.
All’apparire della viaggiatrice, tutti gli occhi si rivolsero su
lei con ammirazione ed era veramente ammirabile in quella sera la nostra
Giulia, perocché la nuova venuta era lei.
Tutti fecero largo quando traversò la sala, gli italiani assunsero
un’aria di gentile stupore, gli ufficiali affilarono i baffi, dilatarono il
collo e rigonfiarono il torace in aria di conquistatori.
A capo della tavola s’assise il padrone di casa, elegantemente
vestito, e pregò la bella inglese di sedersi alla sua destra. Gli ufficiali
sollecitamente si affollarono verso il capo della tavola per mettersi accanto
alla signorina e così i primi posti in un batter d’occhio furono occupati da
loro. Giulia vedendosi un mercenario alla destra, si pentì di avere accettato
l’offerta, ma era già troppo tardi e, mentre con aria contrita, girava lo
sguardo sui commensali, i suoi occhi s’incontrarono con due occhi, che la
colpirono come folgore. Erano gli occhi di Muzio! di Muzio che si trovava
all’altra estremità della mensa, collocato fra Attilio ed Orazio niente meno!
Assuefatta a vedere il suo diletto col mantello, poco abituata
alla fisionomia d’Orazio che aveva veduto un sol momento armato da capo a piedi
nella selva, e d’Attilio, che in Roma usava il semplice vestito dell’artista,
rimase incerta ed esitante e vedendoli tutti e tre in cilindro, e con abito da
viaggiatori stranieri, veramente sulle prime non li riconobbe. Quando fu ben
sicura che erano loro, proprio loro, rimase mortificata di trovarsi accanto a
tal vicino. Ma come fare? Come alzarsi, avvicinarsi, chieder loro mille cose
che essa bramava sapere senza destare sospetti, senza comprometterli, mentre
sovr’essa lampeggiavano cinquanta sguardi d’uomini affascinati dall’incantatore
suo volto?
E Muzio! il medico, il capo della contropolizia Romana, l’uomo che
come il suo omonimo60 avrebbe posto per Giulia, non la mano, ma la
testa sui carboni ardenti; Muzio, vedeva l’astro della sua vita lì, accanto ad
un soldato straniero, che egli odiava come vile strumento della tirannide. Lì!
la sua Dea! il suo tutto! obbligata ad accettare le gentilezze d’una mano
contaminata o da contaminarsi forse nel sangue de’ suoi concittadini.
Oh, voi! innamorato d’una donna, avete mai pensato, mai compreso
quanto valete alla sua presenza, quando un profano tenta di rapirtene il
possesso? Voi, se in quell’atto non valete dieci uomini, se in quell’atto non
siete capace di dar dieci vite siete un codardo e la donna di codardi non ne
vuol sapere!
Siate pur delinquente! Essa vi perdonerà; ma la donna non perdona
che ai prodi! E Muzio era degno dell’amore della britanna vergine e guai allo
straniero! Se Muzio avesse dato ascolto alla sua smania di vendetta! Quegli
avrebbe veduto una lingua di fuoco lampeggiare nell’aria, avrebbe sentito la
fredda lama di un pugnale penetrargli nelle viscere!
Giulia avea letto nell’occhio dell’amante la tempesta del suo
cuore e lo sguardo di lei, indovinato da lui solo, placava l’anima vulcanica
del Romano.
Fra una portata e l’altra, com’è naturale, gli ufficiali stranieri
non mancavano d’intavolare discorsi sulle faccende di Roma e della giornata: e
come al solito con poco rispetto per il popolo Romano, che erano avvezzi a
disprezzare.
Giulia, infastidita dall’indecorosa conversazione, s’alzò con
contegno altero e dimandò di ritirarsi. I nostri tre amici, che Dio sa quanto
erano bramosi di baciarle la mano, s’erano già mossi per alzarsi anche loro quando
uno scoppio di risa generale degli ufficiali stranieri li tenne curiosamente
fermi al loro posto.
Era stata cagione della risata una facezia insolente d’uno di essi
sul fatto della giornata che suonava così: «Io credevo di venire a Viterbo per
menare le mani contro degli uomini e invece vi abbiam trovato conigli, che si
son rintanati al solo nostro apparire. Ove diavolo si sono appiattati questi
liberali che menan tanto romore?».
L’ultima frase aveva fatto ripigliare i loro posti ai tre
proscritti e, fatto un gruppo dei tre guanti, Attilio con piglio sdegnoso lo
scaglia contro il viso del maldicente, senza articolare parola.
«Oh! Oh! - esclamò il provocato - che affare è questo!» e
pigliando il gruppo dei guanti li sciolse e continuò: «dunque sono sfidato da
tre!... bravi! ecco un nuovo saggio del valore italiano: tre contro uno! tre
contro uno!» e se la rideva sgangheratamente insieme coi compagni.
I tre lasciarono passare il nuovo clamore e quando fu finito Muzio
con voce stentorea gridò: «Tre contro tutti! signori insolenti!».
L’effetto di queste parole fu magico, poiché all’accento di Muzio
i tre amici s’erano alzati fulminando coi loro sguardi or l’uno or l’altro
ufficiale e presentando nelle loro teste scoperte quell’insieme alla
Michelangelo che abbiam descritto, quel bello e marziale aspetto che natura
qualche volta prodiga ad un individuo colla sua capricciosa e maestra mano:
capriccio, forse ingiustizia relativamente ai molti che non ricevono tale
favore, ma dono che noi ammiriamo sempre con piacere nella persona amata, con
odio, nel caso contrario.
E tale fu l’effetto prodotto sulle due fazioni, che stavano assise
alla stessa mensa. Gli italiani ne furono edificati e con aspetto ilare e
plaudente contemplarono i tre campioni dell’onore nazionale con ammirazione e
gratitudine, mentre gli stranieri rimasero stupefatti per un pezzo e non
poterono a meno di restare sorpresi dalla maschia bellezza dei tre e dal loro
fiero contegno.
Passato quel momento, il sarcasmo straniero tornò in campo ed uno
dei più giovani esclamò: «Amici un brindisi», e poiché tutti si alzarono col
bicchiere in mano: «io bevo, - egli disse -, alla grande nostra fortuna, d’aver
incontrato finalmente dei nemici degni di noi in questo paese».
Orazio rispose: «Io bevo alla liberazione della nostra Roma da
ogni immondizia straniera!».
Le parole d’Orazio sembrarono troppo insultanti agli ufficiali e
la maggior parte si levò portando minacciosamente la mano sull’elsa, ma uno fra
loro più maturo di età tranquillandoli, disse: «Amici! non conviene turbare la
quiete della città, dove sapete che siamo venuti per rimetter l’ordine.
All’alba ci troveremo co’ tre nostri provocatori; solamente bisogna assicurarsi
che questi signori non vadano via nella notte, e ci privino dell’onore d’uno
scontro».
«Troppo fortunata è l’occasione che a noi si presenta di
combattere i nemici del nostro paese, - rispose Attilio -; perché ce la
lasciamo sfuggire. Se vi garba staremo insieme tutti sino all’alba per movere
uniti al luogo della pugna».
Gli stranieri chiesero della carta per scrivere i loro nomi e
tirare a sorte chi dovesse combattere; tra i pacifici commensali italiani se ne
trovarono tre che si offrirono di servire da secondi ai loro concittadini e
quanto alle armi, siccome v’era insulto manifesto, da ambe le parti, si chiese
il duello ad oltranza. A quindici passi: e al segnale dei padrini i combattenti
marcerebbero ad incontrarsi, sciabola e pugnale.
I tre campioni dei preti usciti dall’urna, ossia da un cappello,
ove erano stati deposti i nomi, furono un francese legittimista, uno spagnuolo
carlista ed un austriaco. Il primo si chiamava Goulard, il secondo Sanchez ed
il terzo Haynau.
I padrini nel resto della notte si occuparono a visitare le armi
per fare in modo che le condizioni dei combattenti si trovassero pareggiate sul
terreno.
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