CAPITOLO XLV
LA PUGNA
L’alba del primo maggio spuntava appena dall’alto della selva
Cimina, oggi Monte di Viterbo; quando per la via montana che la accavalla
s’internavano nella selva dodici individui, avviluppati nei loro mantelli.
Procedevano tutti in silenzio, ma quando furono su di un poggio,
che domina parte della foresta, Attilio disse:
«Qui, in questa selva, si rifugiarono gli ultimi avanzi
dell’indipendenza Etrusca, battuti e perseguitati dai padri nostri, i Romani, e
qui in un’ultima battaglia sparì dal novero delle genti italiche il più antico,
il più celebre ed il più civile dei popoli della penisola».
Il capitano Goulard, che sapeva abbastanza d’italiano per capire
il discorso d’Attilio e che credette fosse a lui indirizzato: «Credo che non
lungi di qui, - soggiunse -; i miei antenati Galli dessero delle famose
sconfitte ai vostri padri Romani e senza le oche, a cui si raccomandarono,
sarebbero scomparsi allora dalla terra».
Attilio, stizzito, ma con calma, rispose: «Quando i vostri
antenati camminavano su quattro gambe per le foreste della Gallia i nostri
padri, i Romani, li trassero fuori, li piantarono su due piedi, e dissero loro:
«siate uomini! a loro dovete la vostra civiltà moderna e la poca gratitudine
verso di essi...».
«Che mi parlate di gratitudine? - intervenne il legittimista. -
Dovreste ricordarvi, che senza la Francia, questa vostra Italia una non sarebbe
esistita mai e poca gratitudine dimostrate voi per tanti generosi francesi, che
han seminato le loro ossa sui piani della Lombardia».
«Oh! - ripigliò Attilio con veemenza. - Noi sappiamo distinguere
la Francia generosa, ed i suoi prodi, pronti sempre a spargere il loro sangue
per la libertà del mondo, dalla Francia Napoleonica che si è fatta
propugnatrice del dispotismo dovunque, conculcando le giuste aspirazioni dei
popoli». Ma soggiunse poi dopo un istante di pausa: «del resto noi siamo venuti
per combattere e non per disputare».
Il luogo che i dodici avevano raggiunto era uno di quei prati
ameni che natura si compiace lasciare senza ingombro d’alberi nelle foreste e
che sembra di nascosto compiacersi ad ornare con prodigalità di tutto lo
sfolgorante suo lusso. Quel prato incantevole doveva servire a scene di furore,
ed essere imbrattato di sangue.
Il sito era scelto, misurate le distanze, i sei padrini
sgombrarono dal centro, dopo aver gettato un’occhiata agli antagonisti; pronti
a corrersi addosso. Il primo e il secondo segnale erano dati e si aspettava con
ansia il terzo quando uno squillo di tromba che suonava la carica si fece udire
improvviso dalla stessa via percorsa dai duellanti. Quasi simultaneamente si
vide una compagnia di soldati stranieri del papa seguiti dal delegato Sempronio
ed alcuni de’ suoi fidi ribaldi avanzarsi sul luogo della pugna.
Qui conviene confessare che, quantunque mercenarii, gli ufficiali
stranieri parvero mortificati e quasi sul punto di prender parte alla difesa
dei loro avversarii. Certo poi li avrebbero consigliati ed aiutati a mettersi
in salvo, se la truppa guidata dal delegato avesse dato tempo a riflessioni e
non fosse venuta caricando impetuosamente alla baionetta la parte italiana.
Contro gente comune, quella carica sarebbe stata decisiva e una
fuga precipitosa, se fosse stato possibile fuggire, ne sarebbe stato il
risultato inevitabile; ma i nostri romani erano tali da sostenere qualunque
assalto per ineguale che fosse il numero. Al primo squillo essi gettarono un
colpo d’occhio sugli avversarii, e riscontrarono con soddisfazione che non eran
complici della sorpresa. Poi, facendo fronte agli assalitori, si ritirarono in
ordine, senza precipitazione, senza sgomento, verso la selva, col revolver
alla mano.
La truppa, giunta sul luogo, vedendo che tra la gente che era
venuta per assalire c’erano dei suoi ufficiali rimase perplessa senza sapersi
che fare. Ma Sempronio che era prudentemente rimasto indietro, vedendo
l’inutile risultato di ciò che chiamava il suo piano di battaglia, inferocì,
gridando a tutta gola: «fuoco! fuoco! da quella parte! da quella parte!»
segnando a dito i suoi concittadini del cui sangue aveva sete, e che vedea
lentamente ritirarsi verso la foresta e raggiuntala far fronte alla truppa.
I soldati, come abbian detto, esitarono un momento; ma i birri che
accompagnavano il delegato fecero fuoco sugli italiani, i quali sebbene fossero
coperti dalle prime piante del bosco ebbero due padrini feriti, ma leggermente.
Il revolver d’Attilio fece immediata vendetta dei compagni feriti e la
sua palla andò diritta al naso di Don Sempronio (poiché egli era un prete,
vestito da birro) e gliene portò via una metà.
Fu quello un colpo da maestro; perché Sempronio con grida e
lamenti che destavano le beffe, non la compassione negli astanti se la diede a
gambe verso Viterbo lasciando ad altri l’esecuzione del suo famoso piano di
battaglia.
Non tutti gli ufficiali stranieri erano vergognosi della brutta
figura che facevano in questa circostanza: parendo evidente, che per paura di
scontrarsi sul terreno cogli italiani, essi avessero preparato la sorpresa
della truppa. La sorpresa era dovuta ad un maneggio del delegato di polizia che
dalle sue spie, aveva conosciuta la presenza dei tre capi proscritti ed avea
preso le sue misure per assicurarne la cattura, sperando con questo di meritarsi
un berretto di cardinale.
Ma, come dicemmo, non tutti gli ufficiali erano scrupolosi come i
sei duellisti (e non lo era certo il capitano Tortiglia, comandante la
compagnia di spedizione, carlista sfegatato). Allettato da un’impresa che
credeva facile, contro pochi proscritti, si accinse ad inseguirli nel bosco col
maggiore accanimento.
Fin che durarono le cariche, i nostri amici che avevano pregato i
due feriti d’inselvarsi, tennero testa agli assalitori; ma scarichi i revolver,
furono obbligati a ritirarsi davanti ai soldati, che il comandante eccitava,
spingeva, trascinava alla difficile impresa. Il capitano Tortiglia ripetendo ad
ogni istante dei «Voto a Dios! e dei Caramba!»61
continuava tenacemente l’inseguimento e giurava impadronirsi di quei malviventi,
cattura che sperava gli avesse a fruttare non piccola onorificenza dal governo
dei preti. Però, Orazio, si ricordò che aveva seco l’inseparabile corno, lo
trasse fuori e cominciò a ripetere alcune note che già udimmo al suo arrivo al
castello di Lucullo. Non appena aveva egli cessato di suonare, che da ogni
parte della selva s’udì un fracasso come di torrente che si fa strada fra i
diruppi e le piante a precipizio.
Erano i compagni di Orazio e parte dei trecento che riuniti nella
selva Ciminia dopo i fatti accaduti nella campagna di Roma stavano in attesa
dei loro Capi, allontanatisi per alcuni giorni con missioni importanti.
Chi precedeva la banda or giunta sulla scena d’azione e la
capitanava erano, niente meno che Clelia e Irene, or nuove amazzoni in cerca
della pugna. Al loro fianco stava l’intrepido John, bramoso di menar le mani in
sì bella compagnia.
I proscritti non fecero fuoco, ma, innestate le baionette alla
punta delle loro carabine, cacciarono i mercenarii stranieri al grido di Viva
l’Italia! spingendoli rovinosamente dinanzi a sé, con furia uguale a quella
di montano torrente che seco travolge ciotoli e rottami. I soldati impauriti
dall’irrompente tempesta, se la diedero a gambe, non curando le minacce e le
sciabolate dei loro ufficiali, che invano cercavano di trattenerli.
Il capitano Tortiglia non mancava di coraggio e poiché s’era
spinto alla testa de’ suoi era ora rimasto l’ultimo. Convien dire puranco ad
onor suo ch’egli era mortificato e sdegnoso di fuggire correndo, quando fu
raggiunto da Attilio, il quale gli intimò la resa.
Tortiglia, gridò, morrebbe prima di arrendersi, onde l’italiano
allora attortigliatosi il mantello al braccio sinistro, allontanò con quello la
spada del capitano e gli si avventò addosso col pugnale nella destra. Lo
spagnuolo, che era piccolo di statura ma agile e svelto, lottò, dimenossi per
un pezzo; ma l’artista lo sollevò da terra e stizzito dalia resistenza di quel
fantoccio che ei non voleva uccidere lo gettò con impeto contro il suolo, come
fosse un sacco di stracci. Fu ventura per Tortiglia che il suolo era erboso se
no, l’arte d’Esculapio non sarebbe bastata ad accomodargli le ossa
sconquassate.
Non oltre il limitare della selva i proscritti perseguirono la
truppa, salutandola con alcuni tiri per toglierle la voglia di voltarsi
indietro, poi, medicati alcuni feriti d’ambo le parti, inviati a Viterbo sotto
la scorta dei soldati prigionieri, gli stranieri feriti, internarono nella
selva i propri. Il capitano Tortiglia trattennero solo, più per ostaggio che come
prigioniero.
Clelia e Irene furono festeggiate da tutti per la loro bravura e
Muzio, dopo avere baciato loro la mano con affetto, manifestò la propria
riconoscenza ed i propri sentimenti in questa guisa: «Coraggiose e degne figlie
di Roma, siate benedette per l’esempio che avete dato non a questi prodi
compagni che non ne abbisognano, ma agli infingardi d’Italia che aspettano la
manna dal cielo e dai nemici la loro libertà. Essi non si vergognano di piegare
dinanzi alle esigenze di un tiranno straniero, di rinnegare la loro Roma,
Metropoli naturale d’Italia, votata Capitale dal Parlamento, e voluta dalla
Nazione; e non si vergognano di lasciarvi quel pandemonio di preti, flagello ed
onta del genere umano.
Alle donne! sì alle donne toccherà di lavare tanta vergogna,
giacché gli uomini non ne sono capaci».
Era giunto Muzio a questo punto del veemente suo discorso in onore
del bel sesso, quando un’apparizione di donna, come discesa dal cielo, col
volto e col portamento di un angelo, apparve agli occhi suoi sul sentiero di
Viterbo e a quella vista tutta l’eloquenza del giovane romano svanì ed egli
rimase come una statua contemplando l’adorata sovrana del suo cuore.
Ma la stupefazione di Muzio, fu meno osservata della corsa
precipitosa di John verso la bella sua padrona. Questi, lasciata andare per
terra la sua preziosa carabina, che non avrebbe abbandonata per tutto l’oro del
mondo in altra circostanza, correndo e saltando, in un istante raggiunse
Giulia, le prese la mano, la coprì di baci e lagrime di gioia si videro
sgorgare dai suoi occhi. Poverino! In quella carissima donna si riassumevano
per lui mille affetti e ricordi di famiglia, d’amici e di patria!
Giulia amorevolmente baciò in fronte il giovane inglese, poi
Clelia e Silvia l’abbracciarono con singolare espansione, e la presentarono ad
Irene di cui Giulia non ignorava la romantica storia e tanto desiderava di
conoscerne l’eroina.
I prodi militi della libertà di Roma, obbliando un momento la
disciplina, si affollarono intorno alla bellissima figlia d’Albione e se non la
coprirono di carezze almeno poterono bearsi nella sua contemplazione.
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