CAPITOLO XLVIII
LA CENA CAMPESTRE
Chi è che non parteggia per la civiltà in confronto del barbarismo
e della vita selvaggia? Chi non preferisce gli agi di una buona casa, fresca di
state ben riscaldata d’inverno, con ogni comodo e buone vivande, un po’ di
superfluo alle intemperie della campagna, ai disagi e alle privazioni?
Quando si pensa: essere sì pochi coloro che godono o per meglio
dire monopolizzano i benefici della società incivilita e che tanti sono i
sofferenti, non si può fare a meno di dubitare: se veramente la classe povera
ritrae molto profitto dalla civiltà presente. Egli è lecito chiedersi ancora,
se essa può qualche volta, questa classe che pure è la maggioranza, desiderare
la condizione selvaggia dei primitivi abitatori della terra tra i quali se non
v’eran palazzi e cuochi, e mode, ed abiti e vivande raffinate. Non v’eran
preti, birri, prefetti, esattori di tasse; non v’eran carichi insopportabili di
balzelli e d’imposte, non vi prendevan i figli a servire i capricci di un
despota, più o meno mascherato da liberale, col pomposo pretesto di servire la
patria e di lavar le macchie delle bandiere non contaminate!
Comunque sia, una cena frugale nella foresta sulla magnifica
verdura, non ancora calpestata dal piede profano e desolatore dell’uomo, seduti
sui tronchi delle vecchie piante che, più del sedile, vi danno un fuoco
stupendo e vivificatore, accanto poi a creature, come Clelia, Giulia ed Irene;
oh! per Dio! io sono per una cena nella foresta s’anco non mi presentasse altro
che frutta e caccia come qualche volta ho veduto.
Ma quella sera li c’era ben altro. Gasparo, comandante del
bagaglio, e John - che ambi s’occupavano della somministrazione dei viveri -
giunsero in mezzo al crocchio dei capi con una cesta ben fornita, tagliarono
dei freschi ramoscelli che distesero sulle zolle verdeggianti, e vi sparsero
delle vivande fredde che avrebbero fatto gola ad un Lucullo.
Alcuni fiaschi di Montepulciano e d’Orvieto fincheggiavano le
vivande che condite dall’appetito, di cui erano dotati i proscritti dopo una
giornata laboriosa, sparivano con una celerità sorprendente.
Giulia era in estasi! Essa per la prima volta divideva quella
scena campestre in mezzo a quei cari e simpatici compagni che erano il bello
ideale della sua immaginazione romantica e cavalieresca. Lì era il suo Muzio,
che ella aveva indovinato sotto le vesti del mendico, che mendico essa avea
amato ed ora trovava il discendente d’una nobilissima famiglia e forse il più
ricco erede di Roma.
Quel sentimento dell’anima che la ravvicina come per elettrico
influsso all’anima amata, innamorata! che attrae come calamità, teneva Muzio
accanto alla donna del suo cuore e la custodiva e la provvedeva d’ogni cosa
gradita e la beava con quello sguardo che invano l’arte cerca d’imitare e non
può essere descritto che da chi ama con amore squisito, celeste, insuperabile.
Giulia trovava nuovo diletto in udire nella sua bella lingua la
conversazione di Clelia e d’Irene col loro beniamino John, sempre gioviale ed
interessante. Vedendo l’amica star sospesa ai loro discorsi, stuzzicarono a
raccontare gli episodi della sua giovine vita di mare: le tempeste, i pericoli
trascorsi, massime nel suo lungo viaggio nelle Indie ed in China che egli aveva
cominciato a cinque anni.
La descrizione di John, degli uomini in China che fanno ogni
servizio di donna in casa, mentre le mogli vanno in barca remando e portando in
un panno dietro le spalle i bambini, faceva ridere smodatamente le belle
interlocutrici e tutta la comitiva quando la traduzione ne veniva fatta da una
di esse.
«La nautica professione è quella a cui il mio paese deve la sua
grandezza - diceva Giulia - ed i miei concittadini l’apprezzano sopra ogni
altra e l’onorano. Là, non solo nei paesi del littorale marittimo vi si fanno
continue esercitazioni della gioventù, remando, addestrandosi e pericolando, ma
anche nei paesi interni dell’isola, ovunque ci sia un fiume o un lago. Di lì
quel semenzaio di uomini di mare che son pervenuti a signoreggiare gli Oceani.
Io ho veduto, in Francia ed in Italia, i giovani destinati a divenire ufficiali
di marina, passar la miglior parte della gioventù alle scuole tecniche in
terra, e giungere poi a bordo oltre l’età di quindici o diciotto anni. A
quell’età lo stomaco non si fa più al mare, i giovani ne soffrono le nausee e
sono disprezzati dai marinai.
In Inghilterra la cosa è diversa. La gioventù destinata al mare,
va a bordo all’età di cinque anni e vi fa lunghissimi viaggi, compie i suoi
studi a bordo e dà al suo paese la prima ufficialità del mondo. I ricchi non
ammassano moneta per contemplarla64, ma la impiegano e pochi ve ne sono
che non possiedano qualche barca grande o piccola per darsi all’esercizio di
un’arte che fa la gloria e la prosperità del paese.
In Italia voi avete marinai non secondi ai migliori di qualunque
nazione ma vi mancano gli ufficiali che stieno al paragone. Aveste sempre
ministri di marina che non s’intendono di mare, e quindi incapaci di stimolare
una professione che può fare dell’Italia una delle più importanti e prospere
nazioni dell’orbe».
L’argomento trattato da Giulia era un po’ estraneo ai nostri
Romani ignari delle cose di mare, essendoché i loro istitutori-preti, avendo
trovato pesante il remo e le reti degli apostoli, s’eran piuttosto dati al buon
tempo delle gozzoviglie per la maggior gloria di Dio.
«Anche Gasparo, il valoroso principe dei banditi, potrà contarci
qualche cosa della sua vita avventurosa», disse Orazio: ed il vecchio che forse
ruminava qualche reminiscenza della sua vita passata rispose: «Avventure di
mare io non potrei contarne veramente, perché pochissimo vi sono andato ma in
terra ne ho passata la mia parte e se non vi dà noia l’udirmi vi racconterò
cose da far rabbrividire».
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