CAPITOLO LI
L’INSEGUIMENTO
Dio ebbe proprio a decidere così delle cose umane, che la somma
delle grandezze dovesse venir ridotta al più basso delle umiliazioni. Così
quella ciurmaglia che si chiama esercito romano doveva tenere il posto,
e il nome e calpestare il terreno dove un giorno il vero ROMANO ESERCITO dominò
il mondo conosciuto. Solo il prete, lo ripeto, potè produrre tale mostruosa
trasformazione.
Il generale romano, cioè straniero, al servizio del papa, giunto
in Viterbo con quante forze aveva potuto raccogliere, chiamò a consiglio nel
palazzo municipale gli ufficiali superiori del suo esercito pigmeo. Tra questi
ultimi si trovava un maggiore, col naso enfiato, come un cocomero e coperto di
striscie di cerotto. Era il famoso pugno con cui il nostro Silvio lo aveva
capovolto tra le ruote della carrozza.
Costui, col volto infiammato dal vino di cui egli aveva bevuto
copiosamente per coprire la sua vergogna, consigliava di marciare subito
all’assalto dei briganti. Ma il generale più pacato opinò, che meglio
sarebbe stato, muovere all’alba non essendo sicuro a quell’ora tarda di poter
raccogliere i soldati, quasi tutti ubbriachi. Dopo alcune discussioni, si
deliberò di seguire il parere del capo.
All’alba i campioni dell’altare e del trono suonarono a raccolta,
ma ci vuol altro per mettere insieme quei coraggiosi adoratori del fiasco
italiano, una parte stanchi dalla marcia forzata da Roma a Viterbo e della
vergognosa scappata degli altri dal Ciminio.
Il sole già si presentava sulle vette dell’Appennino, quando
l’esercito principiò le sue mosse complicate al solito di combinazioni
difficili ad eseguirsi in una selva montuosa ove il capo ignorante era
obbligato di servirsi di guide indigene che mal volentieri lo servivano.
I proscritti all’incontro, praticissimi, s’eran mossi all’alba e
quando il sole spuntava, già dominavano il vertice del monte e potevan di là
scoprire il nemico da qualunque parte si fosse avvicinato.
Orazio, cui nessuno contendeva il comando, aveva disteso circa
cento dei suoi, comandati da Muzio in bersaglieri, tra i massi ed il bosco che
dominavano il monte dalla parte ove si vedeva il nemico avanzare. Il resto,
circa dugento, era in colonna dietro lo stesso vertice, pronti a caricare al
primo cenno.
Avendo così disposto i suoi trecento, il capo fece chiamare a sé
il capitano Tortiglia, e gli chiese degli Ufficiali che conducevano la colonna
nemica e che si vedevano ascendere il monte, benché ancora lontani. «Chi
comanda la vanguardia - disse Tortiglia - e viene avanti risolutamente è il
maggiore Rascal, coraggioso ufficiale, ma un Rodomonte di prima categoria».
«Oh! se non m’inganno, - disse Silvio, che aveva puntato il
binoccolo, - quegli è lo stesso che voleva ieri farsi portare il bagaglio da
me; lo riconosco al suo naso impiastricciato di cerotti».
«E quell’altro? - dimandò Orazio - che viene a cavallo alla testa
credo del corpo principale?».
«Prestatemi il binoccolo, - disse Tortiglia, e dopo averlo puntato
sull’individuo accennato: - Oh per Dio! - egli esclama, - quegli è proprio il
Generale in Capo dell’Esercito; e vedete che spunta anche il suo stato maggiore
a cavallo».
«Ed il suo nome?».
«Il suo nome, è Conte de la Roche... de la Roche-Haricot. Questi
legittimisti francesi, rappresentanti del feudalismo, hanno certi nomi, quasi
tutti di Roche e che per noi della lingua del sì sono ben difficili a
pronunciarsi».
«Ma anche voi siete della lingua del sì signor spagnuolo?» gli
disse Orazio un po’ stizzito.
«I Como nò, - articolò in spagnolo il capitano - siete
forse voi soli figli degli antichi latini e soli possessori di quella
universale lingua? sappiate che v’è tanta differenza tra la lingua italiana e
la spagnuola e portoghese quanta tra il volto di un Calabrese e quello di un
Andaluso o d’un Lusitano, che si somigliano come fratelli».
«Bravo capitano Tortiglia» disse Attilio giunto in quel momento
dal corpo di battaglia che comandava. «Voi siete un vero erudito, e noi Romani
educati dai preti a baciamani, a inginocchiarci, e servire la messa, nulla
sappiamo di ciò che avviene fuori dalle mura di Roma».
Ma l’esercito papale avanzava ed Orazio da esperto capitano ne
misurava il progresso, senza turbarsi ma con quell’ansia che non può a meno di
risentire chi ha la responsabilità di un corpo di militi in presenza del nemico
ed in procinto di venire alle mani. Uno degli inconvenienti della guerra per
bande e che più preoccupa il capo è il dover spesso abbandonare i feriti, o
affidarli agli abitanti per lo più paurosi e che temono di compromettersi.
Tale considerazione e l’ineguaglianza delle forze spinsero il
prode Orazio a decidersi per la ritirata, non però senza mostrare ai mercenari
del prete che i liberi italiani non li temono, anche nelle circostanze più
sfavorevoli.
Ordinò a Silvio, che comandava la retroguardia, di collocarsi in
posizione vantaggiosa per proteggere la ritirata ed il cacciatore, colla
sagacia che lo distingueva, collocò i suoi cinquanta uomini con tale maestria
come se li avesse destinati alla posta del cervo o del cignale.
Avendo comunicate tali disposizioni ad Attilio ed ingiuntogli che
non s’impegnasse fortemente ma eseguisse l’ordine di ritirata in scaglioni,
Orazio andò verso Muzio già pronto a ricevere il nemico che si avvicinava
celeramente.
Scambiate alcune parole col comandante della squadra, il capo
supremo ascese il punto più alto della posizione donde poteva distinguere ogni
cosa accompagnato da soli due aiutanti.
Il Generale Haricot, che non mancava di una certa bravura, degna
di miglior causa, assaliva francamente le posizioni dei liberali colla sua
vanguardia in catena, sostenendola lui stesso con piccole colonne in massa.
In un combattimento od in una battaglia, il comandante supremo
deve collocarsi in posizione da poter vedere il campo di battaglia più che sia
possibile, il che gli verrà sempre fatto più facilmente, ove egli possa tenersi
tra le sue prime truppe impegnate.
Dovendo avere informazioni di quanto accade nella pugna, se il
generale in capo è lontano dall’azione ha il pregiudizio della perdita di
tempo, dell’inesattezza dei rapporti e ciò che più importa, non può con un
colpo d’occhio discernere le parti del suo esercito che abbisognano di un
pronto soccorso o, quando sia vittorioso, lanciare in perseguimento del nemico
quei corpi leggeri di cavalleria e fanteria che possono compiere la vittoria.
Tale non fu qui il torto dei due capi, che comandavano le forze
opposte. Haricot, giustamente baldanzoso per la superiorità delle sue forze, le
spingeva all’attacco senza riguardo ed Orazio, deciso a ritirarsi per
l’inferiorità del numero, disponevasi a dare al nemico una lezione che lo
facesse guardingo e meno furioso nel suo inseguimento.
La scabrosità del terreno e le folte piante avevano permesso a
Muzio di collocare i suoi al coperto in vantaggiosa posizione. Egli aveva
ordinato d’assaltare il nemico a bruciapelo, di scaricare a colpo sicuro e
ritirarsi poscia dietro la linea degli altri scaglionati. Così fecero i suoi
valorosi. Quella prima scarica seminò il terreno di cadaveri nemici e di
feriti. La vanguardia dei mercenari ne fu rovesciata ed i sostegni condotti
avanti dall’intrepido loro capo, rallentarono il loro progresso e diedero tempo
agli italiani di compiere la loro ritirata in buon ordine.
Quando Cortez sbarcato al Messico abbruciò le navi, quando i mille
di Marsala sbarcando in Sicilia abbandonarono i loro piroscafi al nemico, si
tolsero ogni speranza di ritirata e tale risoluzione fruttò il contegno trepido
delle due spedizioni. Ma la vicinanza di frontiere amiche è stata spesso causa
di defezione nelle fazioni degli italiani. Io ho veduto tale scandalo in
Lombardia nel 1848 per la vicinanze della Svizzera e disgraziatamente nell’agro
romano per essere il territorio regio troppo vicino.
Così successe al corpo dei trecento, nelle circostanze qui
raccontate. Benché composto d’uomini coraggiosi, si sciolse come la nebbia al
toccare la frontiera italiana non pontificia e dopo avere ricordato ai militi
che schiava ancora rimaneva la loro terra e che era dovere di tutti di prepararsi
a muover di nuovo pugna per liberarla, i soli quattro capi, che noi ben
conosciamo, con Gasparo e John, presero la via della Toscana per recarsi a
Livorno ove dovevano trovare lo Yacht e notizie dei loro cari e dove li
lasceremo godere un po’ di riposo per rivederli sovra nuove scene e in mezzo a
nuove avventure.
FINE DELLA PARTE PRIMA
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