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Giuseppe Garibaldi
Clelia ovvero Il governo dei preti

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  • PARTE SECONDA
    • CAPITOLO LVI   DECRETO DI MORTE
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CAPITOLO LVI

 

DECRETO DI MORTE

 

Passiamo presto, e sulla punta

dei piedi quel mucchio di limo

e di sangue che si chiama Popolo.

(Guerrazzi)

 

Non è molto tempo trascorso che l’idra sacerdotale del Vaticano innalzava i suoi roghi nei chiostri della capitale del mondo cattolico ed all’aria aperta tra parecchie delle infelici nazioni che avevano la disgrazia d’essere ammorbate dalle sue dottrine come ad esempio la Spagna. Nei tempi moderni codesti errori non si tollerano più, ma l’idra dalle mille teste satolla ancora le sue libidini di sangue in molte altre guise: ferro, veleno, brigantaggi ed assassinii d’ogni specie.

Nella Curia romana una sentenza di morte, era stata pronunziata contro il principe T., fratello della nostra Irene, e Cencio con otto sicari della santa sede a’ suoi ordini, doveva eseguire l’atroce mandato, profittando della confusione in cui si troverebbe Venezia all’arrivo del solitario.

Gli otto complici dell’ex-liberale erano in parte stati appostati nei dintorni dell’Albergo Vittoria, in tutti gli sbocchi da dove poteva capitare la vittima. Quattro di loro tenevansi in agguato in una gondola ben pagata, con istruzione segreta, di sbarazzarsi anche del gondoliere a cose finite per non avere indiscreti testimoni, che potessero deporre contro di loro. Cencio, si era riserbato, non l’azione principale dell’omicidio ma quella del segugio che si doveva tenere ostinatamente sulle calcagna del principe. Per fortuna del nobile romano la cabala fallì perché il segugio era stato tolto dalla pesta e non solo si trovava al sicuro nelle ugne dei tre amici ma doveva fare i suoi conti anche con un quarto personaggio che valeva ciascuno dei primi e questo quarto era niente meno che il nostro vecchio e ben noto Gasparo.

Gasparo, dopo i fatti da noi raccontati nei capitoli precedenti, toccato il suolo non pontificio, s’era offerto a servire da domestico il principe T., che ben volentieri lo prese seco. Con lui venne a Venezia e mentre il padrone s’intratteneva nei saloni del palazzo Zecchin, il poco paziente domestico, che s’era fermato sull’ingresso del palazzo a godersi le scene del popolo festante, vedendo i tre romani, che amava come figli fendere la folla con tanta precipitazione volle seguirli e così anche lui si trovò all’osteria sulla Riva degli Schiavoni alle calcagna di Cencio.

Descrivere lo stupore e la paura del mercurio clericale in mezzo ai quattro è cosa ben difficile. Essi Io condussero nella stanza più recondita dell’osteria in un piano superiore, dissero al cameriere che portasse loro da bere, e poi li lasciasse perché dovevano trattare d’affari, chiusero l’uscio a chiave, ordinarono allo sgherro di sedersi contro il muro, presero posto su di una panca collocata al di qua della tavola e cogli occhi fissi sul malvivente rimasero in attitudine di giudici inesorabili.

In altre circostanze forse il malandrino avrà sentito rimorsi, e si sarà pentito de’ suoi tradimenti ma in questa vi assicuro che egli ne avea ben d’onde.

I quattro amici, freddi e tranquilli, come chi ha la coscienza della forza e dell’anima intemerata, contentavasi di fissare i loro occhi in quelli del perverso e questi fuori di sé, colla bocca e gli occhi spalancati sforzavasi di articolare delle voci che non volevano uscirgli dalla strozza, riuscendo penosamente a balbettare: «signori... io non...» ed altre parole mozze.

Fu un po’ barbara la tranquilla pacatezza dei quattro romani e chi avesse potuto contemplare quella scena certo coll’immaginazione sarebbe corso al paragone del sorcio sotto l’inesorabile sguardo del gatto, che ne spia ogni minimo movimento, per lanciarvisi sopra e stritolarne le ossa sotto i denti. Se un pittore avesse potuto trovarsi presente a quel muto consesso ne avrebbe tolto il soggetto di un bellissimo quadro.

Già abbiamo descritto i primi tre, veri tipi degli antichi romani, di bellezza, di forme veramente artistiche.

Gasparo era, e con ragione, una di quelle figure che un romanziere francese avrebbe pagato a peso d’oro per poterne fare il suo «Brigant Italien» e fotografato da Bernieri69 il suo ritratto, avrebbe prodotto assai maggior lucro all’artista, che quello di qualunque sovrano d’Europa.

Era veramente una gran bella figura di brigante quel vecchio Gasparo, ma di buon brigante, di quelli che l’hanno a morte coi birri, ma che non si macchiano con azioni infami come quei mostri assoldati dai preti che commettono eccessi da far inorridire una tigre.

Anche il successore di Gianni, avrebbe fatto un’idonea comparsa in un quadro caratteristico e certo per rappresentarne la paura in tutta la sua bruttezza, nessuno avrebbe potuto servir meglio di lui. Inchiodato al muro cui appoggiava le spalle egli lo avrebbe rovesciato, forato, se la forza fosse stata pari alla volontà, coll’intento di potersi allontanare un po’ più da quei quattro tremendi osservatori davanti a lui, fissi, impassibili, e che pure meditavano la sua rovina, forse il suo esterminio.

La voce austera di Muzio, dell’antico capo della contropolizia di Roma, fu la prima che s’udì rompere quel sepolcrale silenzio. «Dunque: - disse egli - io ti voglio contare una storia o Cencio, forse da te conosciuta come Romano, e che imparerai se per caso non la conosci; sta attento:

Un giorno i nostri padri, stanchi delle prepotenze del primo re di Roma che fra le altre amabili imprese, aveva ucciso con un pugno il fratello Remo perché si divertiva per scherzo a saltare il fosso di cinta fatto da Romolo, i nostri padri dico, in un senato consulto decisero di sbarazzarsi del loro re, un po’ troppo manesco e con disposizioni un po’ troppo dispotiche. Detto fatto! gli saltano addosso colle daghe sguainate e Romolo, benché valorosissimo, dovette cadere sotto i loro colpi. L’affare era fatto, ma al popolo romano alquanto innamorato del suo re guerriero, per non avere de1 guai, bisognava contare qualche fandonia su quella morte e l’avviso d’un vecchio senatore prevalse su quello degli altri sul da farsi.

- Noi conteremo al popolo - disse il vecchio: - che Marte padre di Romolo disceso tra noi, dopo averci rimproverato d’essere un po’ troppo ladri e quindi indegni d’aver a capo il figlio di un Dio, se l’ha preso seco e trasportato in cielo.

- E cosa faremo del corpo? - soggiunsero più voci di senatori.

- Del corpo? - disse il vecchio. - Niente di più facile che provvedervi - e sguainando la sua daga cominciò a tagliare a pezzi il cadavere. Quando ebbe terminata tale anatomia - ognun di voi, ora - disse - prenda uno di questi pezzi, lo nasconda sotto la toga e vada a gettarlo nel Tevere. Prima di domattina, i mostri marini avranno dato degna sepoltura a questi avanzi del fondatore di Roma.

Che te ne pare, Cencio? Senza essere re di Roma, né figlio di Dio, una morte cotale non ti parrebbe onorevole? per te che altro non sei che un miserabile traditore?».

«Per l’amor di Dio!...» gridò il satellite esterrefatto e piangente come un fanciullo e le lacrime per un pezzo gli soffocarono la voce. Alla fine alquanto sollevato dallo stesso pianto, ripigliò: «Io farò quanto mi chiederete, ma per l’amore che portate ai vostri amici, alle vostre donne, alle vostre madri, non mi fate soffrire una morte così crudele!».

«Parli di morte crudele!? Ma per uno sgherro, una spia, un traditore c’è forse morte troppo crudelerispondeva Muzio con quella impassibilità che Io distingueva. «Hai forse scordato quando vendevi la gioventù romana ai preti che poco mancò non la facessi crudelmente trucidare tutta dai loro carnefici?».

Nuovo pianto! nuovo pianto ancora scorreva dagli occhi del codardo.

Muzio: «Ora poi, la tua venuta a Venezia, bel soggetto! cosa significa? Chi t’ha inviato? A che sei venuto qui, perverso?».

«Vi racconterò tutto» era la risposta del malandrino. E l’altro: «Conterai tutto, vedremo! e nulla ti resti in fondo di quel sacco di malizie e di tradimenti che tieni al posto della coscienza».

«Tutto! tutto!» gridava Cencio come un energumeno. E come dimentico di quanto doveva narrare e sopraffatto ancora da immensa paura non sapeva da dove cominciare.

«Saresti più lesto nelle tue delazioni al Sant’Ufficio, boccone da forca», sussurrava Gasparo, col suo vocione. «Avanti!» esclamarono Orazio ed Attilio, rimasti pazientemente silenziosi sino a quel punto.

Un momento d’assoluto silenzio seguì quel primo atto un po’ tempestoso, e Cencio principiava a narrare così: «Se vi è cara la vita del principe T....». «Del principe T.? il fratello d’Irene», sclamò Orazio varcando d’un salto la tavola ed afferrando il traditore per la gola!

Cencio, tra l’ugne di una tigre o tra gli abbracciamenti del re delle foreste avrebbe corso meno pericolo che non tra le mani del principe della campagna di Roma, che l’aveva agguantato al collo. Ma Attilio, con modo gentile: «Fratello, - disse ad Orazio, - abbi pazienza, lasciamolo parlare».

Veramente spacciato Cencio, addio rivelazioni. Ciò era chiaro come il sole, onde la suggestione del capo dei trecento di Roma fu capita da Orazio e sciolse dalla gola di Cencio le sue mani frementi.

«Se vi è cara la vita del principe T. - ripigliava il malvagio - andiamo insieme a farlo avvisato che un agguato di otto emissari del Sant’Ufficio lo apposta nei dintorni dell’Albergo Vittoria, ove egli sta d’alloggio».

 

 

 




69 Bernieri, Maggiore e fotografo a Torino.






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