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Giuseppe Garibaldi
Clelia ovvero Il governo dei preti

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  • PARTE SECONDA
    • CAPITOLO LVII   MORTE AI PRETI
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CAPITOLO LVII

 

MORTE AI PRETI

 

Morte ai preti! Morte a nessuno! gridava il solitario dall’alto del balcone alle moltitudini rispondendo alla terribile loro esclamazione!

Morte a nessuno! «Eppure, chi è più meritevole di morte che la setta malvagia la quale ha fatto dell’Italia un paese di morti70, un cimitero? O Beccaria! le tue dottrine sono sante! io ripugno dal sangue! ma non so se l’Italia potrà liberarsi da’ suoi tiranni dell’anima e del corpo senza distruggerne, senza annientarne sino l’ultimo rampollo!».

Queste considerazioni passavano per la mente dell’uomo del popolo e lo distraevano.

Frattanto quella parte di popolo che non avea potuto udire la voce che partiva dal balcone Zecchin ma solo il grido di morte che mille infocate voci avevano esclamato, quella parte di popolo dico, più distante dal solitario, ma più vicina al palazzo principesco del Patriarca, s’avanzava come l’onda d’un torrente che precipita dalle montagne ed assaltava il vestibolo del palazzo suddetto rovesciando quanti ostacoli si opponevano alla sua furia.

In pochi minuti ogni salone, ogni stanza del maestoso palazzo erano invasi e per le finestre si vedevano svolazzare tutti que’ simulacri d’idolatria con cui i pretispudoratamente beffeggiano le ingannate moltitudini.

Molti artisti innamorati del bello avrebbero potuto gridare allo scandalo, al sacrilegio! in quel rovinìo d’ogni oggetto d’arte e per vero dei ben preziosi capolavori sotto forme di santi o di madonne andaron travolti ed in pezzi nel generale esterminio.

Tra le astuzie dei sardanapali pretini, ricchissimi com’eran furon sempre mercé la stupidità dei fedeli, non ultima fu quella d’impiegare gli artisti più eminenti nell’illustrazione delle loro favole. Quindi i Michelangeli ed i Raffaelli d’ogni età, furon da loro assoldati ed il popolo anche persuaso della vanità delle proprie credenze, e dell’impostura dei leviti di Roma rispetta ancora i simulacri della sua prostituzione perché sono capi d’opera di molto pregio.

Ma il primo capo d’opera d’un popolo non è la libertà? non è la dignità nazionale? E tutti quei portenti dell’arte, benché portenti che gli rammentano il suo servaggio e la sua degradazione, oh!, non sarebbe meglio che ei li mandasse all’inferno?

Comunque fossero, opere preziose o volgari, il popolo rovesciava, e precipitava sul lastrico ogni cosa, e tutto mandava in frantumi.

Ed il Patriarca!? guai a lui se fosse caduto nelle mani della turba furente! Ma la pelle è cara ai discendenti degli Apostoli! ai campioni della fede! Essi edificarono veramente la loro baracca sul martirio degli antichi seguaci di Gesù e su quello del Nazzareno, ma di martirio questi grassi epuloni, non ne vogliono sapere nemmen per sogno!

L’Eminenza sua al primo ruggito della tempesta popolare, se l’era svignata e per un uscio segreto avea guadagnato una delle sue gondole e con essa si era posto al sicuro.

Intanto la voce del solitario che esclamava: «Morte a nessuno!» era ripetuta nella moltitudine e giungeva fino agli assalitori del Patriarcato. Quella voce amata e rispettata dal popolo, calmò il fremito delle turbe, ed in pochi momenti la tranquillità venne interamente ristabilita.

 

 

 




70 Lamartine.






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