CAPITOLO LIX
IL DUELLO
Il contadino non persegue la pernice nel folto delle boscaglie ma,
dopo avere coperto le acque delle fonti circostanti, l’aspetta a quella fonte
che unica lasciò scoperta e lì la caccia col vischio, colla rete o col piombo
micidiale in quell’ora che la povera innocente vi cerca rifugio e ristoro alla
sete.
Così nelle ore meridiane il bifolco aspetta imboscato i renitenti
al giogo da cui rifuggono.
Ed il corsaro, che invano si cercherebbe sugli immensi spazi
dell’Oceano, si aspetta al varco de’ suoi nascondigli, ove deve condurre le
prede, e là si cattura.
Analoga fu la risoluzione dei nostri quattro romani per rinvenire
il principe T. che inutilmente avevano cercato in ogni via. Dopo d’aver
riconosciuti e mandati a casa, col mezzo di Cencio i cagnotti del Sant’Ufficio
si posero loro in agguato nei dintorni dell’Albergo Vittoria aspettando
la comparsa del T. il quale verso mezzanotte arrivò, e fu seguito nella sua
stanza dagli amici suoi che gli palesarono la trama dei porporati ed ogni loro
scoperta.
Era troppo nobile d’animo il principe per mettere i suoi amici a
parte dell’imminente duello. Orazio specialmente il cui animo ardente ei
conosceva e che non avrebbe concesso ad altri la parte di secondo. Pure d’un
secondo egli abbisognava e profittando d’un momento di calda discussione tra
gli amici, con un’occhiata chiamò Attilio al balcone, e lo richiese di fermarsi
con lui per quella notte.
Orazio, Muzio e Gasparo si congedarono, ed Attilio rimase col
pretesto d’affari particolari.
Alla prima alba, un giovine in camicia rossa picchiava alla porta
della stanza N. 8 dell’Albergo Vittoria e presentava al principe T. un
cartello firmato Morosini espresso in questi termini: «Io accettai la vostra
sfida e vi sto aspettando alla porta dell’albergo nella mia gondola. Ho meco
delle armi ma se non vi convenissero, portate le vostre. I padrini stabiliranno
le condizioni del duello».
Alzatosi il principe e fatto chiamare Attilio lo presentò al
secondo di Morosini ed in pochi minuti le condizioni furono fissate.
Armi: pistole. Distanza: venti passi. Facoltà di marciarsi
incontro, sparando a volontà.
Il sito era dietro i murazzi, ove i contendenti potevano recarsi
subito, essendo tale il piacimento dello sfidato.
In verità se s’ha a morire od ammazzare è meglio si faccia subito
poiché anche alle anime più risolute tanto una cosa che l’altra ripugna e
quindi si desidera abbreviare il termine della decisione.
Cosa diavolo dirò del duello? Io fui sempre d’avviso che fosse
vergognoso il non potersi intendere senza uccidersi ma d’altra parte, tocca a
noi, iloti ancora dei prepotenti della terra, paria dell’Europa, a predicare la
pace individuale e generale? a noi, il perdono dell’oltraggio! a noi! così
oltraggiati da tutti! a noi cui è vietato di passeggiare sulla nostra terra!?
di fregiarci delle nostre glorie!? A noi calpestati nei nostri diritti, nella
nostra coscienza e nel nostro onore dalla più vile scoria della nazione
nostra!? A noi, che per vivere, per essere considerati, protetti, ci bisogna
prostituirci!? Via! non duelli quando saremo costituiti, ben governati e
godremo nei nostri diritti all’estero ed all’interno ma di fronte alla
prepotenza, all’arbitrio e al privilegio no! non si può patrocinare la pace.
Intanto vogano verso i murazzi le gondole che portano i
contendenti. Uscite da Malamocco costeggiano per un pezzo l’argine immenso costrutto
dalla Repubblica, contro le furie dell’Adriatico e sbarcano finalmente alla
spiaggia esterna e deserta che fuori dei murazzi è a secco quando gl’impetuosi
bora o scirocco stanno in riposo. Saltarono sulle sabbie, scelsero un sito a
proposito, e dopo aver misurato i venti passi i secondi porsero le pistole agli
avversari che si collocarono sui due segni marcati nell’arena. Attilio doveva
batter tre volte palma a palma ed alla terza i combattenti potevano avanzare e
far fuoco a volontà.
Già i due colpi eran battuti e le mani erano alzate per il terzo
segno quando una voce dal lido, ove si trovavano le gondole gridò: «Fermi!» ed
i quattro volgendo lo sguardo videro uno dei gondolieri, canuto e di aspetto
venerando, che si affrettava correndo verso di loro. «Fermi!» ripeteva ancora
il vecchio venendo avanti e non si fermò se non giunto che fu tra i due armati.
Allora cominciò con voce alquanto tremante ma maschia e sonora, tanto che
pareva incompatibile col mucchio d’anni indicato dalla sua canizie: «Fermi!
figli d’una stessa madre, l’atto che voi siete per compiere, macchierà l’uno
dei due col sangue d’un concittadino! Non potrebbe essere versato invece a prò
di questa terra infelice, cui tanto ancora resta a fare, per raggiungere la
indipendenza a cui agogna da secoli. Tra voi, il vinto morirà senza una parola
d’affetto, una benedizione de’ suoi cari: il vincitore rimarrà coll’aspide del
rimorso nel cuore tutta la vita! Oh voi! che ai lineamenti gentili io conosco
nati su questa terra di pianto. Non ha l’Italia molti nemici ancora, e non
abbisogna essa di tutte le braccia de’ suoi figli per scuoter le secolari
catene? Cessate dalla lotta fratricida, ve lo chiedo, ve lo impongo in nome
della madre comune! Cessate! non rinnovate le gare antiche, retaggio fatale
degli incauti, scellerati padri vostri, che precipitarono questa bella patria
in tanta abbiezione! Tornate amici. Tornate fratelli! Domani voi proverete allo
straniero che tenterà ancora di strapparvi le vostre sostanze e le vostre
donne, chi dei due sia più valoroso».
Le onde dell’Adriatico infrangevansi contro gli scogli granitici
che arginano i murazzi con più effetto delle parole patriottiche ed umanitarie
del vecchio sull’ostinata risoluzione di quei due assetati di sangue ed il
principe, con certo piglio di dispetto, che chiariva l’aristocratica origine
intimò al vegliardo: «ritiratevi».
Si ripresero da capo i segnali, le battute di mano si seguirono,
ed alla terza gli avversarii marciarono ad incontrarsi colla pistola armata
nella destra e coll’occhio fisso l’uno sull’altro senza battere palpebra col
meditato intento dell’omicidio.
A dodici passi sparò il principe e la palla sfiorò passando la
parte destra del collo di Morosini: lo ferì e ne sgorgò il sangue, ma fu ferita
leggera. Il soldato di Calatafimi, più freddo dell’avversario, s’avvicinò di
più a forse otto passi. Sparò ed il fratello della nostra Irene si aggomitolò
cadendo sul terreno come uno straccio. La palla gli avea traversato il cuore.
Il Sant’Ufficio dal Vaticano sorrise di quel sorriso infernale con
cui si rallegrò ogni volta che un olocausto di sangue sparso dal pugnale della
discordia bagnava questa terra infelice. E chi lo versò quel sangue italiano?
Una mano italiana, consacrata alla redenzione del suo paese.
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