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Giuseppe Garibaldi
Clelia ovvero Il governo dei preti

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  • PARTE SECONDA
    • CAPITOLO LX   ROMA
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CAPITOLO LX

 

ROMA

 

Il due dicembre il despota della Senna, l’Imperatore-menzogna75, il nemico di tutte le libertà, il protettore di tutti i tiranni, dopo diciassettanni di perverso dominio colla stessa ipocrisia con cui la tenne schiava, liberò la Niobe delle nazioni, la vecchia metropoli del mondo, la dominatrice, la martire, la più grande delle glorie umane!

Egli fu il continuatore della vendetta universale.

Totila alla testa delle feroci sue orde conquistava Roma, la distruggeva, ne sterminava la popolazione ed era questa giustizia di Dio! «Morrà di ferro chi uccide col ferro!» Perché i romani vollero dominare il mondo? perché dalle fertili contrade assegnate loro dalla natura vollero scorrere tanta parte di mondo aggiogando sino le nazioni le più remote derubandole, disertandole?

I popoli della terra portarono per contraccambio ai loro tiranni servitù, rovine, miserie.

Il continuatore degli Attila e dei Totila non men depredatore di loro gettossi lui pure sulla facile preda e palpitò di gioia il fallace suo cuore mentre la stringeva tra le ugne!

Che bell’appannaggio al crescente principino!... Parodia del gran zio. Ci vuol altro! Alle grandi opere, si richiede un alto cuore; ed il figlio dell’ammiraglio olandese76, sortì cuore piccino, e codardo! Eppure in tutti gli atti della sua vita, si scorge la presunzione d’imitare lo zio ma nello stesso tempo si vede la mancanza di energia, di genio per l’esecuzione.

I barbari antichi conquistarono e fecero un mucchio di rovine della superba conquistatrice, il moderno barbaro, il devoto camuffato da gesuita, non distrusse, non ruinò, ma considerò roba propria la grande preda. Poi, indebolito dalle lascivie e dagli anni, scosso sino alle fondamenta l’insanguinato suo trono dalle fallite imprese americane ove avea tentato, il malvagio, di dare il colpo di grazia al santuario della libertà del mondo, alla grande Repubblica, edificando alle sue porte un impero austriaco per farsi perdonare dai coronati, la sua origine plebea, l’apostata della Rivoluzione, mutò in parte pensiero.

Distruggere la libertà sulla superficie della terra per ottenere la concessione d’un posticino al banchetto della tirannide!! Povera Francia! a che fosti ridotta!

E il governo Italiano ha accettato l’eredità dell’imperatore-menzogna. Far il birro al Negromante del Vaticano, obbligarli a soggiacere al governo del S. Uffizio. Rinunziare alla capitale d’Italia, proclamata dallo stesso Governo Italiano, votata e sancita dal suo Parlamento: ecco l’opera del Governo.

Io credo che governo più codardo sia impossibile trovare nelle storie antiche e moderne e bisogna che sia proprio destino dell’umanità che si debba trovare accanto al bene tanto male, tante umiliazioni, tanta perversità!

Ho detto «accanto al bene» poiché non si può negare essere l’unificazione italiana un miracolo di bene, ad onta degli sforzi fatti da governi e da sette più o meno nere, per trattenere, e far retrocedere questo povero paese, impoverendolo, pervertendolo con ogni modo di depravazioni e di menzogne.

Governo! si può egli chiamar governo quest’agenzia di corruzione!?

Grazie ad essa il popolo è ridotto: ad una metà comprata per aggiogare l’altra, tenerla nel servaggio e nella miseria!

Salve! valoroso popolo del Messico! Oh! io invidio la tua costanza e la tua bravura nella liberazione del tuo bel paese dai mercenari del despotismo!

Accettate, coraggiosi nipoti di Colombo, dai vostri fratelli d’Italia, un saluto alla vostra libertà redenta!

A voi s’imponeva la stessa tirannide e la spazzaste come la fantesca spazza le immondizie. Noi soli!... garruli, pieni di preterizioni, vani, millantando glorie, libertà, grandezze!... e legati per il collo... imbavagliati! troppo liberi per le ciarle ma inetti a compiere quella ricostituzione politica che sola può darci il diritto di sedere accanto alle libere nazioni.

Tremanti dinanzi al despotismo d’un abbietto tiranno straniero, noi non osiamo, per paura che ci castighi, passeggiare per casa nostra, dire al mondo che siamo padroni di noi, strapparci dal fianco il dardo che perfidamente ci ha conficcato.

E più umiliante, più degradante ancora è la condizione che il despota straniero ci ha imposta, lasciò la preda che l’anatema del mondo gli vietava e ne disse: Codardi! guardatela, fate da birri in vece mia, ma non la toccate!

Oh! Roma! patria dell’anima! tu, sei veramente la sola! l’eterna! Al disopra d’ogni grandezza umana anche oggi… sotto qualunque degradazione! Il tuo risorgimento non può esser che una catastrofe da mettere a soqquadro il mondo!

 

 

 




75 Napoleone III (N.d.C.)



76 Si dice il Bonaparte III figlio di un Ammiraglio Olandese.






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