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Giuseppe Garibaldi
Clelia ovvero Il governo dei preti

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  • PARTE SECONDA
    • CAPITOLO LXIII   IL RACCONTO
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CAPITOLO LXIII

 

IL RACCONTO

 

Noi lasceremo i nostri amici occupati a consolare l’afflitta Irene per la perdita del fratello che sinceramente amava.

Ultimo rampollo dello splendido suo casato, il principe ne troncava colla sua morte la prosapia; e questa idea, sono certo, non mancava di martellare il cervello della nostra bella matrona la quale, sebbene non repugnasse da un’alleanza plebea, come abbiam veduto, ci teneva al titolo onorevole della famiglia paterna.

Alla immensa fortuna che la morte del fratello lasciava in sua balia non pensò punto, essendo troppo generosa di carattere da anteporre l’interesse alla vita del suo caro. Poi i beni di casa T... sul territorio Romano, erano stati confiscati da quelle perle di servi di Dio, i cui beni non sono di questo mondo.

Ritornati dal funerale, Attilio e Muzio si erano consultati col solitario sul modo di comunicare alla sorella l’avvenimento fatale ed egli chiamato Orazio e la sposa nella propria stanza aveva data loro la ingrata e dolorosa notizia.

Gasparo, di tutti il più addolorato, dopo Irene, avea col racquisto del luogotenente trovato refrigerio al suo dolore e si sentiva mosso dalla smania di udire le avventure di lui che credeva perduto per sempre.

Ecco dunque i due ex-banditi riuniti a stretto colloquio nell’Albergo Vittoria nella stanza di Gasparo. Dopo un mondo d’interrogazioni e di risposte, per lo più a monosillabi, non essendo l’oratoria Io studio prediletto dei briganti, gente più manesca che ciarlona, il luogotenente così cominciò:

«Dopo che voi mi diceste, mio caro capitano, che eravate annoiato della vita brigantesca e disposto di ritornare privato, dal che vi sconsigliai se ben ricordate, io continuai le solite scorrerie senza però mai allontanarmi dai saggi vostri precetti. Spogliare i potenti e sollevare i miseri. I nostri compagni, formati alla vostra scuola, pochi motivi mi diedero di reprimerli; quando qualcheduno però mancava io lo castigavo senza misericordia e così si visse colla grazia di Dio per vari anni.

L’affetto per la donna fu sempre lo scoglio del brigante e ben lo sapete voi vecchio corsaro».

Gasparo, a quegli accenti agrodolci affilava colle dita i suoi mustacchi color di neve ricordando senza dubbio più d’un’avventura galante nella carriera sua pericolosa mentre l’altro ripigliava: «Voi ricordate Nanna, quella fanciulla per cui tante persecuzioni ebbi da’ suoi parenti. Non vi fate a credere che quell’adorabile creatura mi tradisse. No! l’anima sua, era, e fu pura come quella d’un angiolo! E perdonate se mi asciugo una lagrima pensando alla donna che tanto amai». Ed il ruvido capo dei masnadieri si metteva il fazzoletto agli occhi.

«Essa è adunque morta» esclamò Gasparo con affetto.

«Morta! Mortaripigliava il compagno e i due amici stettero un pezzo in silenzio.

Alla fine Marzio continuò: «Un giorno la mia Nanna, un po’ indisposta s’era fermata a passare la notte in casa Marcello presso la povera Camilla impazzita, come avrai saputo, grazie all’infame cardinale S. Io quel mi dovetti allontanare colla banda per un’operazione importante. Nella notte la casa fu assaltata e portato via il mio bene in Roma.

Puoi immaginare la mia disperazione, puoi immaginare quante ricerche facessi per conoscere il nascondiglio della Nanna. Finalmente dai nostri amici di Roma seppi trovarsi la fanciulla nel convento di San Francesco, ove l’avean condannata a servire le suore e a non vedere mai più la luce.

La mia donna, al servizio delle suore! destinata a servire quella turba di giovani donne ingannate e di rantolose vecchie volpi! Ve la darò io, dissi tra me, una serva di quella tempra e, per Dio!, questa volta il diavolo si porta via il vostro convento e quante vecchie pettegole racchiude.

La notte, che tenne dietro al giorno in cui conobbi la dimora della Nanna entrai in Roma solo: solo, perché mi sembrava vergognosa codardia farmi accompagnare in una impresa ove si trattava di me solo.

Presi meco un fascio grandissimo di frasche secche, comprato in piazza Navona, lo depositai in un’osteria, ed aspettai che si facesse tardi. Verso le undici, prima che si chiudesse l’osteria, presi il mio fascio e via verso S. Francesco. Chi può impedire a un povero diavolo di portarsi un fascio di legna a casa? Poi, la nostra Roma ha questo di buono, poche persone passeggian le vie durante la notte per paura dei ladri che il liberale governo dei preti lascia liberi quanto vogliono purché non si mescolino in politica.

Giunto al portone di San Francesco, posai il mio fascio, preparai pronto ad accenderlo un mazzo di zolfanelli, calcai le frasche contro il portone e gettai lo sguardo alle due estremità della strada per attendere il momento opportuno.

Era evidente, che bruciando il portone restava la inferriata, la quale mi avrebbe lasciato con tanto di naso e nulla di compiuto. Bisognava fare del chiasso, far accorrere gente di dentro e di fuori. Pertanto dopo aver accomodato ogni cosa traversai la piazzetta e mi nascosi nel vano di una porta saldo ed immobile quale una cariatide aspettando che gente venisse, foss’anco una pattuglia di birri, per me faceva lo stesso. Né ebbi ad aspettar molto, che dopo dieci minuti mi giunse all’orecchio precisamente il suono de’ passi misurati d’una pattuglia. Allora, colla velocità che tu sai».

E qui Gasparo interrompendo: «Corpo di Dio! se la conosco, esclamò. Ricordo ancora quel tal Monsignore che, sulla strada di Civitavecchia, avendoci scorti retrocedeva fuggendo a gran galoppo verso Roma ed in men ch’io nol dico tu eri al muso de’ cavalli e fermavi la carrozza».

«E che presa fu quella, comandante mio! ci fu da scialacquare per molto tempo colla povertà cristiana di quel discendente degli apostoli! Ma torniamo al racconto. Quando fui certo che la pattuglia veniva innanzi, corsi al fascio, lo accesi e rapido tornai al mio nascondiglio.

In pochi minuti, una fiamma d’inferno divampava dinanzi al portone del convento e lo stesso portone poco dopo infiammandosi mostrava uno spiraglio di fuoco simile al cratere di un vulcano.

E i birri? Dovunque la più trista canaglia del mondo in nessuna parte arrivano alle tristizie di quei di Roma, i birri dico, codardi per natura e lenti per la vita infingarda che menano invece di correre sul sito a smorzare il fuoco si misero a squarciagola a far schiamazzo per svegliare il vicinato ed al fuoco non si appressarono se non quando buon numero di vicini, d’ogni parte accorrenti, giungeva sulla scena d’azione.

Tocca ora a me, pensai, e mi precipitai nel vortice di quel tramestio. Le monache potevan stare allegre che un bel liberatore ce lo avevano alla porta e potevano star allegri anche i birri, che avevano acquistato in me un famoso compagno.

Le cose meglio non potevano riuscire. Al clamore di quei di fuori, le monache non tardano a destarsi. Spalancando l’inferriata, giungono anche esse alla riscossa con secchie piene d’acqua e buglioli e catini e quanti recipienti davan loro alla mano le poverette! Dopo aver fatto mostra di smorzar anch’io dalla parte di fuori sempre fisso però il mio occhio di lince verso il di dentro, vedendo la partita ben impegnata mi slanciai nell’interno al soccorso delle suore ed una salva di acclamazioni accompagnò l’atto mio salvatore.

Appena dentro, girai lo sguardo sulla turba delle femmine ivi riunite ed alla più vecchia che mi sembrò essere la badessa: "favorisca" dissi, e in pari tempo la presi per il braccio sinistro, in modo da farle comprendere che il favore di seguirmi lo avrei ottenuto un po’ anche colla forza delle mie braccia. Incontrai più resistenza da quel vecchio cataletto ch’io non avrei creduto. Si contorse, s’impuntò, e non volle muoversi che trascinata resistendo con tutte le sue forze, ma inutilmente: poi si mise a gridare onde fui obbligato a levarla nelle braccia e turarle la bocca con un fazzoletto.

Cosi mi allontanai dalla folla e giunto davanti alla porta di una cella che trovai aperta mi misi dentro col mio fardello. Il lume era acceso, il letto caldo, deposi la vecchia sul letto e chiusi la porta a chiave.

Era la vecchia attonita ma non impaurita. Non ricordo d’aver veduto mai un demonio di tanto coraggio. "Ov’è Nanna?" le chiesi, mentre mi guardava trasognata, con un certo piglio da scuoterla per benino. Nessuna risposta. "Ov’è Nanna?" tornai a dire un po’ più alto di prima. Nessuna risposta. Ah! vi farò trovar io la lingua, brutta strega, esclamai infuriato, tirando fuori dalla cintura questo palmo di lama e facendolo luccicare ai suoi occhi. Eppure niente!».

«Sangue della madonna! interruppe Gasparo, sono tutte così le badesse, tutte energumene. Quando alla difesa di Roma nel 1849 la mia compagnia doveva passare nel Convento del Sacro Cuore per occupare le mura di S. Pancrazio ci fecero stare delle ore alla porta senza volerci aprire e la badessa cui era stato presentato l’ordine scritto del Governo lo fece risolutamente in pezzi e solo, quando si cominciava a buttar giù il portone colle mannaie si persuase ad accordarci l’ingresso79».

«E così fece questa - ripigliava Marzio. - Io non burlavo, lo puoi ben credere. Volevo la mia Nanna e cento vite di vecchie non mi avrebbero certamente impedito di portar l’impresa a buon fine. Attortigliati i suoi grigi capelli alla mia sinistra col pugnale nella destra cominciai a tastarle il collo non già colla punta del ferro per timore mi vi scivolasse ma con uno spillo della sua cuffia. Allora m’accorsi che fino al martirio non voleva arrivare la santa donna giacché cominciò a sciogliere la lingua, gridandomi lamentevolmente un: per amor di Dio! La mia Nanna o vi mando all’inferno con tutti i diavoli! rispos’io. Per amore di Dio lasciatemi, ripeteva lei ed io lasciai andare quel capo protervo.

Dopo aver respirato fortemente per assicurarsi che viveva ancora, passatasi la mano sulla fronte. "Chiedete voi conto d’una giovane della campagna Romana, di buona famiglia, che fu collocata or son quindici giorni in questo Convento?". Credo sia dessa, risposi. "Allora io vi condurrò da lei, ma a patto che non facciate scandali in questa casa del Signore".

Altro oggetto non ho fuorché portar via la mia donna le risposi.

Essendosi al quanto ricomposta e discesa dal letto mi disse: "andiamo". La seguitai per un pezzo e giunti ad un’entrata oscura c’innoltrammo in un corridoio, scendemmo varie scale ed al chiarore di un candela che avevo portato meco scoprimmo una porta di ferro sbarrata da un catenaccio. Povera Nanna! dicevo tra me stesso, che delitto avrà mai commesso quella sciagurata fanciulla da essere fitta in questa bolgia d’inferno?

Giunti alla porta ferrata la vecchia mise fuori una chiave, la introdusse nel catenaccio, aprì e mi fece segno di tirare la porta essendo troppo pesante per lei. Io feci quanto mi venne richiesto senza però perder di vista la mia guida la cui compagnia m’era troppo necessaria. Così aprendo la porta misi prima la vecchia dentro ed io dietro. Appena entrato una giovine donna scapigliata mi saltò al collo e vi s’avvinghiò disperatamente... Oh! Marzio, essa esclamò e le lagrime della mia Nanna innondavano il mio volto.

Sono troppo corsaro da non prendere le mie precauzioni in tempo d’urgenza. Fuori di me dalla contentezza per la redenzione della mia fanciulla non mancavo però di adocchiare la megera che senza il mio occhio fulminante non avrebbe mancato di svignarsela.

Passata la prima espansione d’affetto, tenendo la mia cara per mano, richiusi la porta e chiesi a Nanna se esisteva un altro uscio in quella prigione. Essa rispose di no, ma la badessa che avea intesa la mia domanda: "c’è - disse - un altro uscio e per questo vi converrà uscire per non incontrare la comitiva delle suore che saranno in questo momento sulle mie traccie".

Qui una nuova scena ed una nuova fanciulla venne ad interrompere il discorso della badessa. Io avevo veduto veramente muoversi qualche cosa nell’angolo più oscuro del carcere, ma preoccupato com’ero, non v’aveva badato. Quando a un tratto una fanciulla dell’età in circa della mia Nanna si avvicinò a me, con voce commossa: "Oh! voi non mi lascerete sola in questo carcere, caro signore, io seguirò la mia Nanna sino alla morte".

E la Nanna a me: "Sì, Marzio! per carità non lasciamo questa infelice amica mia in questo inferno. Essa era destinata da quella vecchia maga a mia compagna per farmi la spia ed all’opposto è stata per me un angiolo di consolazione. Era incaricata di farmi parlare, sapere di voi, de’ vostri compagni, d’ogni cosa e poi rivelare tutto alla badessa".

E così vanno le cose, pensavo fra me stesso in questi laboratori d’ipocrisia e di menzogna!

"Era incaricata di spiarmi, di minacciarmi, di tormentarmi, in caso io rifiutassi di palesare i vostri nascondigli, le vostre riunioni abituali, i vostri disegni ed invece essa mi disse tutto, mi consolò, mi protesse ed assicurò che morrebbe piuttosto che farmi del male.

Essa poi ieri mi salvò puranco dalle disoneste brame di un infame prelato che introdottosi in questo carcere colla connivenza senza dubbio di questa vecchia strega venne a promettermi mari e monti se condiscendevo alle sue voglie malvagie. Mi salvò precipitandosi nel carcere e strillando come un’ossessa.

Invano le promisero la libertà se giungeva a sedurmi per conto della badessa e del prelato, non ne hanno potuto cavar nulla. Di giorno ci destinavano ai più vili uffizi del chiostro, richiudendoci di notte in questa spelonca".

Il pianto innondava ancora il bel volto della mia diletta a queste ultime parole... ed io vi assicuro Capitano che mi corse per istinto la mano sul ferro e divenni sitibondo del sangue della megera. Non so me mi trattenni. Ero furibondo, e avrei stritolato le ossa di quella schifosa creatura come una foglia d’autunno e noi feci, e fu bene, perché senz’essa avrei avuto immense difficoltà a rivedere la luce del cielo.

Ov’è la seconda porta di cui avete parlato?, dissi alla vecchia, e dove conduce?

"Conduce fuori del convento, e ve la mostrerò se scostate il letto di ferro che giace in quel canto". Scostai il letto ben pesante e nulla vidi.

"Provate a levare i mattoni che si vedono con materiale non secco". Dato mano ad una spranga di ferro del letto cominciai a smuovere il pavimento, staccare i mattoni e metterli da parte. Alla fine un anello conficcato nel legno mi diede indizio di una porta orizzontale da sollevarsi e con mio stupore scopersi una nuova scalinata che conduceva a basso.

Qui bisogna ordinare la marcia, pensai tra me, e spinger la vecchia in capo fila. Ingiunsi alle mie giovani compagne di seguire in retroguardia e dando il lume alla badessa senza cerimonia le dissi: Avanti!

Questa è la scala di contrabbando, pensavo io e quanti di quei poveri neri e luridi scorpioni a sottane saranno venuti a sfamare le loro libidini in questi ginecei! E le povere famiglie che credevano d’inviare le loro figliuole in questi asili di purezza per educarle!

Ma pensavo pure: oggi non hanno più bisogno di entrare furtivamente nei sotterranei, oggi quegli scellerati hanno più facile l’ingresso e la sfacciataggine per giungere fino alle loro vittime».

 

 

 




79 Storico.






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