CAPITOLO LXIV
SEGUITO DEL RACCONTO DI MARZIO
Les cloîtres, les cachots - ne sont point son
ouvrage;
Dieu fit la liberté - l’homme a fait
l’esclavage.
(Chènier)
«Marciava avanti la vecchia badessa col lume, io seguivo a poca
distanza e le giovani chiudevano la marcia.
Scendemmo forse cinquanta gradini, entrammo in un corridoio non
molto stretto che dopo pochi passi ci mise in una spaziosissima stanza, dico
spaziosissima perché coll’aiuto del lumicino appena se ne potevano scorgere le
pareti.
Avevamo fatto circa una diecina di passi in cotesta stanza quando
mi sembrò di udire alla mia destra dei lamenti. Mi fermai, per meglio ascoltare
quando al termine della mia attenzione di un momento e mentre mi accingevo a
muovermi e guardare avanti anche alla mia guida mi trovai nelle tenebre.
Corpo di Dio! dissi tra me e me e mi slanciai innanzi con tale
salto che certo non potrebbe di più la tigre quando dal suo nascondiglio della
foresta si slancia sulla preda. Ma le tenebre furono la mia preda. Invano
volteggiai a mulinello per un pezzo colle braccia tese quanto potevo colla
speranza d’incontrare quel demonio in gonna. Mi avventai contro la parete, la
costeggiai strisciando a rischio di scorticarmi le mani e non trovai uscio.
Finalmente, dopo aver tentennato alquanto e quasi alla disperazione, mi
appoggiai fortemente al muro e lo sentii cedere alla mia spinta. Ripresi
speranza, ripassai la mano su quella parte di muro ed a mia sorpresa trovai che
era legno, di che non m’ero accorto prima nella mia indagine precipitosa.
Forzai di nuovo e sentii girare come una porta sui gangheri e nello stesso
tempo un’aura, un puzzo cadaverico mi giunsero dalla parte esterna e mi
colpirono quasi in modo da togliermi il fiato. Voltai la testa verso le stanze
per sfuggire a quell’aria appestata. Il lamento che avevo udito prima mi
ripercosse l’udito e quasi calmò il mio sussulto.
Pensai alle compagne e ad alcuni zolfanelli che tenevo in tasca ma
che avevo scordato nell’esaltazione della mia mente. Accesi un zolfanello
contemplai ciò che avevo creduto una porta e invece trovai essere una ruota80
e miracolo! ben grato a Dio! a piedi e nel fondo della ruota il mio cero che la
vecchia perversa avea lasciato cadere nella fuga.
Riacceso il lume mi trovai accanto le mie povere compagne tremanti
come foglie. Coraggio, dissi loro, e mi precipitai nel compartimento attiguo
dove mi seguirono una dopo l’altra, colla speranza di poter raggiungere la
badessa ch’io non dubitai più essere fuggita da quella parte. Sollecitai il
passo ma a poca distanza, Dio mi perdoni!, che orrore! Alle pareti del carname
che io percorreva una massa di creature umane incatenate per il collo, alla cintola
e per ambe le braccia penzolavano, la maggior parte cadaveri più o meno
imputriditi. Un solo era vivo ed era questo un giovane che conservava gli
avanzi di bellissime forme. Era divenuto un fantasma e spalancava verso me due
occhi nerissimi che sembravano voler saltare dalle loro orbite. Aveva cessato
di lamentarsi quando conobbe che io l’avevo scorto e che mi avanzavo verso di
lui.
Per quanto fosse urgente il pericolo io non volli lasciare quel
sofferente senza tentare ogni mezzo per liberarlo. Mi avvicinai e lo baciai
sulla fronte.
Oh! sì! io mi sento attratto verso qualunque creatura che soffre.
E questa sarà certo la corrispondenza gentile d’amorosi sensi a cui
l’Onnipotente informa le anime che non furono infette dal soffio avvelenatore
del prete.
Mi chiamino pure brigante!
Mi avvicinai all’infelice e baciai quella fronte grondante sudore
ed ardente come un tizzone. Ma che fare! le radici delle sue catene erano
impiombate nel muro e quei massi erano enormi. Mi ravvolsi tra il carname a
cercare ferri che mi servissero a scavare nel muro o a rompere le catene.
Orrore! dovunque istromenti di tortura! Dovunque, rotelle, eculei, letti di
ferro, stirature, tanaglie, corde da laccio, graticole ed altre simili mortificazioni
del corpo come le chiamano i preti e che solo questa genia d’inferno poteva
inventare per sventura dell’umana famiglia.
Nel breviario Romano approvato dal Concilio di Trento a pagina 498
sez. IV. Notturno II. (edizione di Venezia anno 1740) esiste una lettera di S.
Domenico di Guzman, patrono di Torquemada e di Arbuez, diretta a Papa Onorio
III, nella quale, con un cinismo spaventevole, con una crudeltà tanto
freddamente calcolata da far inorridire, egli traccia di sé medesimo un
ritratto ributtante ed orribile.
Leggetela sino in fondo, se il cuore vi basta, e letta che
l’abbiate adorate ancora, se ve ne par degno, S. Domenico di Guzman!
«Beatissimo Padre.
Linguadoca, 7 Aprile 1217
Con l’aiuto del Signore, io e miei compagni non cesseremo mai
dallo sbarbicare dal campo della chiesa, quest’erba velenosa che merita il
fuoco, prima in questa vita poi nell’altra.
E per consolare la santità vostra dalle cure gravissime
dell’Apostolato le accennerò quel poco di bene che con l’aiuto di Dio81
abbiamo operato in queste infelici provincie tanto desolate dall’eresia.
Affrancati dal duca di Monfort già trentasettemila di questi nemici della
religione cattolica stanno a bruciare nelle fiamme dell’inferno, e così
diradate le nuvole pare che il sole della retta fede cominci a risplendere in
queste contrade.
«Il piissimo duca è tanto infervorato dallo zelo cattolico che,
dovunque ha sentore si annidino di queste fiere, accorre colle sue truppe e dà
loro la caccia. Essi o resistano o fuggano son sempre raggiunti e puniti. Non
si usa pietà ai corpi di gente che non ne usò alle anime fedeli, cui
uccise col mortifero veleno dell’errore. Egli li sottopone prima a tormenti per
costringere la loro ostinazione a manifestare gli aderenti. È impossibile
immaginare quanto lo spirito satanico s’impossessi di loro, e li renda fermi
nella infernale impenitenza. Non si lasciano fuggire un accento dalla sacrilega
bocca che il demonio chiude con una mano di ferro82. Un vecchio, posto
alla tortura, e quasi stritolato sotto ad una macina, rideva ed insultava i
santi ministri, i quali gli ricordavano l’obbligo della fede.
Un’altra giovinetta di Belial, alla quale i soldati del
Duca in punizione di aver alimentato le carni di un eretico strapparono
dall’ossa con una tenaglia quelle carni maledette, sorrideva, metteva dentro le
mani alle proprie piaghe e diceva di sentirne refrigerio; sicché i soldati a
meglio refrigerarla seguirono per un’ora a rinnovarle quella consolazione senza
poterla indurre a manifestare, dove fosse l’iniquo, che essa aveva albergato ed
alimentato.
I poveri soldati sono instancabili nell’opera della fede83
e la sera dopo la preghiera e dopo innumerevoli meriti acquistati, sono da me
benedetti con la papale benedizione che V. S. mi concedette di largire nel suo
nome santissimo84.
Io crederei, Beatissimo Padre, che a rimunerare in qualche modo la
fede ardente del sig. Duca, V. S. dovesse avere la benignità di
conferire o a lui, o a suo fratello Don Rodrigo canonico della cattedrale di
Tolosa, la sacra porpora la quale egli si ha già acquistato con le sue escursioni
tingendola nel sangue maledetto di quegli sciagurati.
Basta che in questi paesi si senta il suo nome perché gli eretici
Albigesi tremino da capo a piedi. Il suo costume è di andare per le corte
spacciando in un sol colpo i più arrabbiati. Quanti gliene capitano nelle mani
costringe a professare la nostra fede con la formola ingiunta da V. S. Se
ricusano, li fa battere ben bene mentre che si accende il rogo85.
Quindi interrogati se si sien pentiti ed ascoltato che no, conchiude: O credi o
muori. Li mettono ad ardere a fuoco lento per dare loro tempo di pentirsi, e di
meritare l’eterno perdono.
Alcuno di questi miserabili, benché assai raramente, sullo spirare
ha dato segni di ritrattazione e di orrore della morte che meritamente subiva;
ed io mi consolavo nel Signore osservando quegli atti che potevano essere
indizio di pentimento. Quando più essi si dibattevano tanto più noi godevamo
nella speranza che quelle brevi pene fruttassero loro il gaudio eterno, dove
speriamo di trovarli salvi nel santo paradiso quando al Signore piacerà di
chiamarci agli eterni riposi.
Intorno poi agli altri che furono sedotti, e perciò meno rei, non
si costuma di condannarli subito ma per esercitare con essi quella carità, che
il nostro Salvatore comanda, da principio si risparmia loro la vita ed invece
si adoprano alcuni tormenti i quali per quanto siano gravi alla carne sono
infinitamente più lievi degli altri riserbati allo spirito nelle fiamme eterne.
Si adoprano rotelle, eculei, letti di ferro, stirature, tanaglie
ed altre simili mortificazioni del corpo che secondo la legge del nostro Signor
G. Cristo dev’essere macerato in terra per averlo glorioso nella vita eterna.
In altra mia mi farò un dovere di rallegrare il cuore della
Santità Vostra, con più minuta narrazione di questa opera che il Signore si
compiace di fare per nostro mezzo86.
Intanto prostrato al sacro piede della S. V. imploro per me e per
questi miei collaboratori e compagni, l’apostolica benedizione e mi dichiaro»87
Della S. V.
Re dei Re e Pastore dei Pastori
l’ultimo dei servi e figli
DOMENICO GUSMAN
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