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Giuseppe Garibaldi
Clelia ovvero Il governo dei preti

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  • PARTE SECONDA
    • CAPITOLO LXVII   SEGUITO DEL RACCONTO DI MARZIO
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CAPITOLO LXVII

 

SEGUITO DEL RACCONTO DI MARZIO

 

«Terminato il racconto del povero Tito, io avea voglia di udire qualche cosa della storia di Maria ma rifocillati di buoni cibi e scaldati dall’Orvieto, la fatica (che non era stata poca) della notte e d’una parte del giorno fece sì che i miei occhi e quelli de’ miei compagni accennassero a volontà diversa da quella di udire delle storie. Anzi di a non molto, tutti come per mutuo consenso, cominciammo a russare al posto stesso ove eravamo seduti.

Io non so quanto tempo rimanemmo in quella posizione, so però che un fischio acuto risuonò nell’abituro e ci fece balzare tutti in piedi.

Ci stropicciavamo gli occhi quando entrò il poeta pastore e disse: - Non vi allarmate; non c’è pericolo, ho risposto ad un fischio di mio figlio Vezio che aveva mandato in sentinella sulla sommità della rovina Petilia da dove si può distinguere chiunque si avvicini alla tenuta. Ora, chi viene è gente nostra, proprio delle tue bande. - E Marzio come non fosse in presenza del suo Capitano ma nella Campagna Romana si lisciava con la destra i nerissimi mustacchi.

Eran proprio dei nostri intrepidi compagni, terrore della birraglia pretesca. Vi lascio pensare. Comandante, qua! gioia reciproca c’inondasse nel ritrovarci. Molte furon le carezze che mi prodigarono quegli uomini che il volgo crede induriti ad ogni misfatto e che sono in sostanza la parte eletta del popolo insofferente di prepotenze ed ingiustizie. Quella parte del popolo che se invece della degradante educazione del prete ricevesse una vera educazione morale patriottica ed umanitaria darebbe all’Italia degli eroi ed al mondo gli stessi esempi di virtù e di coraggio che davano gli antichi padri nostri».

E qui tocca a me di ripetere per la centesima volta, che solo i preti furon capaci di ridurre il più grande dei popoli della terra alla condizione del più umile, del più degradato di tutti i popoli!

«Salvataportentosamente la mia Nanna e reduce tra i miei coraggiosi compagni, io avea ragione d’esser contento della mia sorte. Ma ripeterò il vostro adagio favorito, Capitano: "La felicità sulla terra esiste nell’immaginazione della gente, ma non è cosa reale" avete ragione! Troppo presto provai la veracità delle vostre parole.

Vi ricordate quel prete scellerato della Basilica di S. Paolo che fingeva d’essere sviscerato amico vostro ed a cui noi fummo così larghi di simpatie e di favori? Ebbene! il mostro s’era innamorato della mia Nanna e mai mi perdonò l’affetto con cui mi ricambiava quell’angelica creatura. Don Pantano con quell’astuzia infernale che distingue la sua setta malefica era riuscito a guadagnarsi gli animi nella famiglia di Nanna e ad inviperirli. I quattro fratelli di lei come ella mi disse poi, aiutati da altra gente mascherata e consigliati dal prete volpone, avevano essi eseguito il primo ratto della mia fanciulla in casa Marcello. Questa volta, dovendo necessariamente allontanarmi co’ miei ed essendo la mia diletta in delicata condizione ed affranta dalle fatiche sofferte, io mi decisi di lasciarla in casa del nostro poeta insieme alla Maria con cui era divenuta si può dire sorella d’affetto cementato dalle sventure e dai pericoli passati in comune.

Inquieto per altro sulla sorte della mia donna e conocendo la malizia del suo persecutore io mi aggirava colla banda d’Emilio intorno alla tenuta di Lelio, come la lionessa quando deposti i suoi piccini, si allontana per cercare alimento, ma circuendo sempre il nascondiglio del suo tesoro. Vi assicuro che ben difficile sarebbe stato ai primi rapitori il portar via la mia Nanna. Nella mia custodia erami Tito di non poco giovamento il quale, pratico di quelle contrade, non aveva voluto più abbandonarmi.

Ma ove non arriva la malvagità di un prete? Il Pantano, sapendo quanto ardua era l’impresa di portar via la sua preda, ideò di distruggerla lo scellerato!...

Vicina al parto, l’infelice giovane, sola, colla Maria inesperta in tali faccende seguì l’innocente consiglio di Lelio, di chiamare da Castel Guido la levatrice di quel paese sino allora tenuta per onesta. Onesta!... ma chi può fidare sull’onestà delle donne ove signoreggia il negromante? Corruzione! Prostituzione! ecco il codice dei sacerdoti della menzogna! Chi non lo crede vada a passare alcuni mesi in quel covile di serpenti mitrati ove un nacquero i Cincinnati e gli Scipionì.

Quanti delitti non si possono far commettere da una creatura assicurandola che essa compie la volontà di Dio! ch’essa ode la parola di Dio!

Parola di Dio! sacrilegio che solo un prete può pronunciare! Eppure ogni festa, metà almeno del mondo cattolico va ad udire la parola di Dio! in seno alla sposa di Gesù Cristo, la Chiesa!

Veleno! Veleno! si amministrò alla mia Nanna. Capitano mio! ed il veleno mi portò via donna!, prole!, ed ogni felicità sulla terra!

Fui arrestato sul freddo cadavere di lei inconscio della vita. Seppi poi, che s’impiegò al mio arresto tutto l’esercito di mercenari papalini, che i nostri bravi si batterono disperatamente per liberarmi ma sopraffatti dal numero e quasi tutti feriti si ritirarono in buon ordine.

Istupidito chiesi a più riprese la morte. Invano! il gran trionfo di quel prode esercito era più splendido se mi avevan vivo ed incatenato.

Dalla galera di Civitavecchia fui inviato a Roma dopo pochi mesi e liberato, col giuramento di assassinare il principe T

Giuramento!... avete capito Comandante, Giuramento! quella viltà degradante della dignità umana con cui il despotismo ed il prete credono di vincolare la gente!... Giurare di servir fedelmente un impostore od un tiranno!... di obbedirgli... ancorché si dovesse assassinare il padre e la madre!...

Ed io giurai, vi dico il vero, ma giurai di far loro una guerra a morte per quanto dura questa vita d’inferno ove non abbiamo altra alternativa: che morire o ammazzare!».

 

 

 




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