CAPITOLO LXIX
CAIROLI COI SETTANTA COMPAGNI
I popoli ben governati e contenti non insorgono. Le insurrezioni,
le rivoluzioni, sono la risorsa degli oppressi e degli schiavi e chi le fa
nascere sono i tiranni.
Vi sono, è vero, delle eccezioni, ma queste hanno generalmente la
loro origine in cause che potrebbero aver nome diverso dalla tirannide ma che
in sostanza sono sempre il prodotto di tirannide morale o materiale.
La Svizzera, l’Inghilterra, gli Stati Uniti ebbero pure ed avranno
forse ancora delle insurrezioni benché quei paesi sieno i meno mal governati.
La Svizzera ebbe il suo Sonderbund e l’Inghilterra ha i suoi
Feniani per cagione dei preti cioè per la tirannia morale esercitata dalla
negromanzia sulla parte ignorante delle popolazioni.
Gli Stati Uniti ebbero in questi ultimi anni la loro terribile
rivoluzione e ne fu cagione la tirannide materiale che i ricchi coloni del Sud
esercitavano sui loro schiavi e che avrebbero voluto estendere negli altri
Stati dell’Unione. Morale o materiale, è dunque sempre Tirannide la causa delle
rivoluzioni. Ed in Roma chi negherà non ci sia materiale e morale tirannia?
Schifosa tirannide è quella del prete! che prostituisce l’Italia
allo straniero e la vende per la centesima volta! La più depravata delle
tirannidi!
Era una notte d’Ottobre umida, oscura, ventosa. La pioggia avea
cessato di grandinare sulla superficie rilucente ed increspata del Tevere. Le
sponde del fiume fangose e solcate dagli scoli dei campi dove ogni fosso s’era
fatto torrente non presentavano approdo, o ben difficile.
Erano settanta in varie barche armati di revolver e pugnale con
alcuni cattivi fucili. Il loro abbigliamento era più semplice assai che non lo
comportava la notte fredda e piovosa ma i settanta sentivano il calore
dell’eroismo!
In quella notte Roma doveva insorgere. Nella città si erano
introdotti molti dei più coraggiosi d’ogni provincia italiana. I nostri vecchi
amici Attilio, Muzio, Orazio, ecc., erario al loro posto per capitanare la
gioventù romana.
Invano la sbirraglia pretina si travagliava a scoprire i
congiurati, arrestare a destra e sinistra chiunque potesse darle il minimo
sospetto. Invano! Roma era gremita di generosi pronti a spendere la loro vita
per la sua liberazione; e i settanta trascinati dalla corrente del Tevere
gonfio dalle pioggie si avanzavano velocemente in soccorso dei fratelli.
All’ombra del monte S. Giuliano approdarono i valorosi sulla
mezzanotte tra il ventidue e il ventitré Ottobre 1867.
«Alle quattro a. m. (23) si dovrà marciare su Roma» disse il prode
dei prodi, Enrico Cairoli, ai suoi eroici compagni.
«In questo casino della Gloria93 riposeremo le membra
stanche aspettando le relazioni dei nostri di dentro per assaltare
simultaneamente i nemici.
Intanto sento il dovere di ricordarvi che l’impresa è difficile
quindi degna di voi. Se alcuno però, piagato nei piedi o indisposto, non si
sentisse di seguirci, torni. Noi non gliene faremo un addebito; gli diremo: a
rivederci in Roma».
«Nella vita e nella morte, noi vi seguiremo» risposero ad una voce
quei tortissimi ed uno solo non se ne trovò che volesse tornare indietro.
«Non vedo la guida che dovea condurci a Roma, né alcuna credo sia
venuto di là, a darci notizie dell’insurrezione» diceva Giovanni Cairoli al
fratello al ritorno d’una perlustrazione. Ed albeggiava, ed erano proprio in
bocca al lupo, cioè inoltrati fra gli avamposti dei papalini e col pericolo
d’essere assaliti ad ogni momento.
«Che importa! - dicea l’intrepido Enrico. - Noi siamo qui venuti
per pugnare e non torneremo senza aver adempiuto il nostro dovere».
A mezzogiorno un messo da Roma annunziava: il moto della sera
avanti essere rimasto dubbio e attendersi notizie ed ordini sul da fare.
Il messo fu rinviato per sollecitare l’azione interna e annunziare
la presenza dei settanta pronti a correre in aiuto. Ma nessuna risposta venne
ed alle cinque p. m. scoperti da due compagnie di papalini ed attaccati i
settanta si prepararono a vincere o morire.
Il valoroso Giovanni Cairoli, che alla testa di ventiquattro dei
nostri faceva da vanguardia, in una casa rustica della villa, fu il primo ad
essere attaccato e ad onta della superiorità de’ nemici, sostenne senza piegare
l’urto dei papalini. Ma, temendo che il numero finisse col soverchiare quel
pugno di valorosi, il fratello suo Enrico caricò alla riscossa in aiuto dei
venticinque e fece piegare co’ suoi risoluti compagni i mercenari imbaldanziti
che respinti dai coraggiosi italiani si diedero alla fuga. Ma altre forze
nemiche, numerose e fresche accorsero a sostenere e raccogliere i fuggenti
pigliando posizione dietro le alture del monte S. Giuliano, donde
spaventosamente facevan fuoco colle loro armi superiori.
I Cairoli, coi loro intrepidi compagni, per l’inferiorità delle
armi, avendone molte che non facevano fuoco, ebbero ricorso alle baionette e
fecero una di quelle cariche che decidono sempre della sorte di un
combattimento.
I mercenari volsero le spalle e lasciarono sul campo buon numero
di morti e parecchi feriti, ma i valorosi soldati della libertà perdettero il
loro eroico capo, il di lui fratello, ed ebbero non pochi gravemente feriti.
La notte mise fine a quella pugna di giganti!
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