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Giuseppe Garibaldi
Clelia ovvero Il governo dei preti

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  • PARTE SECONDA
    • CAPITOLO LXXV   ULTIMA CATASTROFE
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CAPITOLO LXXV

 

ULTIMA CATASTROFE

 

«Pronti ragazzisciamarono quasi ad una voce Orazio, Attilio e Muzio. «Pronti!» e quest’ultima voce non era ancor pronunciata quando una valanga di papalini irrompeva contro il portone del lanificio.

Di dentro s’eran smorzati tutti i lumi in modo che i birri, veduti dai nostri, non potevano scorgere particolarmente nessuno dei figli della libertà. Così i primi che si attentarono di varcare la barricata caddero col cranio fracassato dalle terribili scuri di Orazio e di Muzio, dallo spadone d’Attilio e da altri istromentì di difesa adoperati dai loro valorosi compagni.

Però una perdita ben importante soffrirono i nostri in quel primo assalto benché respinto: una palla di revolver avea trafitto nel cuore il valoroso Orazio mentre, rovesciati colla scure i primi assalitori, disdegnando combattere al coperto aveva sporta la persona al disopra della barricata per raggiungere nuovi nemici.

Il principe della campagna romana cadeva, come la quercia della foresta sotto la scure e la robusta sua destra stringeva ancora la propria arma benché fosse già morto.

«Irene!» fu l’ultimo suo pensiero e l’accento che ultimo uscì dalle sue labbra. Ed Irene sentì l’anima trafitta da quella voce morente!

Quantunque le tre donne non prendessero parte alla difesa del portone pur stavano a poca distanza da coloro il cui palpito batteva nel lor proprio cuore.

Irene giunse la prima, ove la voce del diletto della sua vita la chiamava e, visto Orazio che era rimasto giacente sopra alla barricata, la bella donna, incurante del proprio pericolo, volle salire pur essa, ma cadde colpita nella bellissima fronte da una palla de’ moschetti che i mercenari dopo il loro insuccesso sparavano rabbiosamente nel vuoto del portone.

Lascio pensare con che animo i due amici ancor vivi e le loro care facessero trasportare nell’interno quelle salme preziose. Infelici forse più i superstiti che gli amici estinti.

Intanto il lanificio era divenuto un carnaio poiché riuscivano inutili le ammonizioni dei capi ai popolani affinchè si tenessero al coperto.

Vi sono dei momenti di parossismo durante la pugna nei quali la morte perde tutto il suo orrore e ammiri tale che sarebbe fuggito dinanzi ad un cavaliere disarmato, non far caso di una grandine fitta di fucilate che lo prendono a bersaglio.

Accadeva così a quei poveri e valorosi operai. Non vedevano più il gran numero di truppe che li accerchiavano, non la moltitudine di coloro che sparavano contro il portone. Andavano di su e di giù per tutti i versi e senza precauzione, e si facevano miseramente ferire e inutilmente. Così il numero dei difensori diradava ed aumentava quello dei cadaveri e dei feriti.

Attilio e Muzio presentivano il loro fato ed erano risoluti di affrontarlo colla pienezza del loro eroismo. Ma Clelia! ma Giulia! perché dovranno morire anche esse? Così giovani, così belle...?

«Va Muzio, - diceva Attilio, - persuadile finché c’è tempo ad uscire dalla parte di dietro dello stabilimento e mettersi in salvo. Di’ loro che noi le seguiremo più tardi».

Colle sue ultime parole il generoso romano mentiva, perché ben sapeva che mai le avrebbe seguite. Egli aveva già assaporata la voluttà del martirio e non l’avrebbe ceduto al prezzo di un impero.

Ma chi è piombato in mezzo quasi per miracolo arrampicandosi per una finestra come uno scoiattolo? Chi può essere che cerchi di entrare in quel finimondo negli ultimi e luttuosi momenti? il nostro lettore forse lo indovina.

John! il bravo John salvato dal naufragio da Orazio a cui s’era legato con singolare affezione. Avendo avuto parte in tanti successi dei nostri eroi il piccolo John aveva ottenuto il privilegio di lasciare lo Yacht a Livorno, o dove meglio gli piacesse, a dispetto del capitano Thompson ed anche dell’Aurelia e venire a passare alcuni giorni co’ suoi amatissimi amici e la sua signora.

Egli era già in Roma durante questi ultimi tremendi avvenimenti e aveva bravamente affrontata la mitraglia sul ponte e s’era poi col popolo ritirato nel lanificio. Di qua però era immediatamente partito, perché Giulia, lo aveva inviato a cercar notizie del come andasse l’insurrezione sugli altri punti di Roma. Ora tornava e noi lo sappiamo con novelle tristissime. Nella sua qualità d’inglese e coll’elasticità che lo distingueva egli aveva assistito a quasi tutte le pugne e coi propri occhi s’era reso certo dei resultati infelici.

Attilio e Muzio ben conoscevano, come dissi, la sorte loro serbata e sapevano pure essere quasi impossibile che le donne potessero uscire dalla parte posteriore del lanificio. Per tentarlo esse avrebbero avuto bisogno della lestezza ed agilità del giovane marino seguendo, nell’uscire, la via aerea ch’egli aveva trovata per giungere nell’interno.

Alle esortazioni che avevagli fatte Attilio così Muzio rispose: «Io dirò alle donne tutto quello che vuoi. Ma credo in prima impossibile che oramai si possano mettere in salvo poi ritengo per fermo che anche potendolo non lo vorranno».

 

 

 




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