CAPITOLO LXXVI
IL SOTTERRANEO
Fra gli operai superstiti che si trovavano alla difesa del portone
si scorgeva un canuto. Questi prestava orecchio alla conversazione dei due capi
e alle ultime parole di Muzio intervenne, dicendo: «Se vi preme ritirarvi da
questo luogo e salvare voi e le donne vostre io conosco un andito segreto che
vi condurrà certamente fuori di pericolo».
Un barlume di speranza, la speranza di salvare quelle carissime
creature, balenò alla mente dei due amici i quali, non essendovi tempo da
perdere giacché i nemici si preparavano ad un nuovo assalto, vollero tosto
seguire il provvidenziale consiglio del vecchio operaio.
Muzio si avvicinò a Giulia e Clelia che non erano lontane e
mettendo innanzi la condizione, che Attilio e lui le avrebbero seguite nel
sotterraneo dove toccava loro come capi a scendere gli ultimi e non i primi,
giunse a rimoverle dal loro ostinato diniego. Così fu stabilito che
s’inoltrassero nel sotterraneo sotto la scorta del vecchio Dentato e di John.
Le altre donne seguirebbero la marcia e per ultimi i nostri amici con quanti
restavano ancora dei difensori del lanificio.
E i feriti? Se vi è una circostanza disgustosa, odiosa, terribile
in questi macelli d’uomini che si chiamano battaglie, essa è certamente quella
di dover abbandonare i propri feriti al nemico!
Poveri feriti! In un istante i volti dei vostri amici, dei vostri
fratelli che vi compiangevano e vi assistevano con tanta amorevolezza
spariranno! e al lor posto verranno i ributtanti, orridi, millantatori ceffi
dei mercenari, che secondo la lor scellerata natura, infrangendo ogni diritto
di guerra e delle genti, vorranno bagnare le negromantiche baionette nel sangue
vostro prezioso!
Codardi! loro che fuggirono davanti a voi; loro, cui concedeste
generosamente la vita97 sorretti ora da ventimila soldati del due
Dicembre si son rifatti arditi e, perversi!, hanno dimenticato che vi devono
l’infame loro esistenza!
In S. Antonio (America) eran pur italiani che pugnavano contra
soldati del despotismo! e molti e moltissimi furono i feriti! Là sugli omeri
dei fratelli e sui cavalli si dovevano trasportare i feriti ed uno solo vivo98
non rimase nelle mani dei cannibali di Rosas.
E sono forse da meno i cannibali del prete? Nella stazione di
Monterotondo dove dopo il glorioso assalto del venticinque Ottobre giacevano
tre feriti in attesa del convoglio che li trasportasse a Terni giunsero i
soldati del papa e, degni seguaci degli inquisitori, si divertirono a trucidare
quegli infelici nostri compagni a colpi di baionetta e col calcio dei fucili99.
Oh! Italiani! non lasciate mai in poter del nemico i vostri
feriti! È troppo miserando spettacolo! Se non verranno macellati rimarranno
esposti per lo meno agli scherni ed alle beffe di chi sciaguratamente è
assuefatto a disprezzare l’Italia!
Attilio e Muzio, stanchi e piagati, non vollero abbandonare i
feriti all’insulto ed al ferro dei soldati pretini.
Nel sito più basso del lanificio, all’estremità d’un immenso
lavatoio per la lana scorgevasi una porta di quercia massiccia, la quale
sembrava a primo aspetto dover dare sul canale delle acque, canale che
probabilmente andava a sboccare nel Tevere parte del Tevere egli stesso. E il
canale esisteva davvero, ma la porta metteva invece in un sotterraneo, a
traverso un ponte costrutto sul canale stesso.
Per quel sotterraneo cominciò a difilare la pietosa processione di
donne, di feriti e d’assistenti quando ogni speranza, non di vincere, ma anche
di resistere, era venuta meno.
Ma nella città pretina, colla corrotta miserabile educazione della
menzogna e dell’ipocrisia, troppi sono i traditori ed un traditore vi fu che
gettando uno scritto da una finestra mentre scendevano i popolani, avvertiva
gli sgherri della ritirata dei difensori.
L’assalto allora non venne più a lungo differito. Una moltitudine
sempre crescente di mercenari e di birri s’avventò sulla barricata del portone
e lo invase mentre ben pochi eran rimasti i difensori.
Attilio e Muzio, se, più amanti della propria salvezza, dati si
fossero alla fuga, forse avrebbero potuto salvare la vita ma!... erano troppo
disdegnosi quei due veri romani e non fuggirono! ed arrestarono per un pezzo
combattendo disperatamente a corpo a corpo l’irrompente ciurmaglia.
Dei nemici ne furono molti abbattuti, e un mucchio di morenti e di
cadaveri attestava l’eroismo della disperata difesa. Però gli eroi, come i
codardi hanno una vita sola! e troppi eran gli assalitori onde alla fine l’uno
accanto all’altro esalarono l’ultimo sospiro anche i due valorosi campioni
della libertà Romana!
Dentato, il canuto operaio che aveva assistito a quest’ultima
pugna, vedendo ogni speranza svanita, pratico come era del sito, col favore
delle tenebre guadagnò il lavatoio, poi il sotterraneo e chiuse su quella scena
di sangue la porta di dentro e la sbarrò come poteva meglio.
Gli assassini stipendiati dal prete altro incentivo non avendo che
la depredazione e la strage innondarono colla speranza di bottino ogni parte
del lanificio che più oggetti conteneva da rubare non curandosi del sudicio
lavatoio donde eran fuggiti i superstiti difensori della libertà italiana. Ma
il mattino vedendo che lo stabilimento altro non conteneva che cadaveri venne
loro il dubbio della sotterranea fuga.
Cercarono, frugarono e trovarono finalmente la porta salvatrice ma
il tempo trascorso, quello impiegato nell’abbattere le sbarre e il tempo per
organizzare un’entrata regolare e cauta nelle tenebre diedero agio ai fuggitivi
di mettersi in salvo dalla persecuzione.
Nei primi di Novembre 1867 scendevano alla stazione di Livorno tre
donne, un vecchio ed un garzone sul fiore degli anni.
Con quella dolente famiglia stava una di quelle figlie di Albione
che, quantunque mestissima e vestita a lutto, vi avrebbe fatto sentire la
beatitudine della vita con un solo suo sguardo.
La sua dama di compagnia, non men bella, non meno mesta, mostrava
nei lineamenti del volto quella squisitezza donnesca che Raffaello aveva amato
nella Fornarina.
La terza pure di quelle donne era bella. Ma!... la sventura le
avea troppo palesamente solcata la fronte e cert’arìa quasi di demenza si
discerneva sul suo viso.
Il canuto, che Giulia non avea voluto abbandonare alla miseria,
badava al bagaglio.
John, colla disinvoltura dei suoi tredici anni, dava mano alle
donne nello scendere dal convoglio; poi, avendo scoperto il capitano Thompson
con l’Aurelia che erano là ad aspettarli, d’un salto fu nelle braccia di lei
che lo amava come un figlio quantunque lo giudicasse un po’ troppo biricchino.
«Li ho baciati cadaveri!» mormorò John alla matrona ed una lagrima
rigava la rosea guancia del biondo figlio della Britannia. Egli accennava ad
Orazio ed Irene che tanto lo avevano amato ed eran stati i suoi salvatori.
L’abbracciarsi delle donne fu scena di pianto che l’una versava
sul seno dell’altra senza poter pronunziare una sola parola.
Dopo avere assistito a quella muta scena per un pezzo, lui pure
intenerito, il buon capitano Thompson, alzò il capo e dirigendosi alla sua
signora in inglese le disse:
«Lo Yacht è là al molo che aspetta i vostri ordini se mai
desiderate andare a bordo».
«Sì, Thompson, a bordo, e metteremo alla vela subito per uscire
d’Italia. È una terra, come dice Alfieri, ove la pianta uomo nasce più robusta
che dovunque e gli stessi atroci delitti che vi si commettono ne sono una
prova». Non molto tempo dopo lo Yacht veleggiava superbo verso la merry
England100.
Giulia, tornata nella terra natale, continuò le sue affettouse
cure alla nuova famiglia alla quale non tardarono a riunirsi Manlio e Silvia
rimasti fino allora nella Solitaria e giurò che non tornerebbe tra
questo popolo infelice se non quando Roma, libera dalla peste pretina, le
permetterebbe d’innalzare un monumento al diletto del suo cuore ed ai suoi
eroici compagni.
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