CAPITOLO I
CLELIA
Come era bella la perla del Trastevere!
Le treccie brune, foltissime; e gli occhi! il loro lampo colpiva
come folgore chi ardiva affissarla. A sedici anni il suo portamento era
maestoso come quello di una matrona antica. Oh! Raffaello in Clelia avrebbe
trovato tutte le grazie dell’ideale sua fanciulla colla virile robustezza
dell’omonima eroina2 che si precipita nel Tevere per fuggire dal Campo
di Porsenna.
Oh sì! era pur bella Clelia! E chi poteva contemplarla senza
sentirsi ardere nell’anima la viva fiamma che usciva dalle sue luci?
Ma le Eminenze? Codeste serpi della città santa, i cui cagnotti
con ogni più vile arte di corruzione cercavan pascolo alle libidini dei
padroni, non sapevan forse che tale tesoro viveva nel recinto di Roma? Lo
sapevano. E una fra l’altre agognava da qualche tempo a far sua quella bellezza
che discendeva dai Vecchi Quiriti3.
«Va Gianni, (diceva un giorno il cardinale Procopio, factotum
e favorito di Sua Santità) vanne e m’acquista quella gemma a qualunque costo.
Io non posso più vivere se la Clelia non è mia. Essa sola può alleviare le mie
noie e bearmi la stupida esistenza che trascino al fianco di quel vecchio
imbecille»4.
E Gianni, strisciando sino a terra il suo muso di volpe, colla
laconica risposta di «sì Eminenza» moveva senz’altro all’infame missione.
Ma su Clelia vegliava Attilio, suo compagno d’infanzia, ventenne,
robusto artista, il coraggioso rappresentante della gioventù romana, non della
gioventù effeminata data alle dissipazioni, piegata al servaggio, ma di quella
da cui usciva un giorno il nerbo di quelle legioni, davanti alle quali la
falange macedone indietreggiava.
Attilio, chiamato da’ compagni di studio l’Antinoo Romano5,
per la bellezza delle sue forme, amava la Clelia di quell’amore per cui i
rischi della vita sono giuochi, il pericolo della morte, una ventura.
Nella via che dalla Lungara ascende al monte Gianicolo, non lungi
dalla fontana di Montorio, era posta la dimora di Clelia. La sua famiglia era
di artisti in marmo, professione la quale permette in Roma una certa vita
indipendente, se pure indipendenza può esistere, ove padroneggiano preti.
Il padre di Clelia, già prossimo alla cinquantina, era uomo di
costituzione robusta, serbata nel suo vigore da una vita laboriosa e sobria. La
madre era pure di sana complessione, ma delicata. Essa aveva un cuore d’angiolo
e faceva le delizie della sua famiglia non solo, ma era adorata da tutti i
vicini.
Si diceva che Clelia accoppiava alle sembianze angeliche della mamma
la robusta e maestosa dignità del padre. Si sapeva che in quella santa famiglia
tutti si adoravano.
Ora intorno a questa beatitudine si aggirava il vile mandatario
del prelato nella sera dell’8 febbraio 1866.
Gianni si era già presentato sulla soglia dell’onesto discepolo di
Fidia6 che non se n’era accorto, perché si trovava con le spalle
voltate; ma vedendo ch’egli avea certe braccia abbronzate e nerborute si sentì
preso da un brivido tale che involontariamente indietreggiò sino all’altro
lembo della via. Pareva già all’emissario di sentirsi piovere addosso una
sfuriata di pugni o di bastonate.
Se non che l’artista si rivolse verso la porta e dimostrando,
sulla sua fisionomia virile, cert’aria di benevolenza, il malandrino si sentì
rinfrancare e fattosi ardito si presentò nuovamente sulla soglia dello studio.
«Buona sera, sor Manlio», principiò con voce di falsetto il mal
capitato messo. «Buona sera» rispose l’artista; ed esaminando uno scalpello che
aveva tra le mani poco badava alla presenza di un individuo ch’ei conosceva
appartenere a quella numerosa schiera di servi prostituti, che il prete ha
sostituito in Roma alla maschia schiatta dei Quiriti.
«Buona sera», ripeteva Gianni con voce sommessa e timida e vedendo
che finalmente l’altro alzava gli occhi verso lui: «Sua Eminenza il cardinale
Procopio, - proseguì, - m’incarica di dire a V. S. che egli desidera avere due
statuette di santi per adornare l’entrata del suo oratorio».
«E di qual grandezza vuole S. E. le statuette?» rispose Manlio.
«Io credo sia meglio che V. S. venga in palazzo per intendersi con
l’E. S.».
Un torcer di bocca del bravo artista fu chiaro indizio che la
proposta gli andava poco a sangue, ma come si può vivere in Roma senza
dipendere dai preti?
Tra le malizie gesuitiche dei tonsurati vi è pur quella di
fingersi protettori delle belle arti e così hanno fatto che i maggiori ingegni
d’Italia prendessero a soggetto dei loro capolavori le favole pretesche,
consacrandole per tal guisa al rispetto ed all’ammirazione delle moltitudini.
Torcer la bocca non è una negativa, e veramente bisognava vivere e
mantenere decentemente due creature, la moglie e la figlia, per le quali Manlio
avrebbe dato la vita cento volte. «Andrò» rispose seccamente dopo qualche
momento di riflessione. E Gianni con un profondo saluto si accomiatò.
«Il primo passo è fatto», mormorò tra sé il mercurio
dell’eminentissimo; «ora è d’uopo cercare un posto di osservazione e di rifugio
per Cencio». Il quale Cencio, affinchè il lettore lo sappia, era il subordinato
di Gianni, a cui il cardinale Procopio affidava la seconda parte in così fatte
imprese.
Gianni si affaccendava ora a trovare per Cencio una stanza
qualsiasi d’affitto in vista dello studio di Manlio. Il che gli venne fatto
facilmente. In quella parte della capitale del mondo l’affluenza delle genti
non è mai strabocchevole, poiché i preti, che curano tanto per sé il bene
materiale, non pensano, rispetto agli altri, che al bene spirituale. Ora il
secolo è un po’ positivo, bada al tanto per cento più che alla gloria del
paradiso, ed è per questo che Roma, per mancanza d’industria e commerci rimane
squallida e scarsa d’abitatori7
Gianni adunque dopo di avere preso a fitto una stanza, come
dicemmo, se ne tornava a casa cantarellando e colla coscienza tutt’altro che
aggravata, sicuro com’era dell’assoluzione che i preti non negano mai alle
ribalderie commesse in servizio loro.
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