CAPITOLO V
L’INFANTICIDIO
Si ritrae dalle statistiche che Roma è la città ove nascono in
maggior numero i figli naturali.
E degli infanticidi quale è la cifra che danno le statistiche?...
Nel 1849, al tempo del Governo degli uomini, io ho assistito a delle ricerche
nei penetrali di quelle bolgie che si chiamano conventi e in ogni convento non
mancavano mai gì’istromenti di tortura e l’ossario dei bambini.
Cosa era quel nascosto cimitero di creature appena nate o non nate
ancora? Un senso d’orrore rivolta ogni anima che non sia di prete dinanzi a
tale spettacolo.
Il prete invece impostore, cresciuto alla menzogna ed
all’ipocrisia, deridendo la credulità degli stupidi, è naturalmente propenso a
satollare tanto il ventre come la lussuria. E come potrebbe egli contentare gli
appetiti del corpaccio se non facendo scomparire i frutti della seduzione o
della violenza?
E così, nata, strangolata o macellata e sepolta era una creatura
umana per nascondere la libidine di chi si era consacrato alla castità.
La terra, i fiumi, il mare, certo nascondono a milioni le vittime
della scelleraggine e dell’impostura.
Povera Camilla! anche il nato dalle tue viscere andò nel carnaio
degli innocenti dopo aver esalato il respiro sotto il coltello degli sgherri
dello stesso Procopio, di quel Gianni che in questo momento s’aggira per
sedurre e perdere la perla di Trastevere, la bellissima Clelia.
Nata contadina l’infelice Camilla ebbe come l’Italia il dono
funesto della bellezza. Silvio, nelle sue caccie verso le paludi pontine,
soleva fermarsi, passando, in casa del buon Marcello, padre di Camilla, a poca
distanza di Roma. E s’era colà innamorato della fanciulla. Riamato da Camilla e
chiestala al padre, l’ottenne e si fidanzarono. Era una bella coppia quella
dell’avvenente e robusto cacciatore colla gentile e bella contadina ed entrambi
assaporavano anticipatamente con l’anima le delizie della loro unione.
Ma troppo bella era Camilla e troppo innocente in quella metropoli
della corruzione. I bracchi dell’Eminenza avean fiutato la colomba e quando
viene fiutata e tracciata la selvaggina da costoro, è ben difficile non cada.
In una escursione di caccia, il povero Silvio aveva presa la
febbre, sì comune in quelle paludi, e questo malanno fu cagione che il
matrimonio venisse ritardato e più facile si rendesse il disegno degli avvoltoi
su quella preda gentile.
Raramente ma pur qualche volta Camilla soleva recarsi a portar
delle frutta in piazza Navona e lì una fruttaiola comprata da Gianni tese tante
lusinghe e reti all’innocente contadina che la fece finalmente cadere nella
trappola.
La caduta non rimase a lungo occulta. Il ventre ingrossando
minacciò svelare l’arcano, onde temendo del padre e dell’amante, la povera
Camilla si lasciò persuadere ad occupare una stanza nel palazzo Corsini ove a
bell’agio il cardinale poteva continuare la tresca coll’infelice.
Il parto riuscì un bambino e quel bambino fu destinato come tanti
altri al carnaio.
Camilla ne impazzì e grazie alla generosa pietà del porporato, il
quale sognava nuovi amori, fu rinchiusa in un manicomio. Una notte però, sia
colla violenza, sia deludendo la vigilanza dei custodi, la pazzarella riuscì a
guadagnare l’aria libera. Uscì, vagò, vagò a lungo in quella notte tempestosa,
senza direzione preconcetta, finché per caso avvicinatasi al Colosseo le parve
intravvedervi una luce, avanzossi. In quel momento il precursore della folgore
avea rischiarato ogni cosa e fra le altre le sentinelle che vigilavano
all’ingresso dell’anfiteatro.
L’istinto, un vago presentimento la spinsero verso quegl’individui
che almeno non avevano l’aria di preti. Costoro vollero arrestarla, ma Camilla
avea in quella notte una forza sovrumana. Si svincolò, salì e giunta al
loggione cadde spossata in mezzo ai trecento.
Povera Camilla! E Silvio che l’aveva riconosciuta, raccontava ai
compagni la storia dell’infelice. «È tempo, - ripigliava Attilio, - di purgare
la nostra città da questo immondo pretume» ed un lampo di sospetto per la sua
Clelia, forse in procinto di cadere fra gli artigli delle belve istesse,
balenatogli alla mente, il suo pugnale venne fuori come una striscia di fuoco.
Quindi brandendo il ferro, Attilio sclamò:
«Maledizione a quell’indegno Romano che non sente l’umiliazione
della sua patria e che non è pronto a bagnare il suo ferro nel sangue de’
tiranni che la deturpano facendone una cloaca».
«Maledizione! Maledizione!» rimbombò per più minuti l’ampia volta
delle ruine, ed il tintinnio de’ ferri cozzanti, faceva riscontro al clamore
delle voci; terribile musica all’indirizzo de’ corrotti e scellerati padroni di
Roma.
«Silvio! - ripigliava Attilio - questa fanciulla più infelice che
colpevole, abbisogna di protezione e tu generoso non gliela niegherai. Vanne e
l’accompagna, ed il giorno della riscossa, noi siamo certi, non mancherai al
tuo posto».
E Silvio era generoso davvero e amava ancora la sua disgraziata
Camilla. Costei alla vista dell’amante parve quasi per incanto calmata dal
morboso furore, e tacita, rannicchiata era diventata docile come un agnello.
Silvio le si accostò, sollevolla, l’avvolse nel proprio mantello e
dolcemente tenendola per mano, la condusse fuori del Colosseo verso
l’abitazione di Marcello.
«Per il quindici alle Terme di Caracolla, e pronti a menar le
mani!...».
«Pronti! Pronti!» ripeterono i trecento. Ed in pochi minuti il
deserto delle rovine avea ripreso la sua tetra spaventosa solitudine.
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