CAPITOLO VII
IL LEGATO
Il fenomeno della insaziabile tendenza pretina al solo godimento
dei beni materiali è cosa a tutti nota, mentre pur tutti sanno egualmente che
per il resto del mondo, cioè per chi non è prete, essi predicano e millantano i
beni spirituali d’una vita avvenire colla gloria del paradiso!
Osservate bene e ben ponderate quella gloria dei preti: «Gloria
del Paradiso! Maggior gloria di Dio!». Udite sacrilegio da impurissima
bocca: Gloria a Dio! Come se l’Onnipossente, l’Eterno, l’Infinito potesse
essere illustrato, glorificato da quella razza di vermi! Agli stolti
l’ignoranza e la miseria, per la maggior gloria di Dio; ai preti la crapula,
ricchezze e lussuria, sempre per la maggiore gloria di Dio!
Oggi non più ma in passato, i preti, a forza d’imposture e per
l’ignoranza delle genti accumularono sterminate ricchezze. Esempio ne sia la
Sicilia ove la metà dell’isola apparteneva ai preti e frati d’ogni specie.
E due erano le principali sorgenti delle ricchezze loro. La prima
proveniva dalle donazioni dei grandi, i quali dopo aver trascinata un’esistenza
di delitti credevano, cedendo al clero una parte dei loro furti, rendere
legittimo il possesso dell’altra e sottrarsi al castigo di Dio.
La seconda sorgente di ricchezze i preti la derivavano al
capezzale degl’infermi ove padroni dei loro ultimi istanti, colle paure
dell’Inferno e del Purgatorio da loro suscitate, carpivano legati e bene spesso
l’intere eredità dai morenti a pregiudizio dei figli che riduceano senza pietà
alla miseria.
Correva il dicembre del 1849. La Repubblica Romana, sorta dai voti
unanimi dei rappresentanti legittimi del popolo, era stata sepolta da alcuni
mesi dalle bajonette straniere. I preti ripigliata l’antica possanza dovevano
riempire le prebende un po’ smunte da quegli eretici di repubblicani ed il
conforto, la cura, il sollievo delle anime dovevano ancora provvedere al conforto,
alla pienezza, alla libidine di quei corpi beati!
Erano di poco trascorse le nove e fittissima era calata la notte
sulla piazza quasi deserta della Rotonda. Sapete voi cos’è la Rotonda? Quella
chiesuola ove ogni mattina poche donnicciuole vanno a far corona ad un
pretuncolo per la maggior gloria di Dio? Ebbene la Rotonda è il Pantheon
dell’antica Roma! Un tempio che conta duemila e più anni, e direste eretto
appena ieri tanto la sua conservazione è perfetta, tanto la sua architettura è
sublime.
Ogni colonna del suo peristilio sarebbe pagata a peso d’oro
dall’antiquario straniero ed il gigante della scoltura Michelangelo, cui questa
Rotonda bastava a turbare i sonni, non fu tranquillo se non dopo di
avere innalzato nello spazio quel tempio di tutti i dei e postolo come cupola
sul colosso monumentale dell’universo12.
Ma il prete ne ha fatto la Rotonda, come del Foro Romano,
ove s’adunavano i padroni del mondo per discuterne le sorti, ne fece un Campo
Vaccino!
Erano dunque le nove d’una notte oscura di dicembre ed a traverso
la piazza della Rotonda si vedeva scivolare qualche cosa di nero che t’avrebbe
posti i brividi nelle ossa, fossi tu stato uno dei coraggiosi militi di
Calatafimi.
Era ribrezzo o paura il sentimento svegliato dall’apparizione di
quel fantasma? Non lo saprei spiegare ma credo fosse l’uno e l’altra ed erano
giustificati entrambi, poiché sotto la nera sottana che ti scivolava davanti,
batteva il cuore d’un demonio, anelante al compimento di tale delitto, che solo
l’anima d’un prete può ideare ed eseguire.
Giunto al portone di casa Pompeo, situata in un lato della piazza,
il prete dava mano al battente, lo lasciava cadere leggero, quindi tiravasi un
po’ indietro, ricercando collo sguardo la fitta tenebria, timoroso ch’alcuno
non lo scorgesse mentre era intento a compiere la scena scellerata, ch’egli
doveva aggiungere ai lugubri drammi della sua vita d’infamie.
Ma chi si curava del perpetratore d’un delitto ove dominavano il
mercenario straniero ed il prete! Dove in una popolazione immensa, il poco di
buono che c’era, stava imprigionato, proscritto, o ridotto alla miseria?
Il portone della nobile casa venne schiuso. Il portiere
riconosciuto il reverendo padre Ignazio, con un strisciante inchino lo salutò,
baciògli la mano e gli fece lume accompagnandolo fino ai primi gradini della
scala più per cerimonia che per bisogno essendo già ben rischiarato dalla
lampada l’ampio scalone d’una casa delle più opulente di Roma.
«Ov’è Flavia?» chiese il chiercuto al primo servo che gli capitò
davanti, e Siccio, che tale era il nome del servo, proprio Romano davvero e
poco simpatico all’uccello di cattivo augurio: «Al capezzale della morente»
rispose, e voltò le spalle.
Ignazio con passo frettoloso, siccome ben pratico della casa,
s’incamminò verso una stanza da letto che chiudeva una serie di salotti e di
stanze ricchissime. Giunto alla porta faceva udire (sommesso però) certo
grugnito che avea del bestiale, ma ben inteso e capito egualmente, poiché in un
attimo, lo schifoso ceffo d’una vecchia suora comparve sull’uscio, schiuse,
introdusse premurosamente il prete e scambiò con lui uno di quegli sguardi che
avrebbero agghiacciato il sole, se fossero stati ricambiati al suo cospetto.
«È fatto?». «È fatto!» era la risposta della donna, ed entrambi
s’incamminarono verso il giaciglio della morente.
Don Ignazio trasse di sotto alla gonnella una boccetta, ne vuotò
il contenuto in un bicchiere ed aiutato dalla suora, sollevò il capo della
moribonda che aprì macchinalmente la bocca e bevette fidente od inconscia tutta
la pozione.
Un sogghigno di soddisfazione infernale volava dall’uno all’altro
viso dei due scellerati. Abbandonarono sui cuscini il capo già insensibile
della vecchia infelice, si ritirarono quindi tranquillamente a sedere in un
angolo della stanza. Quivi Flavia passava nelle mani del prete un foglio;
questi, senza leggerne il contenuto, che ben conosceva, volava coll’occhio alla
firma, la fissava per qualche momento, poi ripiegando lo scritto, lo intascava
con mano convulsa, senza aggiungere altro che un «Sta bene! Voi avrete la
vostra ricompensa!».
Era quel foglio il testamento della signora Virginia, madre di
Emilio Pompeo, morto sulle mura di Roma, da piombo napoleonico. La moglie di
Enrico dopo averlo assistito nella lunga agonia, vinta dal dolore, alla sua volta
soccombette lasciando un bimbo di due anni, unica prole orbata dei genitori,
cui rimaneva soltanto l’appoggio della vecchia ava.
Virginia amava ancora il suo Muzio, unico rampollo
dell’antichissima stirpe dei Pompei, con affetto vivissimo, e certo non avrebbe
mancato di lasciarlo in possesso della vasta eredità di famiglia: ma che
volete? come tante donne ignorava che sotto la nera sottana batte l’anima
dell’inferno.
Don Ignazio con quella ipocrisia e sottigliezza che paiono
privilegio della casta pretina, Don Ignazio confessore della vecchia, a forza
di giri e rigiri era pervenuto ad ottenere che sul suo testamento
s’introducesse un legato a suffragio delle anime del Purgatorio, ma se questo
accontentava le anime del Purgatorio, non rendeva pago lo scellerato, il quale
agognava all’intera proprietà della casa Pompeo.
Ammalatasi la vecchia Virginia, Ignazio le fece accettare Flavia
per infermiera e col suo mezzo, e assiduamente vigilandola senza quasi
permettere ch’altri l’avvicinasse, quando il corpo e la mente dell’infelice per
l’aggravarsi del male s’andarono indebolendo, il ribaldo non trovò difficoltà a
sostituire al testamento che portava il legato un nuovo testamento che lasciava
per intero l’eredità Pompea alla corporazione di S. Francesco di Paola, creando
per giunta don Ignazio stesso esecutore testamentario.
Non mancavano i testimoni idonei e la bigotta sottoscrisse
la miseria e lo spoglio dell’infelice bambino per impinguare la crapula di quei
figli della maledizione.
Intanto Muzio, diseredato, dormiva placidamente nella sua
cameretta ancora adorna dalla mano materna in un magnifico letticino. Orfano
infelice! che il domani doveva svegliarsi mendico.
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