CAPITOLO VIII
IL MENDICO
Diciott’anni sono trascorsi da quella sera fatale in cui un prete
nero nero come la befana avea traversato la piazza della Rotonda per commettere
il nefando delitto che abbiamo narrato e noi ritornando sulla stessa piazza
vediamo appoggiato ad una delle colonne del Panteon un mendico avvolto nel
solito mantello foggiato a toga.
Non era questa volta una notte oscura di dicembre. Era un tramonto
procelloso di febbraio.
Il mendico teneva avvolto intorno alla persona lo sdruscito
mantello tanto da nascondere anche la parte inferiore del viso ma alle scarse
sembianze che rimanevano svelate scoprivasi una di quelle fisonomie che vedute
una volta ti restano impresse per tutta la vita.
Un naso Romano divideva due occhi azzurri che avrebbero
abbarbagliato un leone: benché coperte il contorno delle spalle era mirabile e
mostravano di appartenere a tale che non sarebbe stato facile insultare
impunemente. L’attitudine, il contegno della persona apparivano imponenti, e lo
scultore spesso dovette aver ricorso a quel mendico quando volle inspirarsi ad
un atteggiamento eroico13.
Un piccolo tocco sulla spalla scosse il mendico dalla sua
immobilità contemplativa. Si volse e con piglio famigliare disse al
sopravvenuto: «Sei qui fratello!» e sembrava veramente un fratello di Muzio
quegli a cui egli dava quel nome. Egli era Attilio, l’amico nostro, il quale
alle parole di Muzio soggiunse:
«Sei tu armato?».
«Armato?» rispose alquanto sdegnoso il mendico.
«Il mio ferro, tu lo sai, fu il mio solo retaggio, tutto il mio
patrimonio! vuoi tu ch’io l’abbandoni, io che l’amo quanto tu poi amare la tua
Clelia ed io... la mia?». Poi, levando in alto gli occhi dopo un istante di
pausa con amaro piglio continuava: «Ma e che giova l’amore ad un mendico, ad un
reietto della società umana? Chi crederà che palpiti qualche cosa sotto un petto
coperto di cenci?».
«Eppure,» soggiungeva Attilio, rispondendo alla digressione del
mendico, «quella bella straniera, sono sicuro che ti ama, quanto è capace di
amare una donna».
Muzio tacque e d’improvviso annuvolossi, il che Attilio scorgendo
e dubitando si sollevasse qualche tempesta nell’animo contristato dell’amico lo
prese dolcemente per mano e gli disse: «Vieni» e Muzio lo seguì senza proferire
parola.
Intanto la notte scendendo, copriva col nero suo manto la città
eterna. Per le vie silenziose, i passanti s’eran fatti più radi, l’ombre dei
palagi e dei monumenti si confondevano colle tenebre e solo alcune pattuglie di
stranieri rompevano il silenzio della notte col loro passo misurato e pesante.
Preti a quell’ora se ne incontravano pochi. Non s’incomodano, né
si fidano: la tepida sala è preferibile alla squallida via, poi nella notte
sono poco sicure le strade di Roma ed i preti, meno di chicchessia, amano di
mettere la preziosa loro pelle in pericolo.
«La finiremo un giorno con questi mercenari che la fan da birri ai
preti» diceva il mendico tornato in calma al suo compagno.
«Oh sì! la finiremo, e presto» rispondeva Attilio.
Così discorrendo ascendevano il Quirinale, oggidì Monte Cavallo,
per le due famose statue equestri, capo-lavoro dell’arte greca che sulla piazza
si ammirano.
Giunti a pié dei colossi si fermarono entrambi. Attilio tolto di
tasca un acciarino ne trasse delle scintille; all’estremità della piazza lo
stesso segnale si ripetè, e allora i due amici si avanzarono.
Prima di giungere all’ultimo limite della piazza un militare del
picchetto di guardia al palazzo facevasi innanzi, stringeva la mano ad Attilio
e conduceva i due verso una porticina laterale al portone d’entrata. Entrarono.
Passato un angusto corridoio salirono una scaletta e si trovarono in una stanza
apparentemente lasciata a disposizione del comandante la guardia.
Tutti gli arredi della stanza consistevano in un desco ed alcune
sedie; sul desco varie bottiglie, parecchi bicchieri ed un lumicino ad olio.
Quivi, dopo aver fatto sedere gli ospiti, ed essersi lui pure seduto, il
militare ruppe il silenzio dicendo:
«Beviamo un bicchiere d’Orvieto, compagni, che val più d’una
benedizione del Santo Padre, in questa notte d’inverno», e presentava così
dicendo un calice del benefico liquore ai due amici.
«L’han dunque condotto qui Manlio?» chiese Attilio appena libato
il primo sorso.
«Qui, siccome ti ho avvertito», riprese Dentato il sergente dei
dragoni; «fu la scorsa notte verso le undici, e lo hanno rinchiuso in una
segreta come fosse un gran delinquente. Dicono però che presto lo
trasporteranno in castel S. Angelo, essendo queste prigioni soltanto di
transito».
«E si sa per ordine di chi sia stato arrestato?» riprese Attilio.
«Eh! per ordine del favorito, del cardinale ministro; si dice e si
aggiunge,» continuò il militare, «che Sua Eminenza voglia stendere la mano
potente non solo sul padre, ma anche sulla figlia, la perla di Trastevere».
Un movimento convulsivo di rabbia agitò Attilio alle ultime parole
del sergente e:
«A che ora tenteremo di liberarlo?» chiese con visibile
impazienza.
«Liberarlo! ma siamo in pochi per riuscire davvero», rispose
Dentato.
«Fra un’ora sarà qui Silvio con dieci dei nostri; con tal rinforzo
saremo sufficienti ad assalire tutta quella caterva di birri e di preti»,
soggiunse Attilio con accento d’uomo convinto.
Un istante di silenzio successe a queste ultime parole. Allora
Dentato:
«Poiché hai deciso di tentare questa notte, dovremo aspettare
almeno sino alle dodici. Allora direttori e custodi saranno in potere di Bacco
e forse già addormentati. Il mio tenente poi ha trovata certa Lucrezia nelle
vicinanze, la quale basterà per tenercelo discosto fin presso al mattino».
Le parole di Dentato furono tronche dall’entrare del dragone
lasciato di guardia alla porta, il quale annunzio l’arrivo di Silvio co’ suoi.
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