CAPITOLO XII
LA SUPPLICA
Eran passati due giorni dall’arresto di Manlio e ancora non se ne
sapevano notizie. Le donne sue erano alla disperazione.
«E che sarà del tuo buon padre?» diceva Silvia piangendo alla
figlia. «Egli non s’è mischiato mai in affari compromettenti, che era liberale
sì e odiava i preti com’essi meritano d’esserlo, ma non esprimeva le sue
opinioni che con noi e coi nostri intimi; come ha potuto destare sospetti nella
polizia?».
Clelia non piangeva ed il suo dolore per la disparizione del
padre, più concentrato, era più forte di quello della madre. Anzi trovava la
forza di confortarla e: «Non piangete» le diceva, «il pianto a nulla rimedia.
Bisogna sapere ove hanno condotto mio padre e, come dice monna Aurelia, cercare
di liberarlo ricorrendo ove sia di mestieri14. Poi Attilio è in cerca
di lui e certo, egli non poserà finché non sappia che cosa ne sia avvenuto».
Le due donne così ragionando cercavano di confortarsi, quando il
battente della porta annunziò una visita. Clelia corse ad aprire ed introdusse
monna Aurelia, una buona vicina ed amica della famiglia.
«Buon giorno monna Silvia».
«Buon giorno», rispondeva l’addolorata asciugandosi gli occhi col
fazzoletto. «Ecco qui» diceva Aurelia, «il nostro amico Cassio, cui ho parlato
dell’affare, ha scritta questa supplica in carta bollata per chiedere al
Cardinale-Ministro la liberazione di Manlio. Egli mi disse che voi dovete
sottoscriverla e per maggiore sicurezza presentarla voi stessa all’Eminenza».
Silvia impicciata per la prima volta in queste faccende ripugnava
d’andarsi a gettare ai piedi d’uno di quei demoni ch’essa aveva imparato ad
odiare sino dall’infanzia. Ma come si fa? Trattavasi di uno sposo adorato,
imprigionato, forse alla tortura. E quest’idea metteva un raccapriccio di morte
in cuore alla povera donna.
Poi Aurelia consigliava ci andassero tutte due ed offrivasi di
accompagnare le amiche al Palazzo Corsini;
«Andremo dunque» diceva Silvia finalmente risoluta. In mezz’ora
eran le donne pronte, ed incamminate verso l’eccelsa dimora del delitto.
Eran le nove del mattino quando S. Eminenza il cardinale Procopio,
ministro di Stato, fu avvisato dal Questore del Quirinale della fuga di Manlio
e del modo violento con cui era stato sottratto. La furia del prelato fu somma.
Immediatamente ordinò si arrestassero quanti birbanti attendevano alla custodia
del Quirinale e delle sue prigioni e direttori, custodi, ufficiali di guardia,
dragoni, birri, tutto quanto si trovava nel palazzo era posto in arresto per
ordine perentorio dello sdegnato ministro. Poi, dopo aver provveduto a questo
primo sfogo, fece chiamare Gianni alla sua presenza.
«E come diavolo» gridò apostrofando il Gianni appena fu entrato
«non hanno rinchiuso quel maledetto scultore in Castel S. Angelo ove egli
sarebbe stato al sicuro? Perché l’hanno condotto al Quirinale ove quella
canaglia di custodi se l’hanno lasciato fuggire?».
«Eminenza!» rispondeva Gianni «quando si tratta di qualche affare
importante come questo, l’E. V. lo affidi a me e non a quella ciurmaglia di
birri, che V. E. sa cosa sono e quanto valgono. Robaccia vile» aggiungeva il
Gianni coll’onesto intento di sollevare sé stesso deprimendo altrui «gentaglia
che si lascia egualmente impaurire e corrompere...».
«Cosa mi vieni questa mattina ad annoiare co’ tuoi sermoni,
ribaldo!» interruppe l’Eminenza «come se io avessi bisogno de’ consigli tuoi!
Tuo dovere è di servirmi sempre senza far parole. Fruga ora nella tua testa di
rapa per cercar modo di condurmi qui quella ragazza, se no, per Dio, i
sotterranei del palazzo udranno risuonare presto lo schifoso tuo falsetto sotto
la stretta della corda o il pizzicare della tenaglia».
Sapeva ognuno, e quant’altri sapevalo Gianni, che queste non erano
vane minaccie e se il mondo crede l’èra della tortura finita, in quel
pandemonio della Città santa essa esiste in tutta la sua pienezza.
E Gianni sapeva che i sotterranei delle chiese, de’ conventi, dei
palazzi e le catacombe nascondono delitti e patimenti tali da far inorridire
gli assassini medesimi.
A capo chino, il miserabile eunuco (tale egli era, giacché simili
ai Turchi quei perversi non confidano le loro donne che a castrati, mutilati
dall’infanzia, col pretesto di farne dei cantanti) aspettava la sua sentenza
senza fiatare.
«Alza quegli occhi di volpe» disse vedendolo intontito il
porporato «e guardami in faccia». E quegli tremante fissava gli occhi sul volto
infiammato del suo padrone. «Non saresti dunque capace, birbante, dopo avermi
fatto spendere tanto denaro, sotto un pretesto o l’altro di portarmi qui la
Clelia?».
«Sì signore» era la risposta di quel manigoldo il quale voleva
uscire prima di tutto dalla vista del cardinale e pel resto si affidava alla
sua buona stella.
In quel momento, con gran soddisfazione di Gianni che intravide
una nuova occasione per essere licenziato, il campanello annunziava una visita
ed un servitore in livrea fattosi avanti:
«Eminenza! - diceva - tre donne, con una supplica chiedono di
potersi presentare all’E. V.»
«Entrino» fu la risposta di Procopio, ma a Gianni non fece motto.
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