CAPITOLO XVII
LA GIUSTIZIA
Giustizia! santa parola, prostituita, derisa dai potenti della
terra! Cristo era inchiodato sulla croce per mano della giustizia, Galileo dalla
giustizia posto alla tortura. E non sono la giustizia, l’ordine, le leggi, che
governano questa babilonia che si chiama Europa civile?
L’Europa! ove chi fatica muore dalla fame e gli oziosi nuotano
nell’abbondanza e nella lussuria, ove poche famiglie signoreggiano le Nazioni e
le mantengono in un perpetuo stato di guerra colle altisonanti parole di
patriottismo, lealtà, onore della bandiera, gloria militare, ove una metà del
popolo è schiava e l’altra metà fa giustizia, bastonando gli schiavi quando hanno
l’ardire di lamentarsi!...
Sovente un po’ di «giustizia-pugnale» o «giustizia-carabina»
rompono la monotonia delle giustizie legali, ed allora si grida all’assassinio.
Orsini19 assassino è decapitato, e Bonaparte che assassinò nessuno a
Parigi, a Roma, al Messico, è un magnanimo! e che so io!
Qui però si prepara giustizia, vera giustizia, sia essa fatta col
pugnale o col cannone, mentre là in quella tana di iene sollazzano, banchettano
i depredatori delle sostanze del povero, i depravatori di una nazione di
venticinque milioni.
Là nel Palazzo Corsini stanno Procopio ed Ignazio che noi
conosciamo e di cui conosciamo i delitti, e qui fuori, pronto a fare giustizia
degli scellerati stanno Attilio, Muzio, Silvio e venti compagni dei nostri
trecento.
Questi superbi figli di Roma hanno capito e sentono che per Io
schiavo non v’è pericolo, non v’è impresa difficile quando si consideri la vita
quale l’hanno resa i tiranni: un disprezzevole arnese.
L’anima di questi prodi è tranquilla come alla vigilia d’una festa,
il loro cuore batte, ma di speranza, ma di desiderio che venga presto l’ora di
menar le mani e l’ora non è lontana! Essi passeggiano per la Longara aspettando
le dieci, ma non passeggiano insieme perché il governo dei preti vieta le
riunioni.
«Saranno riuniti all’opera!».
Nel palazzo la triade de’ perversi col pretesto
dell’interrogatorio aveva separate le donne e lasciata sola la Clelia. Questa,
prevedendo inganni, traeva dalla capigliatura un pugnaletto che si usa portare
dalle donne romane e dopo d’averlo considerato ed assaggiatane la punta, lo
nascose alla cintura sotto le pieghe del vestito. Clelia era degna di coloro
che anelavano alla sua liberazione.
Dopo le nove il prelato, adornata la persona nel modo ch’egli
credeva più ricco ed attraente, si accinse all’assalto della fortezza (così
chiamava lui le sue seduzioni infami). Aprì dolcemente la porta della stanza
ove si trovava Clelia, biascicò un «Buona sera, signorina», a cui con voce
piuttosto disdegnosa rispondeva la Clelia: «Buona sera».
«Mi scuserete se vi ho trattenuta per tanto tempo in questa
stanza, ma - soggiungeva con voce melliflua il volpone, - volevo proprio io
stesso venire a congedarvi ed annunziarvi che qualunque cosa sia successa a
vostro padre sarà da me dimenticata.
Volevo poi che sapeste, bellissima fanciulla, - continuava a dire
l’infame - ch’io non vi vedo per la prima volta e che da quando vi vidi io arsi
per voi dell’amore il più puro».
Nel terminar questo astuto discorso, trascinando la serica
sottana, il tentatore si avvicinava a Clelia. Ma questa, inarcando certe ciglia
leonine, si mantenne tra un tavolino ed il prelato a cui sarebbe stato
impossibile poterla raggiungere s’anco fosse stato agile e svelto al pari di
lei.
Invano egli la supplicò, adoperando tutte le lusinghe di cui era
capace. Sempre più fieramente le rispondeva la nostra eroina, laonde, furioso
il prete che vedeva scorrere il tempo senza approdare a nulla tornò alla porta,
fece un segno e comparivano in suo soccorso Don Ignazio e Gianni.
Accortasi del pericolo di dover lottare contro i tre, Clelia
trasse risolutamente il pugnaletto e mentre furibonda e con voce commossa
esclamava: «Piuttosto m’immergerò questo ferro nel cuore» il maledetto vecchio,
ladro delle sostanze del povero Muzio, s’andava avvicinando in modo da poter
lanciare la sua mano di falco sulla destra della fanciulla, che strinse come
una tenaglia. L’eunuco alla sua volta dalla parte sinistra la raggiunse e tra i
due tentarono di domarla, disarmandola del pugnale.
Non fu però facile impresa. Clelia si dibattè con tanto furore che
il demonio di prete e l’eunuco avevan già le mani intrise di sangue quando si
fece innanzi anche il corpulento e dissoluto ausiliario. I tre riuniti finirono
a domare la povera fanciulla, disarmarla e condurla scapigliata in un’alcova
attigua alla stanza, alcova senza dubbio destinata a tali oscene nequizie.
Chi ha letto la storia dei Preti ricorderà che un Farnese, figlio
di Papa, turpemente violò un vescovo di Fano di cui s’era innamorato facendolo
tenere dai suoi scherani. Che cosa ci sarebbe di strano adunque, se lo stesso
spediente si usasse con una femmina? A tanto si preparavano questi servi di Dio
contro la svenuta, sventurata fanciulla!
In quel mentre però un baccano d’inferno s’intese di fuori, un
urto terribile sconficcò la porta e in mezzo alla stanza furono visti piombare
due uomini il cui volto avrebbe fatto impallidire il demonio. Eppure eran bei
volti quelli! belle fattezze! ingigantite da quel sentimento sublime che crea
gli eroi!
Attilio fuori di sé, corse all’amata fanciulla e forse i
malandrini profittando di quell’errore avrebbero potuto svignarsela, che, lì
era Muzio solo, freddo e solenne, girando lo sguardo tagliente sui tre
atterriti. Dopo un momento entrava Silvio, all’arrivo del quale, Muzio, additandogli
la porta, «Nessuno esca» disse.
Poi col pugnale alla mano ordinò, pena la vita, al prelato di
coricarsi boccone. La stessa ingiunzione fece ai due complici; quando furono in
quell’attitudine, tirò fuori una corda e cominciò a legare il più grasso colle
mani di dietro. Chiese poscia ad Attilio altra fune e legò Gianni. Il
Monsignore riservò per ultimo e mentre stringeva il legame tanto da stritolare
le ossa degli scellerati, un maligno sorriso sfiorava la bella bocca del
mendico.
Ahi! gridava il prete, mentre Muzio stringeva; e quegli:
«Perverso! non gridavi ahi! nella notte in cui hai derubato un orfano delle sue
sostanze e lo riducevi alla mendicità. Non mormoravi ahi! quando portavi le
vergini infelici a questo infame stupratore!».
Non voglio nauseare chi legge con tutte le bassezze, le
giustificazioni, i giuramenti, le preghiere di questi tre perversi, per aver
salva la vita. Invano! troppo sanguinose eran le ingiurie ricevute dai nostri
tre amici e troppo prezioso l’olocausto dei tre mostri alla libertà di Roma.
Clelia, Camilla, Manlio, vittime loro, dovevano essere vendicate. Colle mani
legate dietro alla schiena ed una corda al collo, uno dopo l’altro, i tre
malfattori presto penzolarono fuori della finestra della stanza di un’altezza
di due piani dal terreno, ed al far del giorno, nella folla che si riuniva a
contemplare l’orrendo spettacolo, una voce s’udì risuonare dicendo: «Così,
devono finire coloro che in quindici secoli di menzogne, di corruzioni e
d’inganni hanno ridotto la Metropoli del mondo una cloaca».
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