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Giuseppe Garibaldi
Clelia ovvero Il governo dei preti

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    • CAPITOLO XXI   IL TRADITORE
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CAPITOLO XXI

 

IL TRADITORE

 

La liberazione di Manlio e l’assalto di palazzo Corsini avevano spaventato il governo Pontificio. Mentre preparava solenni esequie al cardinale Procopio e ai compagni, avea messo sotto le armi quanta truppa straniera ed indigena v’era in Roma. La polizia coi suoi cagnotti era in grande confusione. Al minimo sospetto si arrestavano cittadini di ogni classe e le carceri ne rigurgitavano.

Il governo dei preti aveva saputo comprare un traditore perfino fra i trecento. Per buona sorte costui non s’era trovato coi dieci del Quirinale, né tra i venti del Corsini. Egli però sapeva della riunione alle Terme di Caracalla e ne aveva informata la Polizia.

Assuefatti alla congiura, gli italiani, sanno ciò che sia una contro-polizia. Ma per chi non Io sapesse: essa è una polizia di congiurati, che regola e conosce le mene di quella del governo.

Il capo della contro-polizia liberale era Muzio e ben gli serviva la sua qualità di mendico; poiché tra quei tanti infelici che accattano il pane nelle vie e sulle piazze di Roma i preti trovano sempre alcuno che si vende coll’infame patto della delazione. Muzio non lo ignorava e, coll’intelligenza superiore che lo adornava aveva saputo dai suoi emissari far vigilare gli emissari dei preti.

L’ultime ombre dei congiurati (perché veramente sembravano ombre che traversassero quelle macerie) eransi introdotte nella gola del sotterraneo. Attilio aveva fatta la dimanda: se le sentinelle erano a posto: il lume, dopo la risposta affermativa, aveva rischiarato le austere fisionomie dei nostri giovani, quando un fischio simile a sibilo di serpente fece risuonare le antiche volte dello speco.

Era questo segnale d’allarme ed era il mendico che lo mandava, il quale, messo appena il piede sull’entrata del sotterraneo «non v’è tempo da perdere - esclamava -, non solo siamo accerchiati da forza armata da questa parte ma altra forza ha già preso posizione all’uscita settentrionale del sotterraneo!».

L’imminente pericolo in luogo di far impallidire quei prodi, gettò sulle loro maschie fisonomìe un’aria di giubilo. Tale è la coscienza del vero coraggio, massime quando serve la sacrosanta causa della libertà e della patria, ed Attilio girato uno sguardo di compiacenza sul consesso imponente ordinò a Silvio di recarsi con due compagni all’estremità del sotterraneo ed informarlo di quanto accadeva.

All’entrata compariva una sentinella e confermava quanto Muzio aveva asserito, ma dalla parte opposta, niuno si faceva innanzi, il che dava a supporre che le sentinelle, da quella parte, potessero essere state arrestate.

Appena però Silvio giungeva all’estremità del sotterraneo alcune fucilate dal di fuori annunziavano il conflitto, mentre rientravano al tempo istesso i quattro compagni, che si trovavano di guardia in quella parte, per dar notizia dell’arrivo di numerose truppe. Silvio tornò indietro e ragguagliò il suo capo di quanto accadeva.

Attilio allora diede questi ordini: «Muzio formerà la avanguardia coi suoi cento, io lo seguiterò coi miei. Silvio colla sua schiera starà alla retroguardia. Con uomini come voi, io posso risparmiare ogni incoraggiamento: dirò soltanto, che qualunque sia la forza che noi abbiamo a fronte, dobbiamo caricarla in massa col pugnale alla mano. I primi venti della tua schiera, disse a Mimo, marcino radi e adagio sino ad incontrare il nemico. Scoperto, lo assaltino gridando e a passo di corsa. Noi vi seguiremo da vicino».

Dopo queste poche parole Muzio, disposti i venti e dato un colpo d’occhio al resto della sua schiera, si avvolse la toga al braccio sinistro e col pugnale nella destra si avanzò dicendo: «seguitemi!».

L’antro sembrò in quel momento vomitare un torrente di lava ed all’oscuro, perché ogni lume era spento, cupi, silenziosi, s’avanzarono i discendenti dei Fabii, pronti ad affrontare i satelliti del dispotismo.

I primi soldati che s’incontrarono coi nostri ebbero appena il tempo di spianare i fucili, che in un lampo si trovarono avviluppati dai terribili aggressori e volti in fuga. Un urlo tremendo di «avanti!!!» uscito da trecento maschie e sonore voci incuteva una paura di morte anche nei men codardi di quella bordaglia.

In men ch’io noi dica il Campo Vaccino e poi le vie di Roma diventarono fiumi di fuggenti. Elmi, sciabole, fucili, si trovarono seminati sul lastrico delle vie e più feriti vi furon daglinciampi in quelle armi che da mano nemica. Molti incespicando rovesciati cagionavano la caduta dei vegnenti dimodoché in certi luoghi si trovavano qua e colà monti di mercenari e di birri. Alcuni si lamentavano, altri mostravan tanta paura nelle ossa che gridavano: «Non mi uccidete, signor liberale, ch’io mi sono arreso».

Frattanto i prodi campioni della libertà di Roma, dopo d’aver fugato i mercenari pretini si separavano e tranquillamente ripigliavano la via delle loro case sparpagliati in piccoli gruppi.

Quanto valga l’uomo di coraggio è cosa incredibile! Un uomo può mettere in fuga un esercito e non è esagerazione. Io ho veduto degli eserciti colti dal panico fuggire davanti non ad un uomo solo ma a meno d’un uomo, davanti ad un pericolo immaginario. Un grido di «salva chi può!», «Cavalleria!», «il nemico!», risonante di notte ed anche di giorno con qualche tiro di fucile o senza, basta a mettere in fuga un corpo di truppa che ha combattuto e combatterà in altra circostanza col maggiore coraggio. Comunque sia, il panico è vergognoso e, veramente veduto e considerato con pacatezza, esso ha qualche cosa di degradante. Io vorrei non aver mai a vedere gl’Italiani colti da terror panico. Eppure pare che i popoli meridionali e più spiritosi, come il Francese, l’Italiano, lo Spagnolo vi siano più soggetti dei popoli freddi e posati del settentrione.

Dei liberi, pochi furono i feriti, il che succede sempre ai valorosi; dei mercenari però molti furono i feriti da loro stessi, e si contarono alcuni morti.

Tra i cadaveri che all’albeggiare si distinsero nelle vicinanze delle Tenne, v’era un giovane col mento appena coperto di lanugine, era supino e sul suo petto a grandi caratteri si leggeva la parola traditore.

Giovinetto senza esperienza, Paolo, ebbe la disgrazia d’innamorarsi della figlia d’un prete. La Dalila astuta, ammaestrata dal padre, era giunta a scoprire che il suo amante apparteneva ad un gruppo di cospiratori. Dal primo errore lo sciagurato cadde in altri e finì con l’abbandonarsi intieramente all’infame vita del delatore.

Quella notte n’ebbe degna ricompensa!

 

 

 




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