CAPITOLO XXXI
LA BELLA IRENE
Sul peristilio del castello ove giungevano i nostri quattro
viaggiatori scorgevasi una giovine donna, il cui aspetto indicava la matrona
romana forse un po’ più delicata del tipo antico.
Ai suoi vent’anni, al vederla si avrebbe potuto aggiungere un
lustro di più perché al suo sorriso angelico corrugavansi alquanto le
bellissime guancie. Neri gli occhi e la capigliatura il suo portamento era
incantevole e maestoso.
Avvertite le donne, con un inchino graziosamente le salutò, mentre
Orazio le diceva: «Irene, ti presento Silvia e Clelia, la sposa e la figlia del
nostro celebre scultore Manlio», e allora con un bacio cordiale Irene accolse
le ospiti.
Il piccolo John incantato di trovare tanta bellezza e tanta
grandezza ove aveva supposto di non trovar altro che solitudine e deserto fu
più sorpreso ancora quando, seguendo la compagnia nell’interno del castello,
s’accorse che in uno splendido salotto stava preparata una ancor più splendida
mensa riccamente e copiosamente imbandita di ogni specie di vivande.
«Tu m’aspettavi dunque stasera?» disse amorosamente Orazio ad
Irene.
«Oh sì! me lo diceva il cuore, che non avresti passata un’altra
notte fuori», e un nuovo amplesso dei due amanti chiudeva il breve colloquio.
Clelia, la bella Clelia fu ben lungi dall’esserne gelosa. Ella era
già troppo affezionata a quei due esseri e in quella vece il suo pensiero ed il
suo cuore corsero ad Attilio. Credo non affermare cosa che il lettore non abbia
indovinato aggiungendo che la buona Silvia mandò un sospiro pel suo povero
Manlio.
John coll’appetito di dodici anni, stimolato da una passeggiata
ben lunga per un povero tar44, all’aspetto della mensa imbandita
non ebbe pruriti d’amore, ma di sincerissima fame.
Una nuova scena di lì a poco colpì la madre e la figlia, e più di
queste John, che ancora se ne stava a bocca aperta. Avendo Orazio dato di
piglio a quel suo magico corno, comparvero come per incanto, l’uno dopo
l’altro, quindici nuovi ospiti e tutti poco più, poco meno, vestiti alla foggia
d’Orazio, ed armati.
L’ora già tarda, e la sala poco illuminata fecero più solenne
sulle prime quella comparsa, ma venendo accesi i lumi le aperte, maschie e
gentili fisonomie dei nuovi arrivati, guadagnarono loro l’ammirazione e la
fiducia universali. Orazio allora «a tavola» gridò, facendo sedere Silvia alla
sua destra, alla sinistra Clelia e dopo lei Irene. I compagni d’Orazio, sedute
che furono le donne ed il loro capo, per cui mostravano gran rispetto, presero
posto a tavola, mentre John s’era già collocato allato a Silvia.
Un bicchiere di wermuth brindato «alla libertà di Roma» iniziò il
pranzo, che continuò poscia con molta alacrità per parte di tutti i commensali.
Terminato il pranzo, le donne si ritirarono nelle stanze d’Irene e
mentre una serva di lei, conformandosi agli ordini ricevuti, preparava i letti
per le nuove arrivate, esse con Irene contraccambiarono quattro paroline,
siccome è uso del bel sesso, sulla reciproca loro storia.
Di Silvia e Clelia noi già lo sappiamo e ne resta a sapere ciò che
la bella castellana raccontasse sul conto suo alle nuove amiche e il suo racconto
fu il seguente:
«Sono figlia del principe T... che credo voi conosciate in Roma,
famoso per le sue ricchezze, splendidamente educata da mio padre, a me non
mancò nessuna specie d’istruzione, ma cosa singolare!, invece di propendere a
studi che sembrerebbero più adatti al nostro sesso come la musica, il ballo ed
altri femminili passatempi ed occupazioni, mi sentiva attratta verso gli studi
seri e d’indole più grave che alle donne forse non si convenga. Quando venni
allo studio della nostra Roma me ne appassionai in un modo strano, ed in quella
stupenda storia della Repubblica sì piena di grandi fatti, di leggende e
d’eroismo la mia giovine fantasia s’esaltava al punto da divenirne pazza.
Paragonando poi quei tempi eroici con gli obbrobrii dell’impero e
della decadenza e in ispecie colla più moderna storia dei preti, così
avviluppata in un caos di umiliazioni, di prostituzioni, di miserie, sentii
tutto il peso d’una mortificazione inesprimibile. Studiando concepii un immenso
disprezzo, un odio profondo per il Clericume, istrumento principale
dell’abbassamento e del servilismo del nostro popolo. Con indole tale e tali
sentimenti, vi persuaderete facilmente che le occupazioni e i divertimenti
principeschi della mia casa, gli sterminati omaggi dell’aristocrazia Romana
serva del prete e dello straniero, non potevano avere le mie predilezioni. Non
tra le cortigianesche passeggiate, le feste, i balli e le dissipazioni vane, ma
tra le splendide ed immense ruine di cui è seminata la nostra Metropoli, io
trovavo le mie delizie, e cavalcando o a piedi, quasi ogni giorno, passavo
alcune ore tra quei superbi avanzi della grandezza Romana. Giunta all’età di
quindici anni, più dell’ago, dei ricami e delle mode, mi erano famigliari i
capi d’opera dei maestri dell’arti belle, le macerie del Foro e quelle sparse
nella deserta campagna intorno a Roma.
Soleva fare le mie escursioni lontane a cavallo accompagnata da un
vecchio e fido domestico di casa. Una sera, di ritorno da una di quelle
passeggiate, mentre traversavamo Transtevere alcuni soldati stranieri
ubbriachi, i quali avevano attaccato rissa in una osteria uscirono colle
sciabole perseguitandosi. Il mio cavallo si spaventò, prese il morso coi denti
e di carriera precipitandosi per la via mi trasportava colla celerità del baleno
rovesciando quanto gli si parava davanti, non potendo io rallentarne il corso
per quanti sforzi facessi.
Era forte in sella e coloro che senza pericolo mi vedevano correre
ammiravano, ma finalmente il corsiero continuando la sua furia la lena venne a
mancarmi ed ero lì lì per lasciarmi cadere. Certo cadendo, mi sarei fatta in
pezzi sul selciato, o contro qualche ostacolo della via, quando un giovane
coraggioso lanciatosi dal marciapiedi come un lampo attraversa la via, getta la
sua mano sinistra alle briglie e mi cinge robustamente colla destra mentre già
mi abbandonavo sfinita. Allo strappo violento della mano del mio salvatore il
cavallo fa un mezzo giro a sinistra, inciampa e va a fracassarsi il cranio
contro il muro di una casa. Io era salva, ma svenuta e quando ripresi i sensi
mi trovai nel mio letto, in casa mia, attorniata dalle mie donne. E chi era
stato il mio salvatore? a chi chiederlo? Feci chiamare il domestico che mi
accompagnava ma tutto quanto egli mi seppe dire era: che seguendomi da lontano
giunse sul luogo della catastrofe quando io era già trasportata in una casa
vicina da dove, palesando il mio nome mi fece trasferire subito nel mio
palazzo. Altro non seppe dirmi del mio salvatore se non che egli era un giovine
e che s’era ritirato dopo avermi consegnata alle donne di quella casa.
Però la mia ardente immaginazione aveva indovinato o distinto
anche in mezzo a tale pericolo i lineamenti atletici di quell’agile e robusto
giovine.
I suoi occhi avevan lampeggiato un solo istante nei miei ma quel
lampo si era indelebilmente trasfuso ed impresso nel mio cuore. Io non potei
più dimenticare quella sua fisionomia che ricordava gli eroi Romani scolpiti
nell’anima mia. Oh! lo riconoscerò ben io se lo rivedo, dicea tra me, fosse
egli romano! se è romano dev’essere della schiatta de’ quiriti, del mio popolo
ideale! del mio culto!
Una sera (voi conoscete l’uso in Roma di visitare il Colosseo al
chiarore della luna), una sera, dico, accompagnata dallo stesso domestico io
usciva da quel gigante delle ruine per tornare a casa. Ad una certa distanza
essendosi diradata la folla, nel girare il canto della via che dal Tarpeo mette
al Campidoglio ed all’ombra di quell’immenso edificio, un colpo di bastone
rovesciò il mio domestico e due malandrini afferrandomi per le braccia
cominciarono a trascinarmi violentemente verso l’arco di Severo45. In
quel punto le svelte forme dell’uomo che io aveva scolpito in cuore si
delinearono nel chiaroscuro delle ruine: una lotta corpo a corpo s’impegnò tra
i tre, ed in meno ch’io nol dico, i due assassini erano rovesciati nella polve.
Vedendo il domestico rialzarsi e venire a noi, lo sconosciuto mi prese la mano,
la baciò ed allontanossi frettolosamente.
Io era rimasta così attonita da tanti e sì subitanei avvenimenti
che non ebbi la presenza di spirito di articolare una sola parola.
Mio padre, amorevolissimo, (io non aveva conosciuta mia madre)
soleva nella stagione estiva andare ai bagni di mare in Porto d’Anzo forse più
per compiacermi che per desiderio proprio, sapendo che io amava il mare e
soprattutto amava di allontanarmi dalla società aristocratica della Metropoli
per la quale non avevo la più lieve simpatia.
Fuori di Porto d’Anzo, a poca distanza verso il settentrione e non
lontana dal mare, vi era una villa proprietà di mio padre da noi abitata nelle
nostre escursioni estive.
Io amava la vista del mare, quivi vivea più volentieri che a Roma,
ma vi era un vuoto nella mia esistenza, una smania nell’anima mia che mi
turbava, che mi rendeva inquieta e malinconica. Io sentivo di amare
perdutamente lo sconosciuto mio liberatore.
Sovente passava delle ore al balcone del mio appartamento,
gettando lo sguardo in tutte le direzioni e su tutti i passanti, cercando le
sembianze dell’uomo de’ miei pensieri. Se scorgeva un palischermo, una
navicella sul mare, puntava il mio binocolo su quel punto, non per altra brama
che di scoprire fra la ciurma o tra i passeggeri l’idolo del mio cuore.
Una sera era già tardi ed io seduta al balcone della mia stanza in
balìa ai mesti miei pensieri, quasi involontariamente stava contemplando
l’astro della notte che spuntava sul lontano orizzonte delle pianure Pontine.
Il tonfo d’un corpo che pareva piombare dall’alto del muro della villa mi
trasse dalle mie contemplazioni: il cuore cominciò a battermi, non di paura
però, e mentre l’astro notturno alzavasi ed aumentava il chiarore mi sembrò
discernere tra le piante qualche cosa che s’avvicinasse. Poi mi parve
distinguere una persona. Quando l’ombra o la persona uscì dal folto delle
piante e si trovò all’aperto, un raggio di luna, che quasi orizzontale la
illuminava, mi fece palesi le fattezze di colui che io aveva cercato invano per
tanto tempo. Un grido di sorpresa e di gioia m’uscì incontanente dal petto e,
lo confesso, tutto il mio pudore di donna bastò appena per trattenermi dal
corrergli incontro e gettarmi nelle sue braccia. Il mio carattere solitario e
sdegnoso de’ costumi della Capitale mi aveva mantenuta in una innocenza
eccezionale ed io, prole di principi appartenente alla più corrotta delle corti
del mondo, era rimasta una semplice ed ingenua figlia della natura.
Irene! - mi disse una voce che mi scese nel più profondo
dell’anima. - Irene! potrei avere la fortuna di dirvi due parole là o qua giù,
come a voi piace?
Scendere mi sembrò più conveniente che introdurlo nelle mie
stanze, e scesi! Ei mi prese quasi timidamente la mano, poi mi condusse verso
il bosco e là ci sedemmo sopra un banco campestre l’uno accanto all’altro,
all’ombra delle piante. Egli avrebbe potuto condurmi seco fino agli estremi
confini della terra: io mi sarei lasciata guidare dove a lui meglio piaceva.
Stemmo un pezzo silenziosi; finalmente rompendo il silenzio egli
mi disse: Irene! voi perdonate il mio ardimento, non è vero? Io non risposi, ma
senza resistenza lasciai che traesse a sé la mia mano che egli baciava
fervidamente.
Voi saprete, continuava egli, ch’io sono un plebeo. Irene, un
orfano!, i miei genitori perivano entrambi alla difesa di Roma contro gli
stranieri: su questa terra altro non mi rimane che il braccio ed un animo
consacrato all’Italia ed a voi.
Predisposta com’era ad amarlo fin da quando egli non era per me
che una creazione della fantasia che dava una forma al mio liberatore, potete
immaginarvi se in quel momento, in cui l’essere fantastico della mia immaginazione,
e del mio affetto aveva presa forma viva, che ne udiva la maschia ma affettuosa
e soave voce io mi trovassi veramente beata.
Sentivo di esser sua ed egli avrebbe potuto disporre di me come
d’una schiava; tale era il fascino che esercitava sopra la mia volontà.
Irene! - egli continuava - è d’uopo ascoltiate ancora, che
sappiate che io non solamente sono un povero orfano, ma sono proscritto,
condannato a morte, obbligato a vivere nelle foreste, perseguitato dagli
sgherri del Governo, inseguito come le belve.
Un presentimento, un intuito della generosa indole vostra, non lo
dico per vantarmene, credetelo, diceva al mio cuore che voi mi amavate e che
quell’amore vi faceva infelice. Per questo sono venuto, o Irene!... e sono
venuto... a dirvi... che voi non potete esser mia!
Dopo un istante di pausa, rinfrancatasi la voce, ch’era andata
grado grado abbassando eì proseguiva: Voi dovete dimenticarmi, Irene, io sono
già pago del poco che ho potuto fare per voi. Me ne sento superbo, quindi a me
non dovete gratitudine e se mai fossi tanto fortunato da spendere questa povera
vita per voi, oh!, credo che allora il mio sogno sarebbe compiuto!
Perdonatemi!... Irene!... - Così dicendo, egli si alzava, con voce sicura mi
diceva addio e lasciando andare la mia mano che aveva tenuta nella sua, si
allontanava...
Io era rimasta tutto quel tempo assorta in tanta estasi da
dimenticare me stessa, il mondo intero! Non udiva, non sentiva più nulla! ma la
parola Addio quasi scintilla elettrica m’infiammò, corsi a lui, e
"fermati!", dissi, prendendolo per il braccio e riconducendolo al
sedile. "Tu sei mio! tu devi essere mio, gridai, ed io tua!... per tutta
la vita! Sì! io voglio essere tua in eterno!" e mi abbandonai così dicendo
nelle braccia di lui.
Dopo pochi giorni di preparativi io seguiva Orazio in questa
foresta e qui dimoro da più anni. Non dirò, per essere esatta nella mia storia,
che sono perfettamente felice. No! provo un’afflizione, l’unica, quella di aver
forse accelerata la morte del mio vecchio ed amoroso genitore». Qui una lacrima
rigava la guancia bellissima della regina della foresta.
Silvia, quantunque stanca, non aveva potuto a meno di prestare
attenzione all’interessante istoria dell’amabile ospite, Clelia non ne aveva
perduta una parola. Quante volte durante la narrazione non era essa stata sul
punto di esclamare: il mio Attilio anch’esso è bello, valoroso, degno d’essere
amato di un simile amore! Sì! il mio Attilio!, mio! essa ripeteva a sé stessa,
intanto che Irene guidava alla loro stanza le due nuove amiche.
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