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Giuseppe Garibaldi
Clelia ovvero Il governo dei preti

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    • CAPITOLO XXVI   LA TEMPESTA
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CAPITOLO XXVI

 

LA TEMPESTA

 

Ricorderanno i lettori che siamo nella seconda quindicina di febbraio e questo mese, lo dico ora, è il peggiore di tutti per coloro che corrono il mare, specialmente il Mediterraneo. «Febbraio corto, peggio d’un turco» dicono i marinai italiani a cui la rima, come si vede, non è troppo famigliare.

Il capitano Thompson, ardente di obbedire al desiderio della padroncina, s’era perfino scordato di consultare il barometro; ed il barometro abbassava furiosamente, ed in questi mari la caduta del mercurio è segno infallibile di forti venti da Libeccio.

Come dicemmo, la Clelia usciva con tutte le vele spiegate dal porto d’Anzo ed orzando a maestro26 con piccola brezza da Greco, cominciava a graziosamente dondolarsi con un po’ di mare a traverso. Dico «graziosamente» per il capitano Thompson o per un osservatore dalla spiaggia, non per il nostro Manlio né per la povera Aurelia, che ambedue per la prima volta gettati loro malgrado sull’elemento infido cominciavano a risentire le nausee del mal di mare.

Era durante la notte che lo Yacht doveva avvicinarsi alla costa ove si trovava Orazio con le due donne, a circa tre miglia a tramontana di porto d’Anzo. Giulia aveva dato ordine al capitano di fare in guisa di trovarsi appunto la notte al luogo determinato; con Orazio era convenuto che dovesse segnalare la sua presenza accendendo un fuoco; e il romano ed il capitano inglese non erano uomini da mancare al loro dovere. Il temporale fu quello che decise altrimenti.

Il lieve Greco che aveva spinto la Clelia fuori dal porto a due miglia calmò intieramente: nuvoloni neri neri si avanzavano da Libeccio e, peggio di tutto, il mare da quella via veniva ingrossando spaventosamente: il vento dapprima temuto dai nostri Argonauti era ora ardentemente desiderato poiché lo Yacht privo di quell’aiuto si vedeva spinto verso la spiaggia senza governo ed in pericolo quasi certo di dare contro alla costa e perdersi.

Cadeva la notte, la costa co’ suoi pericoli era vicina e Thompson alla disperazione avvertì la signora che il solo rimedio per evitare un naufragio era quello di dar fondo all’àncora.

Giulia, coraggiosissima in terra come in mare, avvolta in un ampio scialle, si teneva sulla tolda osservando il movimento e delle nubi e del mare e del povero legno, che somigliante a persona travagliata, gemeva sbattuto dalle onde crescenti che lo spingevano senza posa verso le scogliere della costa.

L’osservazione del capitano di dar fondo era giusta, ma in quel paraggio, che bastimento potrebbe tenere all’àncora contro la traversia? Pure altro rimedio non v’era, e Giulia acconsentì. Già i marinari dalla prora stavan col serrabozze27 nelle mani per lasciar andar l’àncora quando un grido della nostra eroina fece sospendere l’opera incominciata.

Un primo soffio di Libeccio avea sfiorato la guancia di Giulia e in quel soffio ella intravvide l’inutilità e il pericolo della intrapresa manovra. La Clelia infatti, aveva contemporaneamente rigonfiate le vele e cominciava a prendere una posizione più stabile a sentire il timone, e ad orzare alquanto sulla sinistra. La prora, che senza governo aveva vagato da tramontana a maestro prendendo il mare a traverso cominciò ad avvicinarsi verso il ponente maestro e n’era ben tempo! Essendosi il legno colla deriva avvicinato ai bassi fondi della costa, un colpo di mare nell’atto che cominciava ad orzare, quasi quasi lo sommerse. La terribile traversia delle spiagge romane non si fece aspettare lungamente.

La bufera veniva a man dritta; vele, manovre, scotte, alberi, tutto cigolava, strideva, minacciava rovina. La parte destra della Clelia in pochi minuti fu sommersa dal mare ma l’agile legno saltava sui marosi spumanti come un delfino. Il bravo Thompson colle voci succinte ed energiche del comando inglese ordinava all’equipaggio di tenersi sulle drizze28 ma di non ammainare nulla.

Orzando in fuori con quella valentia che hanno le navi di questa specie, presto si sentirono meno i frangenti, ed ingrossando il vento il comandante ordinò che si diminuissero le vele. In circa mezz’ora furono presi tutti i terzaruoli alle due rande29 alla trinchettina30 e ritirato il fiocco31, continuandosi ad assicurare ogni oggetto contro la violenza del mare.

La Clelia proseguì colle mure alla sinistra32 e prima delle dieci essa lottava contro una decisa tempesta.

«Quel colpo di mare tremendo - disse Thompson a Giulia la quale non aveva voluto ancora lasciare la tolda - ci ha portato via il nostro John!».

«Povero giovane!» rispose Giulia, con un profondo sospiro.

Lo Yacht era orientato33, i boccaporti chiusi ermeticamente. Il capitano, afferrato alle sartie di maestra del vento34, aveva presso di sé quasi tutto l’equipaggio, ognuno fortemente tenuto per non essere portato via dal mare; i timonieri (poiché due erano al timone) erano anch’essi legati a metà corpo35. Il capitano finalmente potè ottenere dalla sua signora che scendesse in camera, il che fece, piuttosto per aver contezza de’ suoi amici che per riguardo al proprio pericolo.

A Giulia, entrando nella camera, si presentò uno spettacolo, dinanzi al quale non potè a meno di scoppiare in uno scroscio di risa.

Aurelia, che forse lo stesso colpo di mare il quale aveva portato via il povero John slanciava come un sacco sulla parete di sottovento, ove già trovavasi Manlio spintovi da analogo impulso, si teneva disperatamente a lui avviticchiata. La povera donna che per la prima volta si trovava vittima d’una tempesta di mare credette venuto il finimondo, e trovandosi al contatto di un corpo umano vivente, vi si era abbarbicata con quella forza che dà la disperazione.

Invano Manlio gridava non lo strangolasse, invano, che anzi quando conobbe la voce amica dell’artista per impulso di simpatia gli si strinse intorno ancor più fortemente. Lo scultore assuefatto a muovere dei massi in marmo sarebbe pervenuto a svincolarsi da quegli abbrancamenti ma uomo buono e primitivo com’era, e un po’ fiaccato da quelle maledette nausee altro non faceva che sforzarsi col miglior modo possibile a respingerla tanto da evitare la soffocazione.

In questa posizione tragicomica trovò Giulia i suoi compagni di viaggio. Dopo essersi abbandonata all’irrefrenabile ilarità ella chiamò un domestico e col suo aiuto pervenne a collocare gli amici in situazione più conveniente.

La Clelia lottò ancora tutta la notte colla tempesta e ben le valsero le superiori sue qualità marine per non essere soperchiata e non le valse meno l’intrepidezza del suo coraggioso equipaggio.

All’alba il temporale rallentò alquanto del suo furore ed avendo il vento girato all’ostrolibeccio si pensò di far correre36 per Porto Ferraio o Longone onde riparare le sofferte avarie che non erano poche.

I due palischermi erano stati strappati e portati via dal mare; delle murate, da poppa a prora, non esisteva più un sol pezzo e di quanti oggetti si trovavano sulla coperta, nulla vi era rimasto.

Poco prima di giorno un maroso gigantesco come una montagna s’infranse sul trinchetto, lo sfondò e dié così agio alla bufera di continuare la sua opera di distruzione.

Quando il capitano Thompson era d’avviso di cercare un porto per ripararsi voleva dire che la necessità era estrema non essendo lui, come la maggior parte de’ suoi connazionali, propenso a cedere alle prepotenti velleità dell’Oceano.

 

 

 




26 Orzare significa avvicinare la direzione della prora all’origine del vento.



27 Corde o catene colle quali si tengon sospese le àncore alla prora.



28 Drizze; corde con le quali si alzano le vele.



29 Vele principali del Yacht.



30 Vela triangolare di straglio.



31 Vela triangolare sull’estremità della prora.



32 Cioè vento che veniva dalla sinistra.



33 Orientare vuol dire colle vele ed ogni cosa preparate a’ temporale.



34 Dalla parte dove viene il vento.



35 Un colpo di mare che si frange sulla coperta d’una nave può portare via la gente che non si trova ben tenuta ed anche i timonieri.



36 Prendere direzione.






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