PARTE PRIMA.
I.
Due vecchi amici.
Cinque minuti prima dell'arrivo del
battello, Beniamino Cresti era già col suo inseparabile ombrello chiuso, che
gli serviva di bastone, allo sbarco di Tremezzo in attesa di Massimo Bagliani.
Per la circostanza il solitario misantropo del Pioppino aveva indossato un
vestito d'un grigio chiaro tutto eguale, che insieme al cappello chiaro di
paglia faceva comparire ancor più scura la carnagione del volto e delle mani
d'un color nero di terra lavorata.
Da qualche tempo i pochi amici
canzonatori notavano che il solitario ortolano del Pioppino faceva degli sforzi
straordinari per essere bello ed elegante. Ezio Bagliani, che tra i burloni era
forse il più feroce, voleva vedere in certe scarpe alla polacca che il Cresti
portava con ostentazione, una specie di dichiarazione per la bella sua
cuginetta che abitava al Castelletto. Altri nelle doppie suole e nei talloni
alti di quelle scarpe volevan vedere lo sforzo d'un uomo corto di gambe per
sollevarsi di qualche centimetro sul livello normale del lago. Cresti lasciava
dire e si limitava a sogghignare di quel sorriso muto, che gli irritava le
mandibole sporgenti senza arrivare a muoverle: o digrignava i denti o si
lasciava trascinare a pungere il suo tormentatore col puntale dell'ombrello
eternamente chiuso. In fondo sentiva che tutti gli volevan bene e che in un
momento grave sapevan far conto dell'ortolano del Pioppino. Ezio Bagliani, per
esempio, il più dissipato di tutti, aveva più d'una volta ricorso all'aiuto segreto
di Beniamino Cresti, quando nelle sue strettezze di studente, non osava
affrontare la faccia dura di papà: e non sempre, pare, aveva restituito con
precisione. Maggiore di lui una buona dozzina d'anni, il Cresti si permetteva
di considerare l'allegro giovinotto quasi come un suo nipote, gli dava spesso
consigli brevi, espliciti, opportuni, che non andavano sempre perduti,
specialmente quando il giovane si gloriava della sua compagnia del caffè
Storchi e del Ravellino. La vita dissipata di Ezio, i suoi rapporti costosi con
la famosa Liana non erano un mistero per Beniamino Cresti, che deplorava spesso
sinceramente che un giovine di così bell'ingegno, ricco, simpaticissimo,
perdesse il suo tempo coi Lulù e coi decadenti del Circolo dell'Asse
di cuore, una combriccola di eleganti malviventi. A Massimo Bagliani, zio
di Ezio, oltre a un lontano rapporto di parentela lo legava un'antica amicizia
fatta a Torino, quando l'uno studiava all'Accademia militare e lui attendeva
agli studi di legge. Per quanto lontani d'indole e di studi, o forse appunto
per questo, la loro buona amicizia era andata crescendo col tempo e colla
distanza, che è, come vuole il proverbio, il vento che fa crescere la fiamma.
Le peripezie amorose di Massimo Bagliani l'avevano commosso: l'ingiustizia di
cui era stato vittima aveva trovato nella naturale misantropia dell'amico
Cresti un terreno preparato apposta per germogliare. Già poco inclinato a
credere nella bontà degli uomini (e cogli uomini, come quel predicatore,
intendeva anche le donne), il caso di Massimo ribadì nel cuore di Beniamino che
un uomo è lupo all'altro e che non si è mai tanto sicuri come quando si è soli.
Per questo si era confinato in quel suo Pioppino, lassù, a coltivare cavoli e
rose. Finiti gli studi legali avrebbe ben potuto percorrere una buona carriera
negli uffici erariali, perché non mancava di una certa disposizione agli studi
economici, specialmente nella statistica; ma il nostro Cresti non potè mai
conciliare l'ingegno col temperamento. Mentre l'uno avrebbe voluto andar
diritto allo scopo come una palla da bigliardo sotto i colpi di un buon
giocatore, l'altro, l'animale restío e instabile, s'impuntava per ogni ombra,
per ogni frasca. Sdegnando di essere un mediocre, sdegnando le arti di
riuscire, sdegnando gl'inchini, sentendosi troppo migliore di cento altri, che
fanno fortuna, per rassegnarsi a far come loro, il misantropo del Pioppino si
era ridotto a vivere della sua rendita e a rinchiudersi nel guscio come una
lumaca. Suo padre, morendo, gli aveva lasciato tanto da vivere bene, col
reddito d'un grosso fondo sul lodigiano, una casa a Como, e un pezzo di
montagna sul lago, dove si ritirò in seguito al suo primo disinganno d'amore, e
donde non si moveva quasi mai, tranne le poche volte che scendeva a dare un'occhiata
alle sue risaie di S. Angelo, o a vedere un carnevale a Milano. Ma un cavolo e
una rosa del Pioppino valevano per Cresti tutti i migliori prodotti della
civiltà. Nella rozza compagnia di due zitelle, dette da cinquant'anni le ragazze,
che erano cresciute e invecchiate con lui, amando in lui la tradizione di una
grossa famiglia ridotta a quest'ultimo filo, si trovò sui trentasette anni,
cioè quasi vecchio, senza avere provato il piacere di esser giovane. Oltre alla
poca amministrazione della roba sua, non rifiutava qualche servizietto al
Comune e qualche consiglio gratuito ai vicini possidenti, che amano litigare;
ma faceva presto capire che preferiva d'esser lasciato in pace. L'unica sua
visita quasi giornaliera era per le signore del Castelletto, dove restava anche
volentieri a giocare agli scacchi con Flora, colla Flora dai capelli rossi, che
l'irritava continuamente con mosse contrarie ad ogni regola di giuoco. La
signorina leggeva bene l'inglese e Cresti, che non conosceva l'inglese, le
regalava regolarmente tutti i romanzi dell'eterna collezione Tauchnitz, i più
bei Christmass illustrati che uscissero a Londra: e così tra una partita e
l'altra, passava mediocremente l'inverno. Coll'aprirsi della bella stagione
rifioriva coll'orto anche l'ortolano. Intorno alla casa del Pioppino c'era
coll'orto anche una vigna e tra l'orto e la vigna correvano spalliere delle più
belle pere, filari delle più belle rose, due specialità in cui il signor Cresti
era ritenuto insuperabile: tra le pere un esemplare superbo di Martino Secco,
buono d'inverno, era rinomato su tutto il lago; e tra le rose famosa era una
varietà di borracine, ora così trascurate, e pur così belle nella loro gonnella
verdicina e molle e nei colori teneri di carnagione umana.
Un suono di cornetta avvertì il
Cresti che il battello era in vista alla punta del Barbianello. Massimo
Bagliani, rassicurato che la sua presenza in Tremezzina non sarebbe stata
cagione di conflitti diplomatici, aveva scritto segretamente a Cresti che
sarebbe venuto il giorno tale, l'ora tale, ma non dicesse nulla per il momento
a Villa Serena, al Castelletto e in altri luoghi, volendo prima abituarsi alla
respirazione della nuova aria e rientrare a poco a poco nelle antiche
impressioni con quella prudenza con cui si entra in un'acqua un po' troppo
fredda.
Se il Cresti apparteneva alla
schiera di coloro che diffidano degli uomini, questo signor Massimo, che stava
per arrivare, apparteneva a quella non meno numerosa di coloro che diffidano di
sè stessi, cioè ai malati di troppa riflessione.
L'uno era uno scontroso, l'altro un
timido, colla differenza che c'è fra una capra ostinata capace di cozzare,
anche coi corni rotti, contro un pilastro, e un coniglio a cui lo scatto d'una
trappola fa battere il cuore fino alla soffocazione. Il Cresti, rimasto sempre
solo, s'era rinforzato nella sua selvatichezza, che è come le squamme per gli
animali deboli. Massimo, in frequenti contatti cogli uomini e colle cose, dopo
aver viaggiato le quattro vie del mondo e preso parte ai delicati intrighi della
diplomazia, tornava a casa dopo dodici anni d'assenza, un po' meglio dotato di
quella esperienza che insegna a compatire negli altri anche sè stesso.
Quando un nuovo suono di cornetta
avvisò che il battello stava per approdare, il cuore del Cresti si mosse sotto
l'impulso di un soave sentimento, che gli fece correre la saliva per la bocca.
In questi lunghi dodici anni, per quanto divisi dagli oceani, i due vecchi
amici non avevan mai cessato di scriversi, ed eran state lettere lunghe,
espansive, come sogliono essere quelle delle persone che parlan poco. S'eran
lasciati giovani, nel fiore della vita, e stavano per rivedersi, non vecchi, ma
al volgere di quella seconda età, che può dirsi il settembre della vita. Le
foglie non cadono ancora, ma è bene che non piova troppo sopra le piante. Il
tempo che abbrunisce le muraglie e dà la patina al bronzo, non passa
inutilmente sulla facciata e sull'interno d'un uomo. Alcune idee e molte parole
ch'eran già fresche in giovinezza hanno ora un aspetto secco, altre prima così
care e preziose diventarono trite e frivole; la voce ha un tono più basso e
l'illusione che prima volava in un cielo spazioso, se non è morta, vive
malinconicamente in una gabbia.
Quando il battelliere sonò la
campana e gridò la stazione di Tremezzo, un signore vestito d'un perfetto
costume di viaggio, con una borsetta di cuoio a tracolla, girò il canocchiale
che aveva agli occhi e cercò di scoprire nella folla che si addensava
all'imbarcadero una figura d'uomo che gli ricordasse il vecchio amico; e quando
il battello cominciò a rallentare, provò ad agitare il fazzoletto, a cui
rispose un ombrello chiuso dalla riva, un segnale da innamorati che ebbe la
forza di farli arrossire tutti due. Massimo, dopo aver ben bene esplorato,
visto che non c'eran signore di sua conoscenza, si rallegrò vivamente. Cresti
aveva obbedito alla consegna. Un incontro improvviso con una certa signora, lì
sul ponte dello sbarco, sarebbe stata una cosa molto imbarazzante.
Il battello appoggiò adagio adagio,
scricchiolò contro i pali e la folla cominciò ad incontrarsi sul ponticello
mobile. Quasi sospinto da essa e dai facchini che trasportavano i bagagli, il
commendatore Massimo Bagliani si trovò, non sapeva ben dire in che modo,
all'ombra d'una robinia con due mani nelle mani, davanti a un ometto vestito di
grigio, che aveva lasciata crescere una barbetta crespa sopra una faccia di
terra cotta, in cui brillavano due occhi neri, la faccia bruna di can barbino
dell'unico e invariabile suo amico Cresti. E questi, dopo aver palpata e
allacciata colle braccia la rotondità d'una discreta pancia che dodici anni
prima non esisteva ancora, si arrampicò sull'amico colossale e volle baciarlo e
farsi baciare: tutto questo in silenzio, s'intende, come è bene di fare quando
si avrebbero troppe cose a dire. Pareva quasi che piangessero; ma bisognò
occuparsi subito del bagaglio, che un rapace portiere d'albergo pretendeva di
portar via.
Tognina - disse il Cresti a una
delle due ragazze, che era discesa con una gran gerla sulle spalle -
prendi queste tre valigie.
La donna mise la roba nella gerla,
caricò questa senza fatica sulle vecchie spalle abituate da cinquant'anni a
portar ben altri pesi e andò avanti a battere la strada per un viottolo sassoso
che si distaccava quasi immediatamente dalla via grande presso la chiesa e si
arrampicava a scalini disuguali su per la schiena del monte.
- In questi paesi o su o giù, in
piano se si può - disse finalmente Cresti, che pareva diventato un turacciolo
accanto alla massa corpulenta del signor commendatore, che somigliava piuttosto
a un fiaschetto di Chianti. - Tu avrai dio sa che sete e che fame: ma intanto
che noi facciamo questi centotre scalini, l'Angiolina, che ci ha visti partire
dal battello, fa andare il risotto a tutto vapore.
- Centotre scalini...? - domandò
l'ambasciatore con un senso di sgomento, soffermandosi sopra uno dei primi
dodici.
- Ma poi la strada va piana. Ti
ricorderai dell'Angiolina e della Tognina, le nostre due ragazze d'una volta.
Questa è la Tognina. Guardalo un po', Tognina: lo riconosci? non si è fatto più
bello?
La Tognina che s'era voltata d'un
terzo sopra i suoi zoccoli, colle braccia arcuate come le anse d'una anfora,
dopo aver arrossito al di sotto della ruvida corteccia, disse colla cantilena
del paese: - Stava forse un pochetto più bene nella montura: però il tempo non
gli ha fatto male, sor Massimo.
- Sor commendatore, si dice -
corresse il Cresti.
- Bisognerà pure che ci lasci
parlare a nostro modo.
- Hai proprio detto centotre
scalini? - chiese ancora Massimo, fermandosi a prendere un po' di fiato
all'ombra di una cappelletta sull'incontro di tre viottoli.
- Il tempo di cuocere il risotto:
abbi pazienza!
- C'eran questi centotre scalini
dodici anni fa?
- C'erano, ma forse erano più
dolci. Anche i sassi peggiorano col tempo. Al Pioppino non troverai nulla di
cambiato, nè un chiodo, nè una sedia, nè una stoffa. Non manca che quella
povera donnetta di mia madre, che ho fatto portare laggiù, dove spunta quel
cipresso. Era il suo gusto negli ultimi anni di stare alla finestra a vedere il
lago; e spero di andare anch'io a mio tempo a vederlo da quel cipresso. È stata
lei che ha voluto far rinfrescare questa cappelletta e ritoccare questa brutta
Immacolata, per la quale aveva una divozione speciale. A volte si dice: peccato
non poter credere!.... Del resto qui il tempo passa che tu non te ne accorgi.
Non è scomparsa la neve che ci son le violette; le violette cedono il posto al
fiordaliso e al papavero; questi all'uva, l'uva alle castagne, le castagne alle
nebbie e al freddo.
- E alle partite a scacchi.... -
aggiunse l'amico con intenzione.
- Anche - confermò l'altro,
arrossendo un poco.
- Si ricorda ancora la piccola
Flora di me?
- Piccola.... Tu vedrai che donnone
s'è fatta.
- Sicuro, dodici anni son molti: me
ne accorgo al peso di questi scalini.
- Forse io ti faccio correre
troppo.
- La diplomazia va sempre adagio
nelle cose sue.
- Ha sempre questa bella pancia la
diplomazia?
- Non giudicare dalle apparenze.
Vorrei che il cuore fosse più giusto. E invece fa quel che vuole.
- Tre mesi al Pioppino guariscono
tutti i mali.
- Faremo i nostri conti.
Finita la scalinata, la strada
prese a serpeggiare tra due muricciuoli alti, ombreggiati dai gelsi e dalle
piante di fico, che sporgevano dai campi: salì poi un trattino dura e selciata,
finchè la comitiva si fermò a un cancelletto dipinto in rosso che metteva in un
brolo, e il brolo era attraversato nel suo lungo da un viale fiancheggiato da
due folte siepi di grossa mortella regolata e riquadrata come un muricciuolo. In
fondo a questo viale partiva una scala di cinque o sei gradini lunghi di
vecchia pietra sconnessa con grossi vasi di limone ai lati, fino a un
portichetto quasi rustico da dove l'occhio spiccavasi liberamente su tutta
quanta la superficie del lago, da Lezzeno fino alle lontane sponde di Bellano o
di Dervio, con tutto quanto il monte Legnone per prospettiva, come se la
montagna fosse stata fatta apposta e messa lì nell'arco di quel portichetto.
- Qui è la mia officina, il mio
salotto d'estate, il luogo dove faccio i miei sonnellini, quando è troppo
caldo. Quassù vedi i nidi delle rondini che mi tengono buona compagnia: per di
qua si va in cucina: qua c'è un grottino fresco per il vin vecchio: per di qui
si passa agli appartamenti superiori, da dove la vista è ancora più larga. Ti
ho fatta preparare la stanza d'angolo che godeva la povera mamma e ti prego, se
non vuoi che vada in collera, di comandare come se fossi in casa tua.
L'Angiolina è ai tuoi ordini e tu le dirai quel che fa bene e quel che non fa
bene al tuo stomaco, se vuoi il caffè alla mattina o la cioccolata.
Cresti non aveva mai detto tante
parole in un mese quante ne disse quel giorno, in cui sentiva moversi dentro e
ronzare tutto uno sciame di memorie di cose pensate e non dette, di sensazioni
rimaste chiuse e come sprofondate nei crepacci più oscuri della sua coscienza
d'uomo solitario e irritabile. A Massimo aveva scritto d'un certo suo progetto
in aria e Massimo era venuto per aiutare un povero uomo a tirare abbasso questo
grosso pallone, in cui viaggiava una sublime speranza.
Flora, quella Flora dai folti
capelli rossi, quella bambina che in dodici anni si era fatta un donnone aveva
ormai preso possesso del suo cuore.... L'idea ch'egli potesse essere per Flora
qualche cosa di più d'un vecchio amico andava prendendo da un anno in qua
sempre più consistenza: e più ci pensava e più gli pareva di ribadire
quell'uncino nel cuore. E batti e batti, ormai se lo sentiva così conficcato
quell'uncino che levarlo da sè non avrebbe saputo senza lacerarne tutta la
carne. Ecco perchè aveva fatto venire un amico dalla mano medica e delicata.
Era strano, quasi inesplicabile alla sua età (trentasette anni e mesi); ma
ormai non c'era più dubbio: egli era innamorato. Innamorato, egli, Cresti,
d'una figliuola di ventidue anni, di quella figliuola là? egli che si sentiva
non vecchio fisicamente, ma esteticamente vecchio e giunto a quella sazietà
della vita che fa parere tutto finito? Eppure era così, cari signori! e questa
passione era per lui molto più formidabile in quanto si presentava al
vecchietto con un'attrattiva nuova e sorprendente, non come un ritorno
d'un'antica primavera, non come un bel giorno di tardo autunno, ma come un
fenomeno non mai nè provato, nè previsto, con tutti gl'incanti e con tutte le
seduzioni d'un amore di sedici anni. Egli non aveva mai amato così, a suo
tempo, colpa sua, forse: ma il rimorso di non avere saputo amare non faceva che
aggiungere uno stimolo di più a questo amore in ritardo e di riparazione.
Qualche volta egli si rimproverava questa
debolezza nei frequenti soliloqui con cui istigava se stesso. - Che vuoi che
faccia di te quella ragazza? che cosa vuoi ch'ella trovi in te, vecchio e
rustico coltivatore di cavoli? ha ben altri ideali per la testa la signorina
del Castelletto: o se per non saper far altro, si rassegnasse a sposarti, non
ci sarebbe pericolo che s'ingannasse sulle sue stesse intenzioni e che vi
trovaste ingannati a vicenda? Nel giuoco d'amore una sola è la partita e a chi
tocca lo scacco matto è suo danno.
Mille volte erasi già ripetuto
queste considerazioni, stando tutto solo le lunghe sere d'estate sotto il
portichetto del Pioppino coll'occhio fisso alla torretta merlata del
Castelletto, finchè le case alla riva s'immergevano nelle tenebre e nella luce
d'una finestra vedeva passare o credeva di veder passare un'ombra. Di questi
suoi scrupoli aveva riempite le ultime lettere a Massimo Bagliani che s'era
mosso anche per questo, uscendo da un esilio che, secondo il decreto, doveva
essere perpetuo.
La stanza assegnata al signor
commendatore era la più grande della casa, forse fin troppo sfogata e larga,
con quattro finestre che davano sul lago e sul monte, arredata di vecchi mobili
nei quali sì specchiava la luce. Le pareti erano dipinte a calce con strisce
rosse intrecciate a rombi in ciascuno dei quali era scarabocchiato un
fiorellino celeste, lavoro paziente del vecchio Bargella di Bellano, un
imbianchino celebre di cinquant'anni fa, annegato, chi dice nell'acqua chi dice
nel vino, un giorno di sant'Anna dopo una famosa baldoria.
Quantunque una vasta tavola rotonda
occupasse il mezzo di quello spazioso ammattonato a spina di pesce, c'era ancor
posto in giro per una processione. Molti quadri e vecchie stampe occupavano le
pareti, tra gli altri il ritratto d'un altro Beniaminus Crestus, notaio
camerale, morto a Como nel 1771, che sotto una zazzera imponente accusava anche
lui un musetto di buon cane barbino.
Una grande incisione della scuola
del Piazzetta rappresentava Amore nella fucina di Vulcano nell'atto che ritrae la
mano scottata dalla vampa.
O che non sapeva il piccolo
tormentatore dei cuori che il fuoco scotta? il Dio e i ciclopi ridono di lui
mentre le lagrime scendono sul bel volto del più crudele dei numi.
- Un per volta ci si scotta
tutti... - disse il Cresti, indicando a Massimo la vecchia stampa, a cui
attribuiva qualche valore.
- Col fuoco non si scherza -
commentò l'amico.
- Eh.... lo so - disse l'altro,
tirando lungo il respiro.
Le due ragazze avevano
preparato un magnifico letto coi lenzuoli che sentivano di lavanda, col famoso
piumino stato messo insieme a pezzi e bocconi dalla povera signora Caterina
durante l'ultima sua malattia coi frastagli del suo vestito da sposa. Ai piedi
era un soppedaneo immenso, tutto verde come un prato, su cui spiccavano due pantofole
d'un rosso fiammante.
Beniamino corse a spalancare la
finestra e:
- Guarda - disse con un sentimento
d'orgoglio, come se ci avesse qualche merito nella bella vista. - Ecco Lenno,
Azzano, Mezzegra e là in quel verde, villa Serena.
- Dove, dove? chiese subito
l'amico, facendo canocchiale col pugno.
- Laggiù alla riva, quel gran
giardino colla balaustrata. Infandum, regina, jubes renovare dolorem. Ci andremo domani.
- Domani no; è troppo presto.
- Andremo quando ti sentirai in forze.
Non la troverai molto mutata, perchè queste donne tranquille non invecchiano.
Sono i nervi che fanno soffrire.
- Mio nipote sa che devo arrivare?
- Glie l'ho detto: e non desidera
che di abbracciare il suo caro zio d'America.
- Credi ch'egli sia a parte di quel
che è passato tra me e suo padre?
- Ho tutti i motivi per credere che
non sappia nulla: a meno che non abbia trovato qualche lettera tra le carte del
defunto. - E guarda un po' anche da questa parte - disse il padrone di casa,
aprendo l'altra finestra verso levante. I più grossi paesi di Tremezzo e di
Cadenabbia eran lì immediatamente sotto i piedi, coi loro alberghi, coi loro
tetti accostati e sovrapposti, congiunti da una sottile collana di ville
incastonate nei verdi giardini, tra cui, sopra un minuscolo promontorio, il
Castelletto colla sua brutta torretta dipinta,
La colazione servita nel salotto
che dava sulla parte più fiorita del giardino fu veramente degna di un
diplomatico, e le ore passarono come un sogno nel riandare le centomila cose
passate, quelle morte, quelle che non avevan potuto nascere e che avrebbero
dovuto nascere meglio. Dopo aver fatta una visita alle pere e alle rose,
all'ombra di due grandi cappelli di paglia, il signor commendatore accettò
volentieri il consiglio di ritirarsi in camera a fare un sonnellino. C'era a
questo scopo una poltrona grande come un bagno, aperta come la misericordia di
Dio, nella quale Massimo si raccolse per prendere il volo verso riposati lidi,
mentre le foglie delle piante battute dal vento mandavano un barbaglio di ombre
attraverso alle gelosie sopra il soffitto e sulla rosicchiata cornice del
vecchio notaio.
Le cicale cantavano a tutto cantare
nella lenta e calda quiete di quella giornata di agosto.
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