II.
Due amici giovani.
Sonava la mezzanotte a S. Giovanni
di Bellagio, quando Ezio Bagliani e il contino Andreino Lulli, detto anche
Lolò, sfuggendo alla baraonda, scioglievano il canotto dagli anelli della
darsena e si staccavano dal piccolo molo del Ravellino.
Dal Ravellino a Villa Serena, a
lago tranquillo, è una traversata di una mezz'ora o poco più; ma per i due
giovani, che uscivano caldi dalla baldoria e che avevano da mettere d'accordo
l'acqua un po' grossa del lago col vino bevuto a tavola, fu impresa alquanto
più complicata.
- Vuol dare a intendere che è
Sciampagna di dodici lire.... brontolò Ezio Bagliani, continuando un discorso
già avviato nel giardino.
- È del vin d'Asti malvestito in carta
d'argento - soggiunse don Andreino, che andava cercando suoi remi in fondo al
canotto.
Dalla voce rauca e sepolta si
capiva che Asti o Sciampagna ne avevano bevuto un poco più della loro sete.
C'era nel loro confuso risentimento anche un segreto rancore contro un così
detto Cognac tre stelle, che don Erminio Bersi aveva travasato agli
amici senza economia. Lolò mezzo istupidito, per quanto annaspasse colle mani,
non riusciva a discernere il capo dalla coda de' suoi remi: e rideva, rideva
della sua incapacità d'un bel ridere fatuo, in faccia alla luna che bianca e
tonda versava sull'acqua una bella luce tremolante.
Tutte le cime dei monti che
circondavano il lago si disegnavano nitide sul cielo: in fondo il Legnone e la
Grigna, due colossi, che parevano ingranditi in una misteriosa trasparenza, e
più avanti gli altri monti più modesti, dai nomi meno conosciuti, dalla
fisionomia meno espressiva, che versavano i loro fianchi ossuti nei golfi
oscuri, densi di ombre e di secreti.
Nella spaccatura della Val d'Intelvi
disegnavasi nel palpito lunare una specie di scena interna, profonda, in cui
dominava come su un altare il Santuario di Sant'Anna.
Tutta la bella Tremezzina era lì
spiegata in una sfilata di case immerse nella gran pace dell'ora notturna,
solenne, tremolante di sogni.
- Lavora, fannullone - comandò Ezio
Bagliani che nella sua qualità di vice-presidente della Società dei Canottieri
era detto anche il vice-ammiraglio. E per essere più sciolto si tolse la giacca
e il cappello, che buttò sul sedile di poppa. - Andiamo, in quattro colpi siamo
al di là.
- Sento una zampa d'aragosta che mi
graffia lo stomaco - sogghignò don Andreino, che alle prime ondulazioni del
canotto credette veramente che qualche cosa di vivo si movesse in mezzo allo
Sciampagna. Non riuscendo nè di reggersi, nè di star seduto sulla banchina,
andava brancicando in ginocchio tra le assicelle del legno in traccia d'una
pipa che gli era sfuggita dal taschino e di cui non poteva più far senza.
Il suo compagno, più forte, più
superbo, dopo aver cercato di dominare il suo vino col dirne male, afferrò i
remi e colla salda vigorìa de' suoi ventiquattro anni, riattivata l'energia dei
muscoli e svampati i bollori al soffio dell'aria frizzante, cominciò a battere
l'onda con colpi lunghi e ben assestati, che fecero volare il canotto
riluttante tra i larghi cumuli d'acqua, resi pesanti da un contrario venticello
di tramontana.
All'improvviso un colpo di pistola
risonò nel grave silenzio a risvegliare gli echi più addormentati della
montagna.
- È ancora quella pazza ubbriaca di
Vera che tira ai palloncini: finirà coll'ammazzare qualcuno, se non la fanno
smettere - disse Ezio.
Sul terrazzo del Ravellino
dondolavano al vento gli ultimi palloncini d'una illuminazione giapponese che
don Erminio Bersi aveva allestita in onore degli amici e di certe sue amiche,
mentre or sì or no venivano sui voli d'aria gli ultimi schiamazzi della
baldoria. Rovinato nel credito, diffidato dai parenti, perseguitato dai malvagi
creditori don Erminio Bersi a trent'anni, messo nel bivio o d'imbarcarsi per
l'America o di sposare le ottocentomila lire d'una Pezzani di Codogno, un nome
quasi glorioso nell'industria del formaggio, aveva preferito le ottocentomila
lire; ma prima di dare un estremo addio al mondo e alle sue pompe aveva voluto
radunare un'ultima volta al Ravellino gli amici dell'Asse di cuore e gli
altri ch'eran soliti ritrovarsi con lui d'inverno nelle sale superiori del
Caffè Storchi a Milano, cioè oltre a Ezio Bagliani e ad Andreino Lulli, Tito
Netti, Filippino Doria, il marchese Schiavi e le più ragionevoli loro amiche,
tra cui Vera Spino, Liana detta la Spagnuola e quella patetica Gismonda, mima
simbolica, come dicevano gli adoratori, bellezza trasparente che morì tisica a
San Remo, dopo aver rovinato un paio di principi russi.
Nelle sale del Caffè Storchi i
compagni dell'Asso di cuore non pretendevano di far dell'accademia, nè
della politica, nè dell'economia sociale; ma semplicemente divertirsi nel
miglior modo, ciascuno secondo i propri mezzi e le proprie facoltà. Vi si
cenava spesso dopo i teatri, vi si facevano dei giuochi atletici, della
ginnastica svedese, dello sport da camera, vi si giuocava a scopa, a bezigue,
perfino alla briscola plebea: vi si declamavano delle concioni e dei versi, si
cantava, si miagolava su un disperato pianoforte, vi si facevano insomma delle
allegre goffaggini in mezzo al fumo degli avana e delle pipette di gesso
all'unico intento di non sentire il peso della noia, che facilmente strapiomba
su chi ha poco da fare e nulla da pensare. Tutto era permesso, tranne il dire
una cosa troppo seria e troppo sensata. Chi si fosse lasciato scappare di bocca
una sentenza o un proverbio con intendimento pedagogico doveva pagare o
scontare il delitto con qualche speciale supplizio. La notte che arrivò il
telegramma che annunciava il disastro di Dogali, per non lasciarsi traviare a
sentimenti di troppa commozione, Filippino Doria comandò gli esercizii militari
e per una mezz'ora condusse intorno al biliardo la schiera degli Ascari
ammantati in bianche tovaglie, col viso dipinto di cioccolata, finchè fu
decretata la morte di Ras Alula nella persona di Lolò, cioè del contino Lulli.
Gli fecero una testa africana col nero fumo, lo addobbarono di tovaglioli e
punf.... lo fucilarono con le stecche. Liana per simulare il sangue gli versò
nel colletto della camicia una mezza bottiglia di vin di Barolo.
A parte questi giochi eran del
resto tutti buoni figliuoli; buoni, s'intende, a far nulla; ma già qualcuno
cominciava a capire che a questo mondo non si è venuti soltanto per far delle
schiocchezze. Erminio Bersi stava per prender moglie; Ezio Bagliani carezzava
l'idea di finire i suoi studi legali e di pigliarsi una buona volta la sua
laurea a Genova o a Pisa. Don Andreino, trascinato nell'orbita di suo cugino
deputato, il conte Andrea della Roncaglia, mescolava alle corse, alle regate,
un po' di sport elettorale e qualche sua personale velleità politica,
- Sei proprio in collera del tutto
con Liana? - chiese don Andreino, quando dopo infiniti patimenti ebbe finalmente
infilato il remo in una forcella. - Mi ha detto che tu le fai un gran male,
- Ne ho gusto.
- Non vuoi proprio più saperne di
lei?
- Non si è già consolata abbastanza
col suo americano?
- L'americano è un ripiego.
- Sai quel che mi ha fatto a Nizza?
- Lo so: ma tu sei troppo feroce,
Ezio.
- Vada a farsi benedire. Mi ha
seccato abbastanza. E poi ho bisogno di far giudizio quest'inverno.
- Ho capito - soggiunse Lolò quasi
piagnucolando - vuoi prender moglie anche te. Allora io faccio il deputato.
- Bada, tieni a destra. Vedo laggiù
al Castelletto la finestra di mia cugina Flora ancora illuminata. Andiamo ad
augurarle la buona notte.
- Due minuti dopo il canotto
ballonzava sotto il terrazzo d'una modesta casa posta a picco sul lago
sostenuta da tre archi di muro e coronata da una torricciuola merlata dipinta a
striscie rosse e nere, che giustificava agli occhi della gente il nome di
Castelletto. Per quanto umile e goffa nella sua struttura di pasticcio mal
riuscito, tuttavia all'indulgente raggio della luna anche quel vecchio rudere
di casa colorata, chiusa tra un cipresso da una parte o un gran ciuffo di
oleandri dall'altra, aveva la sua modesta poesia.
- Ohe, Flora... - gridò Ezio,
intonando il deh vieni alla finestra del Don Giovanni. La finestra
illuminata si aprì e dalla porta a vetri uscì sulla terrazza la ragazza dai
capelli rossi, in una vestaglia chiara, che il raggio candido della luna
avvolse d'una luce patetica.
- Che fate in giro a quest'ora,
vagabondi? gridò Flora.
- E tu che cosa fai al mesto lume
della lucerna?
- Sto copiando quella tua
dissertazione di laurea. Sai che il tuo gobbetto ha una scritturaccia da
gallina?
- Ti presento don Andreino Lulli,
una grande autorità sportistica e un futuro uomo politico.
- Per celia, signorina - corresse il
contino agitando il cappello.
- I vostri schiamazzi dal Ravellino
arrivano fin qua, Chi è che giuoca al bersaglio?
- Vogliono ammazzare la luna.
- È una vergogna, a quest'ora.
- La mamma sta bene?
- Dorme.
- Non logorarti troppo gli occhi
per me, povera Flora. Domattina sei in casa?
- Sempre ci siamo.
- Mi pigliate a colazione? ma sans-gêne;
due uova, due fette di salame e un caffè nero. Vedremo di leggere insieme
qualche pagina di questo malaugurato scarabocchio.
- Va bene: alle nove?
- Alle nove. Addio, Flora...
- Addio - rispose Flora, alzando la
voce per seguire il canotto che si allontanava come una freccia: e le parve che
un piccolo eco nascosto in qualche crepa del monte opposto ripetesse di là del
lago; - Addio....
*
* *
Villa Serena nel seno più interno
della riva spiccava solitaria nel giardino vasto e oscuro, che l'abbracciava
tutta nelle sue ombre profonde. Era una casa aperta sul lago con terrazzo a
lunga balaustra di pietra bigia, ornato di grossi vasi di sasso, colla facciata
d'una gravità signorile senza pompa e senza leziosaggini, una casa ancora senza
storia, che Camillo Bagliani, il padre di Ezio aveva acquistato poco prima
della morte della sua prima moglie. Vi aveva poi condotta la seconda moglie,
Vincenzina, vi aveva raccolto le sue memorie e vi era morto anche lui da poco
tempo, dopo aver passato gli ultimi anni di vita in uno stato di lenta paralisi
sul balcone della camera che prospetta il piano più vasto del lago.
Ezio vi era, si può dire, cresciuto
negli anni più belli della sua giovinezza e dopo la morte del babbo considerava
Villa Serena come il rifugio delle sue idee migliori. Per rispetto a donna
Vincenzina, sua seconda madre, l'eco dello gazzarre del Ravellino non vi doveva
nemmeno arrivare e dagli amici suoi, tranne questo contino Lulli, che aveva una
specie di salvacondotto nel titolo e nell'onorabilità del nome, nessuno altro
era mai stato introdotto tra le ombre oneste e tranquille di quell'angolo
invidiato. Ezio sapeva e voleva che gli altri avessero a distinguere tra il compagnone
allegro e il padrone di casa. I piaceri della vita non l'ubbriacavano mai fino
al punto di fargli perdere il sentimento de' suoi doveri, e in questa specie di
governo di se stesso era la sua forza e la sua superiorità su tutti gli altri
che gli facevano la corte. Questo senso di orgoglio lo faceva parere molte
volte duro e aristocratico ai democraticoni della gazzarra, pei quali lo
stravizio non ha bisogno di guanti e nemmeno di brache: ma Ezio voleva essere
aristocratico, e sapeva di esserlo, magnificamente, quando era il caso.
Quarantamila lire di rendita ben amministrata gli potevan concedere questo
lusso.
Il canotto con una giratina
magistrale imboccò l'arco oscuro della darsena e andò ad arrestarsi ai piedi
della scala che mena al giardino. Ma il luogo era così buio che lo sbarcare non
fu cosa facile. Ezio saltò a terra per il primo, tirò il legno a riva, lo legò,
a tastoni, colla catena, bestemmiando contro quell'animale di Moschino che non
era venuto incontro colla lanterna. Accese un zolfanello per rompere l'oscurità
e alla fiamma che rischiarò l'antro vide il ragazzetto seduto sulla scala,
addormentato, colla lanterna morta tra le gambe.
- Aspetta, lazzarone! - brontolò,
frenando con fatica la voglia di farlo rotolare nell'acqua. E presa uno ciotola
di legno, di quelle che servono a vuotar le barche, la riempì fino all'orlo e
versò tutta l'acqua sulla testa di Moschino, che gettò un urlo di spavento. Il
battesimo discese e serpeggiò fresco fino in fondo alla schiena.
- È così che tieni il lume acceso,
pigro animalaccio? - gridò il padroncino, mentre il disgraziato si dibatteva
nei panni bagnati. - Alza il lampione, se non vuoi che con un calcio ti butti
dentro. - Il ragazzo che conosceva per prova le furie del signorino, si alzò
grugnendo, levò il lampioncino di vetro: ma l'acqua aveva così bagnato il
lucignolo che si dovette rinunziare a ogni tentativo di accenderlo.
Bisognò far di necessità virtù,
arrabattarsi al buio e persuadere Andreino a uscir dalla barca: ma nel
frattempo Lolò s'era beatissimamente addormentato nel fondo e giaceva come un
sacco di cenci. Abbruciandogli due o tre zolfanelli sotto il naso, Ezio potè
richiamarlo un poco ai sensi e persuaderlo a lasciarsi tirar fuori: ma il
contino che sentiva la zampa dell'aragosta grattargli l'ugola, cominciò a
piangere sulla sua sventura e a dichiarare d'essere il più vile vermiciattolo
che si nutra di fango e altre di quelle melanconiche amarezze, da cui son presi
i nobili spiriti che hanno un'aragosta e del cattivo Sciampagna sullo stomaco.
Colle buone e colle brusche Ezio,
che in queste tragedie non era alle sue prime prove, potè finalmente schiodarlo
dall'asse, impedì che il più infelice degli uomini tuffasse le scarpette
nell'acqua buia della darsena, lo tirò sulla scala e a urti e a spintoni lo
condusse per l'oscura galleria alla luce del giardino. Era un peccato che don
Andreino non fosse in grado di ammirare la mite bellezza e l'incanto della luce
lunare, che stendevasi come un lenzuolo bianco sul piazzaletto ghiaioso e
gocciolava in vaghissime falde di neve nell'ombra dei viali senza riuscire a
dissiparne l'oscurità,
Tra una massa densa di cupe
conifere e una parete di mimose, d'aloè, di bambù, l'oscuro e tortuoso sentiero
conduceva alla casa dove tutti, fortunatamente, dormivano in quell'ora piccina,
nella calma profonda in cui il batter lento dell'onda pare anch'esso il respiro
della notte addormentata.
Don Andreino un po' sostenuto, un
po' trascinato dalla mano robusta dell'amico, non cessava di ripetere quel che
aveva già detto le cento volte, cioè, ch'egli era il più miserabile degli
uomini, più vile del più vile vermiciattolo che mangi il fango della terra: e
ogni qual tratto faceva il tentativo di fermarsi per dichiararsi indegno di
riporre il piede sotto il tetto ospitale del più generoso degli uomini. Alle
parole seguivano teneri abbracci, singhiozzi e vere lagrime di tenerezza, a cui
Ezio non sapeva opporre che frasi sorde come queste: Sta zitto, asino: non
svegliare quei di casa. Sì, vermicciattolo, taci che ora ti mettiamo a letto.
Moschino corse in cucina a prendere
un lume e per la scaletta di servizio venne fatto a tutti e due di spingere il
giovine ubbriaco fino a una stanzina, che di solito serviva al guattero di
casa. Lolò cadde sul letto, su cui Ezio distese un coltrone e lo lasciò
mormorando: Ora ne hai fino a domani sera.
Moschino accompagnò il padroncino
fin sulla soglia della stanza e tornò a cercare il suo letto. Nello strapparsi
di dosso i vestiti bagnati, che mandavano un forte odore di pesce, mormorava: -
E dicon porci a noi! - Ma il sonno scese presto a dissipare ogni rancore. Anche
Ezio si addormentò presto, rotto com'era dalla fatica: e non sognò che un
chiarore vago di luna in cui una voce, la voce di Flora, andava leggendo
qualche cosa ch'egli non riusciva a capire.
|