III.
Studi severi.
Non si svegliò prima delle sette e
il suo pensiero corse subito alla promessa fatta a Flora.
Sonò. La vecchia Bernarda gli portò
l'acqua ed il caffè.
- Dirai a don Andreino, quando si sveglia,
che mi raggiunga verso le due alla Boliviana, dove si radunerà il comitato
delle regate.
Saltò dal letto e compiè la sua
toeletta, dopo aver deterso colla spugna nell'acqua diacciata tutto il suo
corpo di elegante atleta, che strofinò colla canfora e coll'aceto profumato.
Quando si sentì ripulito da tutti i fumi dell'orgia, si vestì della biancheria
fresca di bucato, che mandava un buon odore di ireos, spalancò le gelosie verso
il lago per lasciar entrare tutta l'aria e tutta la luce della mattina,
Il lago era un tranquillo raso
celeste senza una piega da questa all'altra sponda. Per la china dei monti
scendeva a pezze disuguali il sole dorato a illuminare il vario verde dei
boschi e le capanne più alte, mentre una rara nebbiolina vagolava sui fianchi
più bassi e sulle rive che sentivano ancora qualche brivido della notte. Poche
barche di pescatori parevano immobili nello specchio, tra cui veniva sbuffando
il battello della mattina, che lasciava indietro un pennacchio di fumo.
Il giovane respirò a grandi fiati
la freschezza dell'atmosfera e mentre si spazzolava i capelli corti alla
repubblicana, sentì il bisogno di far eco zufolando ai gorgheggi delle capinere
e dei merli che popolavano i boschetti. Il profumo caldo dell'Olea fragrans
veniva dagli sterrati del giardino, che tocco dal primo raggio del sole, che
sul lago sorge tardi, schiudeva i suoi verdi, da quello scuro dell'abies
nigra, al verde smunto del deodara, a quello paglierino del bambù e al
verde luccicante e bagnato del lauro ceraso e della magnolia. E tutta questa
festa di verde veniva sbattuta dal riflesso del lago, che faceva luminello
sulle pareti della stanza.
Questa era stata già del suo povero
babbo. Qui il brav'uomo aveva languito gli ultimi mesi, qui era morto. Vicino a
questa camera si apriva lo studio vasto, ancora arredato da solidi scaffali,
pieni di libri e di carte, e popolati dei cento oggetti che parlavano della sua
vita e delle sue opere. Tra due scaffali un busto di marmo lo rappresentava nel
vigore degli anni e della fortuna, quando su proposta di Quintino Sella, che
aveva avuto di don Camillo Bagliani un'alta opinione, era stato mandato
prefetto in Sicilia in un momento di grave pericolo sociale. E in un quadro era
esposta tutta la raccolta delle sue decorazioni, che cominciavano con una
piccola medaglia commemorativa della battaglia di Palestro e finivano colla
commenda dei SS. Maurizio e Lazzaro.
In faccia al busto del babbo, nello
spazio tra le due finestre, in una ricca cornice d'oro pendeva il ritratto a
olio di sua madre, la povera contessa Saulina di Pianello, una bellezza dolce e
delicata, scomparsa troppo presto tra gli strazi d'un lento esaurimento
nervoso.
Questo era per Ezio come un
santuario: e quando, sottraendosi alle dissipazioni della vita esterna, poteva
raccogliersi una mezza giornata tra le sacre memorie e metter le mani nella
corrispondenza di suo padre, il giovane Bagliani sentiva dentro di sè quasi un
senso di ribellione contro la miseria di quel suo vivere, tra gente fatua, che
nel suo orgoglio istintivo sentiva di stimare meno dei cani.
Fu in uno di questi momenti di
resipiscenza che pensò di romperla con Liana, una vagabonda che pretendeva di
comandargli e che gli aveva già fatto molte scene disgustose: e da tre mesi si
vantava in cuor suo di saper resistere alle tentazioni. Anche il desiderio di
dar l'ultimo colpo a' suoi studi e di prendere un titolo accademico secondo il
desiderio del povero babbo, andava parlandogli in cuore come un rimorso.
Tra le molte disuguaglianze di
spirito che la natura gli aveva regalato c'era in Ezio un fondo massiccio
d'orgoglio che gli impediva di scendere fin dove il fango arriva agli occhi.
Avveniva che dai più irregolari eccessi, quasi per rifarsi un credito davanti a
sè, si chiudeva come un bimbo cocciuto per quindici o venti giorni in camera,
dove si dava a studiare a più non posso, come se dovesse pubblicare un nuovo
Digesto.
Da un mese era in questo periodo di
penitenza e di esercizi spirituali e, se aveva ceduto una notte all'invito di
Erminio Bersi, sentiva di esserne tornato ancor più sazio e ancor più convinto
che la vita non può essere soltanto in fondo ai piaceri.
Per far venir l'ora di andare da
Flora, tolse il violino dall'astuccio e corse una mezz'ora sulle corde,
ripetendo a memoria tutte le scale degli esercizi che da cinque o sei anni
tormentavano il vecchio strumento. Per quanto la naturale disposizione
l'aiutasse, il nostro filarmonico non aveva mai saputo uscire da quella mezza
capacità, che fa desiderare e rimpiangere l'altra mezza. Forse aveva ragione di
dire il suo maestro Pazzini che i topi avrebbero fatto più presto a rosicchiare
lo strumento di quel che Ezio Bagliani a studiarlo. Ma quel poco, così
frammentario e rappezzato, gli serviva qualche volta a ingannare il tempo, quel
benedetto tempo che in fondo, come si dice, è galantuomo e non merita di essere
ingannato.
*
* *
Prima delle otto al Castelletto era
già tutto in ordine e nitido come uno specchio. Dalle sei alle sette Flora
nella brezzolina fresca, che veniva dal lago, aveva finito di copiare la grossa
dissertazione sulla Complicità, che per settanta lire Ezio aveva
acquistata da un povero storpiatello di studente, bisognoso e bravo in questi
studi come un Cuiacio. Con quattro raffazzonature di stile gli aveva data
apparenza di roba nuova e sperava con quattro ciarle di darla a bere ai
professori della Facoltà, che hanno delle dissertazioni, specialmente di quelle
grosse, un rispetto quasi istintivo che lì dispensa spesso dal leggerle. Flora
aveva dovuto lottare un poco per decifrare gli sgorbi d'una scrittura storpia
come il suo autore. Tutto quel gran latino ch'essa non capiva, tutte le
citazioni giuridiche e i commenti ermeneutici che avrebbero fatta la
disperazione d'un cancelliere, s'eran trasformati, passando sotto la sua penna
di acciaio, in una magnifica scrittura violetta, aperta, slanciata, decorata di
fregi e di svolazzi che gli eguali non avevano mai veduto i parrucconi
dell'Università.
Dalle sette alle sette e mezzo era
scesa in giardino a innaffiare i quarantacinque tra vasi e vasetti della sua
botanica e a dar da mangiare alle quattro galline del pollaio. Aveva portato il
caffè in camera alla mamma e combinato con lei una lista per far onore al quasi
cugino di Villa Serena, che si degnava di venire a colazione al Castelletto. Si
stabilì che alle due uova si dovesse aggiungere una costoletta di montone, un
caffè e panna e un piatto di fichi primaticci. In quanto al vino si poteva far
prendere all'osteria un certo bianco non troppo brusco che Ezio aveva una volta
portato alle stelle.
Dati gli ordini alla vecchia
Nunziata, Flora preparò la tavola sul terrazzo in ombra con quanto vi era di
più bello e di meno scornato nella dispensa: e verso le otto si ritirò in
camera a lavarsi e a pettinarsi. De' suoi tre vestiti più presentabili scelse
uno di percalle celeste a fiorellini bianchi senza cintura, chiuso con una
semplice arricciatura intorno al collo: un abito di carattere infantile, che la
faceva parere più alta e più leggera. Que' suoi folti capelli color del rame
(checchè si dica contro il rosso) non istavano male sopra il percalle
scolorito, che oltre a scendere con pieghe morte e lunghe, come si vedon
dipinti certi angeli di frate Angelico, coi capelli d'oro, aveva il vantaggio
di nascondere un paio di stivaletti non troppo in armonia tra loro.
Mai il tempo non le era parso così
lungo e abbondante come quella mattina! o le mani lavoravano troppo in fretta o
troppo in fretta lavorava il suo pensiero. Dacchè Ezio aveva ripreso a
frequentare il Castelletto col pretesto della Dissertazione, qualche
cosa d'insolito era entrato nella vita scolorita ed eguale della casa, che da
cinque o sei anni dormiva nella pigrizia delle loro padrone. Flora aveva
riaperto il vecchio pianoforte, detto il trappolone, e procurava di farlo
stridere meno orribilmente sotto le sue dita di acciaio. Un po' meno di polvere
si accumulava sui mobili e qualche ragnatela di meno intorbidava il ritratto
della nonna Celina sul fondo slavato della tappezzeria di carta color ulivo.
Quantunque Ezio non fosse per Flora
che un cugino posticcio, perchè la zia Vincenzina non era che una seconda madre
per il giovane, tuttavia i due ragazzi eran cresciuti, si può dire, insieme
all'ombra delle stesse piante; e si trattavano col tu, sebbene la diversità
della loro condizione sociale e gli anni passati da Ezio all'università li
avesse separati più di quel che fosse nei loro gusti e nei loro intendimenti.
*
* *
Il Conte Stanislao Polony, padre di
Flora, di antica famiglia di Varsavia, era venuto giovanissimo in Italia col celebre
poeta Adamo Mickiewicz a offrire il suo braccio alla nostra causa nazionale e
dopo aver combattuto nelle cinque giornate di Milano, era stato con altri
polacchi incorporato nell'esercito sardo. Aveva col grado di capitano
combattuto in Crimea e nel cinquantanove era stato nominato colonnello sul
campo. Dopo la pace di Villafranca sposò Matilde Stellini, figlia d'un modesto
impiegato della Tesoreria provinciale, la quale lo consolò presto col dono di
una bella bambina dai capelli d'oro, i capelli della nonna Celina. Scoppiata la
guerra del sessantasei, il conte Polony fu tra le prime file e cadde colpito al
cuore alle prime cariche alla testa del suo battaglione, lasciando la moglie e
la bambina in qualche strettezza.
I beni dell'antica famiglia erano
stati confiscati fin dal dì che i Polony s'eran mescolati ai moti politici del
loro paese. Anche la nonna Celina, che ora guardava dal di sopra del pianoforte
con uno sguardo tenero, dentro la sua vecchia cornice tarlata, anche questa
figurina minuscola dai labbri rosei e dai cappelli di fuoco aveva rappresentata
una parte tragica negli avvenimenti e nei rivolgimenti della patria. Donna di
singolare energia, accesa di santa fiamma per la causa nazionale, inscritta ad
una società segreta, la sua manina delicata aveva saputo assestare una
pugnalata mortale al Commissario della polizia russa nell'uscire una notte in
mezzo a una frotta di maschere dal teatro dell'opera: e così aveva creduto di
vendicare il marito, il conte Vladimiro Polony, che i Russi avevan fatto morire
sotto le verghe. Storie d'altri tempi e d'altri cuori, che sembrano leggende
d'un altro mondo al nostro stanco quietismo; ma Flora che aveva letto questi
casi in un opuscolo stampato a Parigi, dove la contessa Celina era morta in una
dignitosa miseria, non poteva guardare in faccia alla scolorita immagine della
nonna senza provare nel sangue un piccolo fremito d'orgoglio. Della antica
grandezza di casa Polony non ora rimasta che quella cornice d'oro sbiadito, e
una cassettina misteriosa che conteneva un pugnaletto sottilissimo e un piccolo
guanto di donna tinto di sangue. Ma al fasto delle memorie poco, troppo poco,
corrispondeva la tenue pensione che il governo aveva assegnata alla vedova del
colonello Polony, e se la zia Vincenzina non fosse venuta spesse volte in
soccorso della sorella più povera, troppi giorni tristi avrebbero amareggiata
la vita delle due derelitte. La zia, entrata in una casa ricca, provveduta
d'ogni bene, non lasciò mai di giovar loro fin dove il soccorso non paresse
confinare coll'elemosina. Per loro aveva presa a pigione questa piccola e
sconclusionata casa detta del Castelletto, in cui le Polony per economia
passavano anche l'inverno. Nei mesi buoni amava avere con sè la nipotina a
Villa Serena, che la rallegrava colla sua vivacità: o andava essa stessa a
passare qualche ora ogni giorno al Castelletto quando la sorella, già molto
scossa dalle frequenti artriti, non si arrischiava di affrontare i soffi
dell'aria.
A questa loro sorte le Polony
s'erano ormai abituate. Gl'inverni così tiepidi sul lago facevano meno sentire
alla madre il tormento dei vecchi dolori che l'obbligavano quasi a un perpetuo
ritiro: e in quanto a Flora, per natura già alquanto selvaggia, sapeva trar
profitto della sua solitudine, anche quando il sole si specchia nelle nevi,
anche nelle più torbide giornate, quando il vento porta le nubi sul lago e
batte la pioggia dura contro le finestre. La lettura e lo studio delle lingue,
per le quali aveva una disposizione tutta slava, la pittura, il «trappolone» le
faccende di casa, le sue buone vicine povere, l'assistenza a un asilo infantile
di cui s'era lasciata nominare patronessa, rubavano le ore delle brevi
giornate; finchè al tornare dell'aprile il lago cominciava a ripopolarsi.
Allora colle rondini tornavano le amiche straniere che son solite passare la
primavera in Tremezzina: più tardi si riempivano le ville delle conoscenze più
intime. Ricchi e poveri tutti conoscevano la signorina del Castelletto, la
contessina, la polacca dai capelli rossi, che per quanto uscisse colle
singolarità del suo modo di vivere dalle compassate convenienze, pure era
l'anima delle brigate. Non si faceva una scampagnata, non si metteva insieme un
ballo o una lotteria di beneficenza senza prendere gli ordini al Castelletto,
che veniva considerato come il quartier generale delle buone imprese. In quanto
al popolo dei barcaiuoli o dei pescatori considerava ormai la signorina come
una figliuola del paese. - Peccato - dicevano qualche volta tra loro i
poveretti - peccato che n'abbia pochi....
*
* *
Per far venir quelle benedette nove
che non sonavano mai, Flora sedette davanti al «trappolone» e cominciò a
correre colle dita sopra un'indiavolata variazione, che faceva stridere e
saltare tutte le corde più svogliate e più addormentate nel cassone; e mentre
le note s'inseguivano urtandosi e incalzandosi, il pensiero si lasciava
trascinare a vecchie fantasie, a ricordi lontani, ai tempi della più remota
fanciullezza, quando era venuta a stabilirsi dopo la morte di suo padre in
quest'angolo del lago, in questa casa aperta a tutti i venti; e vedeva Don
Camillo Bagliani, un uomo grave che parlava con tristezza; vedeva Ezio, un
ragazzo poco più alto di lei, vestito alla marinara, che l'invitava a giocare
nel boschetto della villa o la conduceva in barchetta: vedeva la bella zia
Vincenzina, ancor giovine in tutto lo splendore de' suoi vent'anni, vestita
come una regina, colle sue magnifiche buccole di diamanti. Con uno sguardo
riassuntivo (mentre le dita andavano per loro conto sui gialli avori del
trappolone) vedeva passare molti anni e molta gente. Gli uni morire, gli altri
farsi più grandi, la mamma rinchiudersi sempre più ne' suoi piccoli mali, e
delle amiche, che venivano a villeggiare sul lago, quale andar sposa ed essere
felice, quale andar monaca ed esserlo di più, quale alzarsi, quale scomparire.
Quel che era molti anni fa un piccolo giardino s'era fatto quasi una selva: le
rive una volta più deserte s'erano popolate di casette: molti che essa aveva
carezzato ragazzi sulla riva c'eran già partiti e ritornati da soldato. Essa
sola era stata sempre la stessa; e presso ora a voltare la punta pericolosa dei
ventidue anni, si domandava (in un modo confuso che non aspettava risposta) se
proprio era scritto che per lei il tempo dovesse sempre passare così.
La mamma avrebbe desiderato ch'ella
sposasse il buon Cresti, il misantropo del Pioppino, un misantropo non privo
d'una sua singolare amabilità, il fedele compagno delle loro lunghe serate
d'inverno, il buono e ruvido Cresti, non più giovane, non di bellezza un sole,
ma che avrebbe diviso tanto volentieri la vita con lei e colla mamma.
Cresti voleva dire la tranquillità
e l'agiatezza serena per tutta la vita, e ciò non era poco: perchè quando Flora
correva fino a immaginare quel che sarebbe di lor due povere donne tra un dieci
o dodici anni, non sapeva togliersi a un senso di sgomento. La miseria e la
vecchiezza son le due parche più giovani; la morte è la terza. Cresti era un
cuore poco espansivo ma solido, ostinato ne' suoi affetti, di gusti selvatici,
che non potevano dispiacere a Flora, anch'essa un'erba selvatica dall'aroma
forte; ma con tutto questo non era ancor giunto il momento di dirgli di sì.
Posto che Ezio non poteva amar lei
già vecchia e stracciona, posto che essa non poteva sposar lui per la grande
differenza di condizione sociale: posto che il bel signorino amava divertirsi a
modo suo e non aveva alcuna intenzione di legarsi le mani e i piedi: posto
ancora che le belle - per quel che se ne diceva - eran già tutte sue e che per
far breccia nel suo cuor di ragazzo gaudente ed egoista Venere e Minerva
insieme non sarebbero bastate: posto finalmente che una contessina Polony dagli
stivaletti scompagnati aveva pure il suo bell'orgoglio di razza - non era il
caso di supporre ch'ella resistesse al desiderio della mamma e alla muta
adorazione del buon Cresti per qualche segreta speranza o per un'illusione in
aria che si fosse messa davanti. Ezio Bagliani - lo sapeva benissimo - non era
un ragazzo da vendere la sua libertà a ventiquattro anni a una signorina di
ventidue. Diceva anzi nudo e crudo a tutti quelli che volevano sentire che
prima dei quarant'anni è follia per un uomo ricco il prender moglie. Troppo
bella gli si apriva la vita per tutti i quattro punti cardinali, perchè volesse
farsi eremita. Eran queste le massime sue e di tutti quelli che amano, come si
dice, godersi la vita. Con chi e che cosa andasse a fare a Nizza nella stagione
dei famosi carnevali era il segreto di pulcinella: il nome di Liana e d'altre
bellezze non era sconosciuto al Castelletto. Il buon Cresti, che dalla sua
solitudine seguiva la cronaca elegante, non si faceva scrupolo di parlarne
forte anche in presenza di Flora, di descrivere le belle ossia le brutte
avventure del signorino di Villa Serena, che dopo la morte del babbo s'era dato
a battere allegramente la cavallina: e metteva quasi un certo gusto, forse un
interesse suo, a caricare le tinte e a suscitare nell'animo impressionabile
dell'onesta signorina orribili ripugnanze morali.
Con tutto ciò Flora non sentiva ancora
per il suo quasi cugino quel senso di ribrezzo che il vizio dovrebbe suscitare
in ogni animo ben nato. Per lo meno fin che poteva sperare di poter esercitare
qualche benefica influenza, non voleva da parte sua perdere il vantaggio di una
posizione indipendente. Essa si era quasi convinta che il cielo l'aveva
prescelta a esercitare sopra il giovane dissipato una benefica influenza, quasi
la parte di buon genio e non voleva, fin che questa convinzione durava,
mettersi in condizione di non poter giovargli quel giorno ch'egli fosse venuto
a chiedergli un soccorso.
In che modo le fosse entrato
nell'animo questa persuasione non sarebbe difficile dimostrare, quando si
ricordi che Flora nei primi anni della giovinezza, allorchè si risvegliano per
la prima volta i misteri del cuore, era stata per Ezio la compagnina preferita
in tutti i suoi giuochi nel giardino della villa, nelle grotte della vigna, sul
lago, sui monti. S'eran più volte misurati nei vani delle finestre, segnando
ogni anno l'altezza con molte striscie sul muro: le lettere E F
intrecciate si vedevano ancora crescere scolpite nella carnosa corteccia degli
aloè. Giochetti da fanciulli, d'accordo. E fu appunto per tagliar corto a
questi giochetti pericolosi che don Camillo, il babbo, dalla faccia triste,
aveva fatto capire alla zia Vincenzina come non fosse più decorosa una tanta
famigliarità tra un giovinetto di quasi vent'anni e una bambina che cresceva
alta come un papavero.
La mamma Matilde alla sua volta
aveva fatta una lunga predica per dimostrarle che la troppa confidenza fa
perdere la riverenza. Ezio non era suo fratello e nemmeno suo cugino giusto,
come credeva la gente. Tutto il bene che poteva venir loro da Villa Serena non
si aveva ad accettare che come una grazia di cui era dovere corrispondere con
riverente riconoscenza e punto lì. Qualche volta scappò detto alla buona mamma
che dei signori in genere è bene non fidarsi, perchè i signori meno degli altri
capiscono il male che fanno e il bene che non sanno fare. L'egoismo a
differenza delle altre passioni, si rinforza nella bambagia e nulla c'è di più
crudele come una signorile pigrizia che non vuole scomodarsi.
Questi avvertimenti ripetuti e
ribaditi, la sopravvenuta malattia di don Camillo, che durò molti mesi, la
catastrofe della sua morte, l'assenza prolungata della zia e di Ezio tennero
per quasi due anni separate le due famiglie e intanto il giovine ebbe tempo di
dimenticare e di stringere altre amicizie che l'avviarono in un altro ordine di
gusti e di preferenze.
*
* *
Passavano queste immagini nell'onda
sonora del trappolone, mescolandosi a una Variazione sulla Norma, una
complicazione tremenda di semicrome, che le uscivano macchinalmente dalle
dita....
Ora Ezio s'era dato tutto agli
studî seri, voleva prendere la sua laurea, non perchè avesse bisogno di
attaccare un manico al suo nome, ma perchè non si dicesse da nessuno ch'egli
non aveva saputo fare quel che cento imbecilli sanno fare. L'orgoglio non è
sempre al servizio del diavolo: e una volta inforcato questo cavallo, Ezio era
uomo da camminare un pezzo sulla strada del bene. Era il momento di aiutarlo in
tutti i modi, compreso quello di copiar per roba sua una scienza comperata per
settanta lire....
Passavano questi pensieri, quando
il campanello del portone di strada sonò in un modo più forte del solito, come
soleva farlo sonar lui. Ezio era qui: l'orologio segnava le nove precise. Flora
alzò uno sguardo alla nonna Celina e si scagliò sulla tastiera per darsi della
forza e un contegno di artista ispirata. Sentì il suo passo che attraversava il
cortiletto, lo sentì entrare, lo sentì fermo dietro le spalle: e piombò sul
triplice finale: boum, boum, boum.
- Boum, boum, boum... questo tuo
Listz merita di essere impiccato, ma tu non suoni male. Questa non è musica, ma
semplicemente una Norma tirata a coda di cavalli.
- Forse è la prima volta che ne
dici una giusta - rispose Flora colla solita spigliatezza, in cui soleva
rinforzarsi come in una corazza. - Che sia effetto di quel cappellino nuovo di
paglia?
- Che ha ella a dire del mio cappellino
di paglia? - disse, mettendosi ritto davanti a un gran vetro allumacato, che
faceva da specchio al ritratto della nonna Celina.
- È bello... è stupendo... è degno
del padrone.
Egli era in giacchettina chiara con
una larga fascia color pomodoro, che spiccava assai bene sopra i suoi calzoni
color del burro, cascanti e flosci, da cui usciva un paio di scarpe zafferano,
- Che cosa mi manca per essere un bel giovine? Celiò mentre si carezzava colla
punta delle dita gli scarsi baffi neri e un cespuglietto di barba crespa
incipiente, che dava vigore e forza alla sua faccia abbronzata di vice
ammiraglio.
- Mamma, c'è Ezio - disse Flora,
andando incontro alla signora Matilde, che entrò ravvolta ne' suoi soliti
scialli di lana, come se fossimo in novembre, con in testa la sua cuffietta a
nastrini celesti, in cui il suo viso pareva ancor più delicato e pallido: ma la
finezza dei lineamenti manteneva in quella donna malaticcia un'apparenza di
giovinezza, che i quarantacinque anni avean passato da un pezzo.
- Già in piedi la mia cara zia?
quando si va ancora alla Cappelletta in canotto?
- Con te mai più - protestò la
zietta, che si ricordava un brutto quarto d'ora. - Non avete nessun rispetto
dell'acqua.
- Sono i vostri peccati che fanno
il lago cattivo.
- I nostri? chi c'era al Ravellino
stanotte? è così che lor signori si preparano agli esami di laurea?
- Tu predichi così bene in quella
cuffietta che è peccato non far dei peccati.
- E del tuo conte Lolò che n'hai
fatto? chiese Flora, - Dove l'hai fatto fare questo elegante attaccapanni?
- Don Andreino è il più impeccabile
degli elegantissimi di Milano. È lui che da il tono alla moda.
- È per questo che porta quel
corvattone verde e crespo come l'indìvia?
- È l'ultima parola di Parigi. Don
Andreino, così minuscolo come lo vedi, sa a memoria il nome di tutti i cavalli
che hanno vinto sui turf d'Europa in questi dodici anni.
- E non quello degli asini che
perdono?... - rimbeccò la lingua maledica di Flora.
- Non per nulla tu hai sul capo
quei capelli rossi e rabbiosi come bisce.
- Se avete qualche cosa a fare non
perdetevi in ciarle - osservò la signora Matilde, prendendo posto nel suo
seggiolone di velluto nel vano della finestra, mentre i giovani si mettevano a
sedere alla tavola di mezzo.
- Brava, tu hai lavorato come un
angelo, biondina, e bisognerà che ti faccia un bel regalo... - Bello, mirabile,
incantevole... - andava ripetendo Ezio, mentre faceva passare le pagine del
manoscritto. - Questi svolazzi faranno colpo sugli esaminatori.
- Bisogna che rileggiamo insieme
qualche pagina che non ho ben capita. Quel tuo gobbetto, a ogni fiato,
t'incastra una citazione latina che è uno spasimo.
- Il latino dà il sapore alla
scienza come i lardelli allo stufato.
Si cominciò col ridere a questo
paragone dei lardelli.
La mamma cercò di far la voce
grossa, ma i ragazzi risero ancor più forte. Il sole entrava lieto per le due
finestre e andava a battere sul volto di nonna Celina, che pareva rider anche
lei nella vecchia cornice.
- Prima permettimi una
pregiudiziale, come dite voi legali - soggiunse Flora. - Non c'è pericolo che
l'autore di questa dissertazione abbia già presentata per roba sua la tesi o
l'abbia già venduta ad altri? tu faresti una brutta figura.
- Punto primo la roba vien da
Napoli e da Napoli a Genova c'è di mezzo il mare: punto secondo ho mutato il
titolo e il principio dei capitoli: punto terzo i professori non sono così
bestie da legger quel che noi presentiamo.
- Allora perchè fate le
dissertazioni?
- È un uso così.
- Come le cravatte di Lolò.
- Oh no, più stupido.
- Sarete almeno chiamati a esporre
le idee fondamentali del vostro lavoro.
- Questo sì. Sarebbe un'eccessiva
imprudenza andare agli esami senza aver letto almeno una volta quel che si è
scritto. Vuoi una sigaretta, Flora?
- Cominciamo.
- Cominciamo pure. Leggi tu, mentre
io tiro due boccate. Tu permetti, zietta?
- Purchè non si faccian discorsi
inutili.
Ezio si abbandonò sulla tavola,
appoggiò la testa al palmo della mano, e seguendo coll'occhio il manoscritto
originale, invitò Flora a leggere la sua copia.
La giovine cominciò con voce netta
e scorrevole:
«Nella legge de Sicariis
troviamo eguagliato chi prepara il veleno a chi lo somministra. Qui hominis
necandi causa... - vuoi masticarlo tu questo lardello?
- Necandi causa - continuò
Ezio, mentre Flora seguiva il manoscritto colla punta della penna - venenum
confecerit, dederit, vel vendiderit, vel habuerit; quive falsum testimonium
dolo malo dixerit... quo... qui... tu hai ragione, questi son scorpioni,
non parole,
- Non c'è voluto meno che la mia
pazienza e il mio amore per la tua laurea, se ho potuto resistere sino alla
fine.
- Tu avrai un bel posto in
paradiso.
- Speravo che mi dicessi: ti
troverò un bel marito.
- A questo potrò pensarci quando
avrò presa la laurea.
- Ahimè misera allora...! -
conchiuse ridendo la fanciulla, che sapeva affrontare gli argomenti
sdrucciolevoli per darsi il gusto di scivolarvi sopra.
- quo... qui pubblico judicio
rei capitalis damnaretur... cioè gli si tagli il collo - continuò il
mariuolo, che sapeva anche lui scivolare sugli argomenti sdrucciolevoli.
- ... - retur - fece eco
Flora: - -E altrove nella stessa legge Cornelia: - Nihil...
- Nihil interest occidat quis an
causam mortis praebeat.
- ...praebeat, Ottaviano
Augusto, Valentiniano, Valente, Graziano sotto il titolo: - de iis qui
latrones.....
- Salta il lardello, biondina.
- Ulpiano tiene responsale di furto
chi persuade il servo a fuggire e cita la conforme opinione di Pomponio Labeone
che scrive: - non minus delinquunt...
- Salta!
- Non capisco se questo Pomponio è
una persona sola con Labeone o so siano due giureconsulti.
- Che te ne importa? quando si sta
bene in salute.
I due giovani risero di nuovo in
coro e fecero ridere di nuovo la mamma zietta, che si sforzava di aguzzare una
faccia severa sopra il calcagno d'una calza che teneva nelle mani.
Essa temeva sempre in cuor suo che
Flora si abituasse a scherzare col fuoco e ne avesse poi a riportare qualche
scottatura. Ma Flora diceva sempre: - Non aver paura, mamma; so fin dove posso
andare.
- Tira avanti che è bello, Flora -
comandò Ezio.
- «Ulpiano afferma...» - ma li
conosci tu questi bravi signori?
- Ulpiano credo di averlo sentito
nominare. In quanto a Pomponio Labeone, dacchè l'ho dato alla balia, non ho mai
avuto notizie de' fatti suoi.
- «Noi non intendiamo con ciò di
negare il fattore antropologico del delitto - continuò Flora, leggendo nel
manoscritto - ma intendiamo soltanto di dimostrare questa verità: l'unione
degli individui peggiora moralmente ciascuno,» - Ma sai che quel tuo gobbino ne
dice delle belle? Par che abbia conosciuto Lolò.
- Va avanti, lingua velenosa,
- «Avviene allora...» - senti anche
tu, mamma, come scrive bene il nostro Ezio, quando fa il Pomponio Labeone: - «avviene
allora una degenerazione fatale dovuta a quella verità dolorosa che nella
società come nella natura sono i germi peggiori quelli che più facilmente si
riproducono e si diffondono. Il microbo del male ha una potenza d'espansione
infinitamente più grande di quella del bene - (Flora andava alzando la voce in
tono di predica, gesticolando con un dito in aria) - giacchè, mentre pur troppo
si sa che molte malattie sono contagiose, non è ugualmente provato che sia
contagiosa la salute...»
- Ti giuro, zietta, che non le ho
scritte io queste belle parole: è tutta sapienza del gobbetto.
La lettura andò avanti ancora un
pochino a spinte e a calci; ma quando si fu alla fine del primo capitolo e che
si annunciò il secondo sul «Manutengolismo» Ezio si alzò e disse:
- Basta per oggi: ho fame.
*
* *
Mezz'ora dopo sedevano tutt'e tre
intorno alla piccola tavola imbandita sulla terrazza, nell'ombra fitta d'una
pergola di vite americana, che si appoggiava da una parte al muro della casa e
dall'altra al grande oleandro in fiore. I due giovani, messi in vena dalla
giurisprudenza, fecero onore alle uova, al montone, al pane fresco e al vin
bianco non troppo brusco. Si parlò delle prossime Regate, che dovevano
quest'anno aver luogo nel bacino di Tremezzo e che avrebbero attirata mezza
Lombardia. Ci dovevano essere corse a vela, corse di canotto, corse di
barcaiuoli, per le quali si stavano già raccogliendo ricchissimi premi e
vessilli dalle patronesse. Ezio nella sua qualità di vice presidente aveva
offerta la bella coppa d'argento vinta lo scorso inverno col suo Morning
Star a Nizza, dove aveva battuto i canottieri della Senna. Di Tremezzo
avrebbe corsa la gara dei barcaioli il bell'Amedeo, il fidanzato di Regina, che
sperava quest'anno di battere quei di Gravedona.
Ezio, animato dal vinetto bianco e
dall'aria viva che rinfrescava il terrazzo, passò dalla nautica a discorrere di
scherma, e piantatosi nel mezzo dello spazio libero, mostrò a quelle due donne
e alla vecchia Nunziata, che entrava col piatto dei fichi, come si giuoca una
finta all'avversario, quando lo si attira per appoggiargli una puntata al
petto. Flora corse a prendere due bastoni e provò a incrociare il suo ferro con
quello del quasi cugino, che dopo varie mosse di cortesia, si lasciò ferire
nello sparato della camicia per dar spettacolo di un uomo che, colpito a morte,
barcolla e cade boccheggiando nel proprio sangue.
La mimica commosse tanto la povera
Flora, che chinatasi con un ginocchio a terra sul finto morente, finse di
piangere e di strapparsi i capelli rossi, i quali si sciolsero davvero dalle
stringhe e dalle forcine posticcie e scesero nella loro straordinaria e
rubiconda abbondanza sopra le spalle e il busto. La vecchia Nunziata,
affascinata, stava lì immobile come stanno le statue del Sacro monte, colla
faccia irrigidita nelle grinze, in una espressione di comica afflizione, quasi
dubitasse che il signor Ezio fosse ferito davvero; e intanto lasciava cascare i
fichi dal piatto.
Flora era ancora in
quell'atteggiamento di Maddalena, cercando di sollevare la testa del falso
moribondo, quando la signora Matilde, scattando improvisamente, gridò;
- O Cresti, da dove è scaturito?
- Dall'uscio. - Sulla porta della
sala, due passi dietro la donna dei fichi, s'era fermato anche lui in un
atteggiamento tra il comico e il disgustato, il solitario del Pioppino, che
teneva tra le mani un canestrello di vimini, coperto da un tovagliolo, una vera
figura anche la sua di presepio meccanico.
- O Cresti - declamò Ezio in
accento tragico, stendendogli la mano dal terreno - tu arrivi a tempo a baciare
un moribondo. Pianta, ti prego, una carota sulla mia tomba. - Com'ebbe detto
ciò si lasciò andare morto del tutto, acciuffando un paio di fichi che si
mangiò colla pelle.
- Morirà la capra d'una povera
donna, non certe bestie - brontolò, facendosi avanti con lenti passi il padrone
del Pioppino fino alla tavola, dove collocò il prezioso canestrello, che dava
dei guizzi come se avesse dentro qualche cosa di vivo. Quando Flora potò
supporre quel che di veramente vivo ci doveva esser dentro, dette un grido di
gioia, e così come si trovava, con quella fiera chioma disciolta sulle spalle,
rimosso con precauzione il capo del tovagliuolo, si prese nelle mani un
coniglietta vivo, tutto bianco, una morbidezza calda che faceva tenerezza a stringere:
e piagnucolandogli sopra, colla bocca appoggiata al pelo liscio e morbido -. -
O che caro Cresti, si è ricordato! guarda, mamma, come son belli, Son
novellini?
- Hanno poco più di una settimana.
- Cari, cari! e mangiano da soli?
- Cari, cari - disse Ezio,
risuscitando - e come si mangiano?
- Tu stai meglio morto... - gli
disse Cresti, mettendogli la mano dura sul petto.
- Tu mi odii, o Cresti: lo sento,
lo vedo: uno di noi è troppo sulla terra. Ti lascio la scelta delle armi.
- La scopa, la scopa - ribattè il
misantropo, divincolandosi tra le strette di Ezio che cercava di fargli ballare
un minuetto. Quando fu possibile avviare un discorso ragionevole, Cresti
insegnò a Flora come dovesse trinciare minutamente delle foglie di cavolo,
ammollarle nel latte in una scodella, e come dovesse a poco a poco imboccare i
coniglietti. Poi volgendosi a Ezio, gli disse bruscamente:
- È arrivato tuo zio Massimo.
- L'ambasciatore della Bolivia? e
perchè non viene ad abbracciare l'unico suo nipote?
- Verrà, verremo insieme, Ora è un
po' stanco del viaggio.
Ezio tirò un poco in disparte la
zia Matilde e abbassando la voce, domandò: - Questo mio zio doveva sposare la
mia madrina, non è vero?
- Come sai questa storia? - esclamò
essa, arrossendo e confondendosi.
- Ho trovato alcune lettere tra le
carte del babbo; ma voi sapete che sono uomo di mondo capace d'intendere e di
compatire.
La zia Matilde strinse la mano del
giovane nelle sue e mormorò: - Son storie di altri tempi: storie morte o
sepolte.
- Io non desidero che di voler bene
a chi mi vuol bene,
- Bravo Ezio! - disse la zia con
voce commossa. Improvvisamente il giovane si ricordò che per le undici e mezzo
doveva trovarsi col Bersi e con altri amici del Comitato.
Il tempo gli era volato via più
presto del solito quella mattina. Sentendo sonar mezzodì, scese la scaletta che
dal giardino va alla riva e diede una voce ad Amedeo, che stava stendendo
alcune reti al sole. Il giovinetto venne colla barca. - Addio, addio, e grazie
di tutto... - gridò saltando nel legno e afferrando un remo. - A rivederci
domani per il secondo capitolo; e tu, Cresti, non augurarmi una perfida morte.
Saluti carissimi allo zio: ditegli che l'aspettiamo a colazione; sarà bene che
veniate tutti quanti una di queste mattine.
- Addio, Pomponio Labeone - gridò
Flora all'orlo dell'acqua, mentre cercava di allacciare colle mani dietro la
nuca quel suo mazzo di bisce infocate dal sole.
La signora Matilde dall'alto del
muro faceva addio colla mano indulgente, ancor commossa delle parole che il giovane
aveva saputo trovare in fondo al suo cuore.
Quando si volsero per cercar
Cresti, non lo trovarono più. Qualche cosa aveva offesa la sua nervosa
suscettibilità, al solito; ma il buon Cresti era di quegli uomini che
ritornano.
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