IV.
La Saetta.
Flora Polony non era di quelle
bellezze che saltano agli occhi e che fanno dire alla gente che passa; - Guarda
che stupenda ragazza! Piuttosto alta e slanciata, la sua persona più vigorosa
che ricca sentiva ancor molto lo squilibrio di uno sviluppo affrettato, che i
ventidue anni cominciavano appena ora a frenare e a consolidare.
La testa molto alta sul busto,
sopra un collo ammirabile per candore e per delicatezza, dominava un po' troppo
con quella folta criniera di capelli color del rame, ribelli al pettine, e
sempre in aria come le idee della padrona.
La natura sana, solida nei muscoli,
flessibile ai cenni d'una volontà piuttosto impaziente, traspariva da quel suo
corpo non ancora finito di grande collegiale, dalle lunghe braccia aguzze nei
gomiti, dal collo del piede che usciva dalla balzana troppo corta della veste,
dai movimenti soldateschi non corretti da nessun'ambizione femminile, anzi
peggiorati da un'ingenita pigrizia per tutto ciò che fosse ordine e disciplina.
Molto era in lei del colonnello di cavalleria - come soleva dire la zia
Vincenzina - che avrebbe voluto vederla più corretta e più pettinata. Ma gli
occhi d'un celeste chiaro erano di una bellezza rara e parlante; la voce d'una
risonanza metallica aveva nelle parole e nel ridere degli squilli sonori di
battaglia, che indicavano uno spirito nato per dire e per fare cose non comuni,
che si rifiuta agli effetti volgari come alle regole della moda e del galateo
dei salotti, in cui le signore amano sparpagliare più di quanto possono
disporre. Ezio, abituato a bellezze più molli e più seducenti, non aveva mai
posto mente a quel non so che di insolito e di selvatico, che era nella
bellezza intellettuale di Flora; anzi ara uno de' suoi gusti, quando poteva
mettere in ridicolo gli angoli e i triangoli sporgenti di questa figura
geometrica di ragazzona selvatica, ingenua, ignorante di tutto ciò che forma la
forza della civetteria femminile, e a cui si poteva dar a intendere tutto quel
che si voleva. Certe spavalderie, che alle amiche villeggianti parevano quasi
il frutto di dottrine anarchiche, non erano in Flora che la natura stessa
tenuta incolta e innocente da una vita semplice e solitaria.
A ventidue anni, per quanto andava
intorno con un gran cappellaccio da pastore e colle scarpe di montagna e con un
passo da monello, Flora non conosceva della vita che quanto se ne può capire
attraverso ai romanzi inglesi dell'edizione Tauchnitz. Si può essere sicuri che
essa non conosceva nemmeno sè stessa: e più sicuri ancora che Ezio, più
navigato nelle acque del mondo, sapeva per quanto poteva venderla e comperarla.
Ma noi abbiam detto che il
giovinotto era in un momento di raccoglimento spirituale, in un bisogno di vita
raccolta, come gli capitava di tempo in tempo, quando la nausea e la stanchezza
della vita allegra lo spingevano verso idee di ordine e di riposo.
Il noioso conflitto con Liana, il
bisogno che aveva di romperla con questa bellezza noiosa e cretina e di
compiere definitivamente i suoi studi, gli facevano parere dolci le ore che
passava a Villa Serena e al Castelletto in tranquille occupazioni
amministrative, tra i libri e le memorie, nella lettura di vecchie riviste, che
gli portavano in ritardo una quantità di notizie e di curiosità a cui nella
furia del divertirsi non aveva tempo di fare attenzione.
Flora, creatura sana e
intelligente, rivestita di bellezza morale, ritornava in questi momenti a
prendere il suo antico posto nello spirito del giovine scapestrato, che nella
grazia spirituale e pura di lei risentiva il fascino misterioso che la virtù
esercita sempre al di sopra d'ogni altra lusinga, specialmente in chi sa e
tocca colla mano di quanta cipria e di quanto belletto sia impastata la
bellezza corrotta. Gli occhi di Flora avevano profondità marine: negli occhi di
Liana era come guardare nell'acqua scura d'uno stagno. Una risata acuta di
Flora saliva al cielo come uno scampanìo a festa; il sorriso fatuo di Liana non
usciva dai labbri dipinti. I moti della fanciulla onesta erano l'espressione
della forza sana e della volontà potente: le cascaggini flessuose di Liana non
erano che le contorsioni della debolezza. Flora era l'aquila o il falco
dell'aria; Liana e le sue pari niente di più che delle graziose lucertole.
Questi confronti tornavano, come
dico, assai spesso al giudizio del suo pensiero e per quanto egli non fosse
abituato ad approfondire la riflessione per non farla pesar troppo sul cuore,
tuttavia sentiva che la verità della vita non era che in ciò che essa può avere
di buono e di sano. Sentiva nello stesso tempo che in questa patetica
convinzione vi poteva essere una trappola e un pericolo; e si propose di stare
in guardia contro le seduzioni dei cappelli rossi.
Dopo ch'egli ebbe combattuto con
Flora una partita di scherma sul terrazzo del Castelletto, che s'era lasciato
ferire da lei, che aveva visto quel profluvio di capelli cascanti sulla sua
persona, un fascino nuovo e pericoloso lo accompagnava sempre, come se il
fantasma di Flora lo perseguitasse, come se tutto quel rosso gli fosse rimasto
troppo impresso nella retina degli occhi.
- Adagio, Biagio! - andava
raccomandando a sè stesso - qui non si scherza. Se sdruccioli nella virtù, sei
finito per sempre. Peccato che Flora non abbia dieci anni meno! fra dieci anni
io avrei potuto rifarmi in lei una soave verginità di cuore. Ma ora no; sarebbe
male e per me e per lei... Uccel di bosco, non posso ancora desiderare la
gabbia d'oro. La virtù, una volta sposata, è difficile far divorzio. Tu avrai
sempre tempo di farti eremita; basta un sospiro a creare un santo. Ma nessuno
ti potrebbe compensare della giovinezza perduta, quando ti vedessi già nonno a
cinquant'anni.
Belle massime di beato egoismo,
direte; ma per il momento egli non ne aveva di migliori. Non pensano forse così
tutti coloro che possono far qualche conto sui piaceri della vita? - Il
giudizio vien da sè in groppa al tempo senza bisogno di mandarlo a cercare come
un chirurgo. - Era anche questa una delle sue massime!
Il caso del povero Bersi che a
trent'anni si vedeva condannato al matrimonio e i cento esempi di tristezze
coniugali, che nella sua breve esperienza aveva già avuto occasione di
conoscere, bastavano a metterlo in guardia contro i falsi gorgheggi di
quell'idealismo, che attira i merli per farli poi morire nella rete dei santi
doveri, Non gli pareva di aver la barba di un padre di famiglia; quest'idea lo
faceva ridere e nello stesso tempo rabbrividire.
Con ciò Ezio non rinunciava ad
ammirare en artiste quel che vi poteva essere di bello e di ammirabile
nella galleria della virtù, cioè, per stare al caso suo, sentiva di voler bene
a Flora, di cui conosceva oltre a qualche singolare prerogativa fisica, il
prezioso valore morale, la linea aristocratica, la spontaneità, la freschezza,
il profumo d'una rosa non ancor passata in nessuna mano.
Volentieri tornava al Castelletto,
andava spesso in barca con lei: o colla scusa di farsi accompagnare in qualche
esercizio di violino, la invitava spesso a Villa Serena.
Dal giorno che gli era venuta la
buona idea di mettere un poco d'ordine nelle carte del babbo, l'aiuto
intelligente di Flora gli era stato preziosissimo. Si voleva dare un assetto
nuovo a certe sale, rimovere una libreria, preparare il materiale per una
futura pubblicazione: bisognava far passare un mare di carte vecchie, di
stampe, di lettere, di giornali: leggere, trascegliere il buono, metter via
quel che pareva meno opportuno.
Un giorno tra gli altri, mentre la
mamma era in stretta e confidenziale conversazione colla zia Vincenzina nella
sala della veranda, Ezio e Flora coll'aiuto di Moschino trascinarono nel
corridoio delle stanze superiori un vecchio e pesante baule, non ancora
esplorato, che conteneva non so quante centinaia di volumi degli atti ufficiali
del Parlamento subalpino. Che se ne doveva fare? abbruciarli era peccato: nè si
voleva ingombrar stanze e scaffali con roba fuor di stagione. Ma intanto
conveniva far passare quei grossi volumi che potevano contenere note e postille
di qualche valore, Da un'ora i due giovani lavoravano con intenso
raccoglimento, in mezzo a una nuvola di polvere, presso la finestra del
balcone, levando dalla cassa i libri, che andavano disponendo in una lunga fila
sopra la tavola accostata al muro. Lavoravano in buona armonia, come due
camerati, comunicandosi a vicenda le loro scoperte, con tanto gusto di sentirsi
vicini che non si accorsero nemmeno che il cielo s'era andato via via oscurando
e che un fosco temporale rompevasi già sopra la cresta del Grussgal.
Moschino scese a chiudere le
persiane contro i primi goccioloni che battevano sui vetri della veranda,
mentre Ezio e Flora correvano dentro e fuori per le stanze ad assicurare porte
e finestre. La casa fu presto invasa da quella oscurità, che dà ai muri e agli
oggetti una improvvisa espressione di sgomento e rende l'animo pauroso delle
proprie sensazioni. Il cielo divenne ben tosto d'un bigio cenere, intenso,
carico di vento e di tuoni: il lago, teso, d'un color di ferro pareva scosso da
impeti convulsivi, mal frenati dalla stanchezza pesante dell'acqua, su cui
roteavano i gabbiani con giri instancabili e capricciosi. La pioggia cadeva già
sulla montagna, ma veniva avanti a corsa, preceduta dal gemito spaventato delle
piante che luccicavano nel sinistro crepuscolo: ed ecco subito scendere oscura
e densa contro la casa e scrosciare con furioso impeto sul giardino che si
umiliò a riceverla avvilito.
Non era un temporale come se ne
danno tanti in agosto; e infatti si seppe poi che nelle valli aveva fatto il
diavolo, strappato alberi, diroccato muri, gonfiato in malo modo i torrenti che
menarono sassi e rovine.
Oramai non rimaneva che di chiudere
la finestra del balcone, dove l'assalto dell'uragano era più forte e per la
quale entrava già a rigagnoli l'acqua a innondare i libri. Flora che correva di
camera in camera, gridando per un selvaggio gusto, come se in quella battaglia
di elementi trovasse anche lei il suo posto di combattimento, vedendo la
pioggia invadere il corridoio, cercò di chiudere le persiane anche da questa
parte. Ma per far questo bisognò prima aprire i vetri e affrontare la furia
dell'acquazzone, che fu più forte di lei, le strappò di mano le imposte,
l'avvolse, l'accecò con un turbine così villano, che grondante acqua dai mille
capelli dovette ritirarsi e chiedere aiuto. In quell'istante la saetta, che
s'era tenuta in riserbo per il colpo finale, scoppiò sopra un ginocchio del
monte, tutta la casa traballò e un guizzo sanguigno passò nel cielo, tra gli
alberi, nel cuore della fanciulla, che si ricoverò atterrita nelle braccia di
Ezio. Egli l'accolse e la protesse, tirandola nella gabbia della scala a riparo
dal vento: l'accolse e l'avvolse nelle braccia e la tenne così un poco, fin che
gli parve di sentir battere il povero cuore spaventato. Ma il profumo che
esalava da quei molti capelli avvolse lui che ci posò la bocca e ci lasciò
cadere tre grandi baci, che scesero profondi come tre goccie di piombo caldo a
bruciare per un istante tutte le fibre vitali della fanciulla, che si abbandonò
più pesante e si dimenticò in una breve e soave inerzia.
Fu essa la prima a rompere i lacci:
e lo fece respingendolo con lenta e rigida violenza. Era pallidissima, ma
splendida di un amabile terrore. Si liberò da lui, scosse due volte quella sua
chioma leonina, e scese a corsa la prima rampa della scala. Egli si tenne
aggrappato all'inferriata. Dal pianerottolo, Flora mandò sulla punta della mano
un gran bacio a lui e scese a precipizio a cercar la mamma, che vedendola così
bagnata e scomposta, le avvolse la testa in uno de' suoi scialli di lana. La
fanciulla andava ripetendo: - O mamma, che spavento...! - e lasciandosi andare
sopra un canapè, premendo il suo cuore colle due mani, diceva a sè stessa: -
mio cuore, che dolcezza!
Ezio rimase un pezzo avanti ai
vetri della finestra su cui scorrevano le goccie come lagrime lunghe,
sbalordito, pentito, seccato, in collera con qualcuno poco lontano, cogli occhi
fissi all'uragano che si allontanava come un vincitore, ma veramente egli non
vedeva nulla. Non vedeva il raggio di luce livida, che sprigionandosi dal
nugolone nero, correva sulle creste della burrasca come un faro elettrico a
illuminare la danza dei cavalloni bianchi e verdognoli. Quel raggio di luce
solare, come se fosse mosso da una mano nascosta nel grembo della nube, si
apriva a ventaglio e scendeva a illuminare le acque più lontane che brulicavano
in un colore verdicino, si posava sulla montagna, schiariva d'un chiaror umido,
e stinto le case, le ville che parevano immerse in una grande lontananza. Ezio
non vedeva nulla, nemmeno gli uccellacci che volticavano nello spazio.
- Perchè l'aveva baciata? - Cominciava
a capire d'aver commessa una bestialità. S'era lasciato trasportare anche lui
come un gabbiano da un soffio temporalesco di passione, e ora se ne pentiva per
tutti i corollari che la testina logica di Flora ne avrebbe tirati.
- Maledetta la saetta! - brontolò,
movendo qualche passo per il corridoio, colle mani ciondoloni nelle tasche dei
calzoni, curvo nelle spalle, avvilito, pensando ai modi coi quali avrebbe
potuto purificarsi di quel grosso peccato d'irriflessione. Era la prima volta
che un bacio fuggiva dalle sue labbra senza il permesso del babbo: quasi
stentava a riconoscerlo per suo.
- Maledetta la saetta! - brontolò
tutto quel giorno in cui parve più distratto e più incontentabile del solito: e
il rimorso, misto all'amaro sapore della stizza, gli saliva alla gola e gli
riempiva la bocca ancora quando si cacciò sotto le coltri; per la prima volta
stentò a pigliar sonno: e il letto gli parve pieno di stecchi.
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