XI
Fiori e fragole.
La signora Matilde scriveva qualche
giorno dopo alla sorella: - «Mi pare che Flora cominci a essere ragionevole.
Bisognerebbe battere il ferro mentre è caldo».
Il Cresti, che ogni anno celebrava
al Pioppino una specie di festa della polenta, mandò gli inviti anche alle
signore del Castelletto coll'ordine di non mancare, Questa volta sarebbe
venuto, oltre a don Malachia, anche quel poco di buono del signor Bersi, che
era sulla strada della penitenza: forse si sarebbe firmato, al fumo della
polenta, il contratto di vendita del Ravellino, Soltanto Ezio, in tutt'altre faccende
affaccendato, sarebbe mancato quest'anno. Si sarebbe pranzato all'aperto,
all'ombra degli agrifogli fioriti, colla vista dei monti da una parte, collo
sfondo infinito del lago dall'altra, in mezzo ai fiori... Ma a dir tutto quello
che di fresco, di dolce, di leccardo, di aristocratico, il padron di casa aveva
preparato intorno alla volgare polenta di gran turco, sarebbe un far dell'arte
simbolica. La polenta era un pretesto per sfoggiare ogni anno le ricche
porcellane di casa Cresti e l'abilità non mai abbastanza riconosciuta delle due
vecchie ragazze, che da trent'anni tenevano lo scettro della cucina.
Quest'anno c'era di nuovo la
presenza di Massimo Bagliani; e la polenta guarnita dei più squisiti piaceri
dell'amicizia, condita dalle profumate speranze, che avrebbero portato dal
Castelletto, doveva avere un sapore particolare, un sapore che il vecchio e
arruffato padron di casa sentiva già correre per la bocca prima ancora che la
farina fosse gettata nel paiolo.
- Mi rincresce che questa volta non
ci sia Ezio - disse a Massimo, che stava leggendo un gran lenzuolo di giornale
inglese sotto il portichetto - ma è forse meglio per lui e per noi. Il Bersi me
ne ha raccontate di belle di questa ex cantante moglie d'un barone banchiere e
di altre vagabonde internazionali in mezzo a cui il nostro giovinotto fa una
vita di vero nichilismo morale. È stato veduto più volte in canotto in costume
di battelliere, colla maglia succinta e le braccia nude in compagnia di una
signorina russa, a cui insegna i segreti della ginnastica italiana. Gl'inglesi
ne sono orribilmente scandolezzati. In quanto al barone, giocatore nato, tira
spesso il nostro ragazzo in piccole trappole, a cui tien mano anche la
baronessa e il suonatore di clarinetto. Cose brutte, insomma, che fanno rabbia
e a cui si dovrebbe trovare un rimedio. Tu dovresti parlarne oggi a donna
Vincenzina, che una certa autorità ha sempre esercitato colla sua dolcezza sul
figliuolo: e ancor meglio sarà, se gli parlassi tu stesso da uomo di mondo, che
sa come si nasce e come si vive. Non si vuol mica pretendere che un giovinetto
bello, ricco, simpatico prenda moglie o faccia il frate a ventiquattro anni, ma
c'è modo e modo di divertirsi. Il peggio è quello che mena dritto a fracassarsi
il collo.
- Io gli parlerò... - disse
Massimo, persuaso.
- Ti lascio di sentinella e vado in
cantina a vedere che non mi confondano i classici.
Massimo rimase sotto il portichetto
con quel suo gran lenzuolo in mano in attesa degli invitati. Il pranzo, secondo
il buon uso di campagna, doveva cominciare a un'ora e già dalle sponde del lago
venivano le squille che annunciavano il mezzodì. Poco dopo comparvero in cima
al vialetto delle mortelle tre signore, prima Flora, in capelli sotto il
parasole, e donna Vincenzina per ultima con in testa un cappello rotondo di
paglia a larga tesa sovraccarico di grossi fiori violetti.
Massimo, quantunque si fosse
trovato ormai con lei tre o quattro volte e avesse avuto una lunga
conversazione sul balcone dell'albergo durante le regate, non potè vedere quel
cappello di paglia senza provare una specie di stringimento alla gola.
Del passato non s'era toccato
nulla, nemmeno una parola: il perdono era stato portato e ricevuto dalle due
parti con dignitosa benevolenza: essi avevano potuto ritrovarsi sani e salvi
dopo dodici anni come gente che è sfuggita miracolosamente al disastro d'un
lungo viaggio e che può allegramente congratularsi. Ma con tutto questo, o
forse in virtù di questo, Massimo Bagliani non sapeva sottrarsi al dolce
fascino che la memoria ringiovanita nell'immagine vivente della donna andava
esercitando sul suo cuore naturalmente tenero e di poca resistenza.
Mentre le signore risalivano
lentamente il viale, soffermandosi a considerare le novità introdotte
nell'orto, Massimo si compiacque di seguire coll'occhio e di accompagnarsi alla
bella signora di villa Serena. L'affanno e il caldo del salire avevano colorito
il suo viso, dandole un colore giovanile che faceva un poco scomparire la
povera Flora nella sua patita e battuta magrezza. Come in un golfo profondo e
chiuso, le tempeste avevano potuto qualche volta increspare le acque della sua
esistenza, ma donna Vincenzina non aveva mai perduta la serena trasparenza
delle anime semplici. Quest'anima traspariva dai grand'occhi umidi, dai
movimenti placidi, senza risoluzioni proprie, dal modo quasi infantile con cui
sapeva nascondersi alle spalle degli altri, sia che la minacciasse una grande
responsabilità, sia che sentisse abbaiare un grosso cane.
Massimo, che l'aveva amata appunto
per questo suo timido candore di fanciullona buona da pigliarsi in braccio,
credette di tornare indietro a' suoi bei tempi: ma nel muoversi, gli occhiali
cascarono dal naso e andarono tra la vecchia cassapanca e il muro. Tosto si
fece quasi buio. Ebbe appena il tempo di rimuovere il pesante cassone e di
raccattare i suoi occhi di vetro: ma nel tirarsi su e nel risospingere quel
diavolo di mobile al posto sentì scendere come tre acuti dardi al lato
sinistro... Ah pur troppo, era passato il suo bel tempo! e non c'è nulla che
paghi un amore perduto, nulla, nemmeno il piacere di ritrovarlo.
Cresti in vestito grigio sasso,
colle uose grigie sulle scarpe gialle, lindo, ripicchiato, ingioiellato coi
suoi due grossi diamanti allo sparato della camicia, con una cravatta verde
ramarro, su cui faceva sangue una grossa goccia di corallo, fu pronto a
riceverle ai piedi della scalinata. Agitando un enorme cappello alla panama,
diede il benvenuto e corse a offrire il suo braccio a donna Vincenzina. Massimo
offrì il suo a Matilde e preceduti da Flora entrarono nel luminoso salotto a
terreno, dove trovarono acqua diacciata, succo di limone, piatti di uva e di
fichi per un primo ristoro.
- Qui c'è dell'acqua, dell'uva, del
ghiaccio e sarà bene non fare complimenti.
Le signore che non venivano al
Pioppino da un pezzo trovarono tutto bello, tutto lucido e netto, come se fosse
non la casa d'un vecchio scapolo, ma quella d'una sposa nuova.
- Cresti ha delle idee - disse
Massimo, cominciando a lanciare un primo proiettile nella fortezza. Flora che
aveva scoperto un pianoforte: - Come? come? - esclamò - da quando in qua si fa
della musica al Pioppino?
- Da due o tre mesi - rispose
Cresti, perdendo un poco l'equilibrio delle gambe e arrossendo sotto la pelle
di patata abbrustolita.
- Chi suona? - dissero le signore.
- La sposa! - disse Massimo.
Flora avrebbe dovuto chiedere chi
fosse e dove fosse questa sposa misteriosa di cui si parlava tanto, ma preferì
lasciarsi bombardare.
- E come va l'inglese, Cresti? -
chiese la signorina.
- Leggo, leggo, pas mal...
- Tu confondi l'inglese col
francese - osservò l'ambasciatore, ridendo e facendo ridere le signore. - Pas
mal! che avessi per isbaglio studiata una lingua per un'altra?
Cresti, che aveva già l'animo teso
a punte di spillo sulle sue emozioni, non sapendo come uscir da quelle burle,
esclamò: - Vado a veder la polenta - e scappò.
Tornò cinque minuti dopo con due
quadretti antichi che diceva d'aver scoverti in una sagrestia di montagna,
arrivando a tempo a salvarli dalla bocca dei topi. L'uno rappretentava una
Maddalena, l'altro un sant'Antonio, due brutte croste in apparenza con qualche
sfilacciatura irrimediabile nella tela; ma le carni e le teste d'una morbidezza
non comune indicavano un pennello antico, forse un Lorenzo Lotto, anche a giudizio
dei più competenti.
Flora senz'osare un giudizio trovò
che Cresti aveva avuta la mano felice e gli raccomandò di non fidarsi troppo
dei restauratori che son peggio dei topi. Inginocchiata sul tappetino del
divano, essa andava scoprendo sempre nuovi particolari pregevoli
nell'intonazione delle tinte e lodava Cresti, che stava lì, colle due cornici
in mano, tutto contento di sentirsi lodare; tanto che Massimo gli disse: -
Guarda che faccino gustoso che fa! si direbbe che li ha dipinti lui.
- La Maddalena ha una testina
ideale - disse Flora.
- Anch'essa coi cappelli rossi...
come il famoso ritratto di donna del Rembrandt che è a Milano, come la Venere
del Tiziano, come tutte le bellezze rare... e pericolose. - Chi parlava? il
signor ambasciatore, per procura; ma Cresti beveva cogli occhi quegli elogi,
come se l'amico parlasse di lui. Per trovar un complimento non è necessario
aver studiata diplomazia, ma egli sentiva che non gli avrebbero strappata
nemmeno cogli uncini una parola un po' ragionevole. La macchina era carica di
vapore, ma le valvole eran chiuse e ribadite: se non scappava via di tanto in
tanto, c'era a temere ch'egli avesse a scoppiare.
A salvarlo e a renderlo meno
impacciato venne a tempo l'occasione di sfoggiare tutte le sue cognizioni di
orticoltore e di botanico, quando accettò di accompagnare le sue ospiti nel
giardino e nel brolo, che col nome generico di vigna circondava la casa.
L'orto, il giardino e la vigna si
mescolavano veramente bene in quel pezzo di montagna lavorata, che formava l'Eden
del solitario Adamo del Pioppino.
Qualche vecchio olivo dal tronco
rugoso e forte uscendo dalla roccia screpolata copriva coll'antichissima ombra
cespugli di aloe, aggrovigliati come serpenti. Accanto alla rosa del Bengala,
verdeggiava il nespolo del Giappone: filari di novelle viti di Borgogna
correvano lungo gli scaglioni, alternandosi a spallierati di pere invernali che
avevano rinomanza sul lago; le rive dei praticelli intermedi tra cui volgevasi
una stradina polita e pastosa erano sostenute e continuamente incorniciate da
un cordone di tufo scavato a foggia di cassette e dentro, a seconda delle
esposizioni, il bravo giardiniere vi aveva coltivato le piante più rare, le
acute spade dell'iride, i bulbi spinosi dei cacti, le felci filiformi e arborescenti,
i delicati e cascanti capelveneri, le tredescanzie pioventi, chiazze giallastre
e calde di nasturzi, sassifraghe dai fiorellini rosei, orchidee dai gambi
contorti e carnosi: e sugli angoli dei viali e nel bel mezzo del clivo macchie
di cupe sabine, o di evonimi dal verde tenace, o una magnolia dalla foglia
lucente, o un giovine abete dai bruni festoni che rigavano il fondo aperto
dell'aria.
Nei luoghi meno in vista, dietro
gli svolti dei cigli, il giardino nascondeva l'orto; le rose tée dai flessuosi gambi
coprivano il fiorellino vile del fagiuolo e della patata, al viridario dei
fiori tropicali si appoggiavano gli sterrati degli asparagi e dalla cicoria.
Mai l'utile s'era così bene
mescolato al bello come in questa vigna del Signore, come soleva indicarla don
Malachia, che con tutte le benedizioni di cui poteva disporre non aveva mai
potuto salvare quattro rose dalla ruggine e un gambo di vite dalla crittogama
in quel suo freddo orticello del Santuario.
Cresti era nel suo migliore elemento
quando poteva parlare sui propri esemplari, delle forze benefiche della terra e
del sole, la mamma e il babbo della vita. Dove trovare un meccanismo più bello
e più sorprendente di questo che ti trasforma pochi nitrati in pane, in vino,
in rose, in datteri, in zucchero, in medicine che salvano, in veleni che
uccidono? E di questi prodotti arricchiamo, noi animali, i nostri tessuti, i
fosfati delle nostre ossa, i globuli del nostro sangue, per cui la vita scorre
calda e vigorosa nelle vene; e quando si muore, lasciamo alla terra in pio
compenso della vita che ci ha dato la spoglia azotata che deve rinnovare altre
vite, dar volo e canto ad altri animali.
Nè i miracoli della natura si
arrestano qui. Eccovi del grano da cui io saprò cavar dell'amido: eccovi un
papavero che vi stillerà la morfina, il riposo: eccovi la cicuta, la morte
istantanea, in poche stille. La vita si mescola colla morte, o con quella che a
noi sembra morte e che in fondo non è che una vita più ignota. In questa lenta
e fatale circolazione di atomi nessuna energia si perde, cosicchè al
ricominciare del ciclo sono in giuoco le stesse quantità di forze che erano in
giuoco all'inizio; l'animale, dopo aver mangiato una certa quantità d'alimento
vegetale non ha che da aspettare: dopo un certo tempo le sue materie stesse di
rifiuto gli verranno ripresentate sotto forma di materie organiche nuove...
Cresti parlava con viva eloquenza,
non nascondendo quel senso di materialismo filosofico che formava il fondo
roccioso del suo carattere poco verde e fiorito al di sopra. - Cresti vuol dire
- osservò Massimo - che un giorno o l'altro dovremo ritornare anche noi sotto
forma di cavoli.
- Perchè no? io credo di essere
stato già mangiato una volta da una capra...
- Speriamo invece di rifiorire in
queste belle rose - osservò donna Vincenzina, mentre se ne metteva nei capelli
una stupenda che il Cresti tolse da un cespuglio.
La signora Matilde chiese di poter
ritornare, mentre Flora, la zia e Massimo, seguendo i passetti e i minuetti
disuguali del loro ospite, discendevano verso una spianata divisa in molti
quadratelli di terra coltivata a fragole straordinarie per quella stagione. Tra
gli alberelli si vedevano rosseggiare grosse e appetitose.
- Questo è il mio pascolo - disse
Flora - correndo avanti per un piccolo sentiero marginale, mentre donna
Vincenzina e Massimo spaventati da quel diavolo di sole, che coceva il sasso,
si fermavano all'ombra d'un vecchio pero.
- Venga di qua, Flora - cominciò a
dire il povero ortolano, quando si trovò solo colla fanciulla nel riparto
segregato delle fragole.
- Queste son più buone. Guardi: non
sono fragole, ma bombe... - E siccome bisognava coglier l'occasione col suo
gambo: - -Provi - le disse - supponga di assaggiare il mio cuore.
Era un primo passo verso quella
grande dichiarazione, che da un anno a questa parte non aveva ancora trovata la
sua formola.
- Buonissima, squisitissima... -
disse Flora colle labbra ancor dolci di quel rosolio.
- Che cosa? la fragola o il cuore?
La grammatica qui non andava forse
molto d'accordo col pensiero; ma bisognava pure ch'egli cercasse di non lasciar
morire un discorso che, se fosse caduto anche questa volta, non avrebbe forse
saputo raccogliere in mille secoli.
- Che il suo cuore sia buono, caro
Cresti, è un pezzo che lo so, e anche pochi giorni fa ne ho avuta la prova,
quando la mamma mi disse che il Castelletto non è più dei Bagliani.
- La mamma ha fatto male a parlare.
- Oh perchè non vuol che si sappia
che ci vuol bene?
- Perchè non voglio? che cosa non
voglio? lei sa bene, cara Flora, che cosa sogno nella mia selvatica modestia...
- e nel dir questo le sue mani tremavano nelle foglie.
Flora ch'era venuta al Pioppino col
sereno proposito di mettere alla prova il suo cuore e di essere sincera anche
con se stessa, dopo un istante di riflessione, rispose colla sua voce ferma e
naturale: - Vorrei poter pagare in qualche modo questo debito di gratitudine,
non perchè mi pesi d'essere sua debitrice, Cresti: anzi mi piace questo
sentimento che mi obbliga a riconoscere la mia povertà e il mio nulla.
- Se lei è nulla, cara Flora -
interruppe con un'argomentazione arruffata il povero innamorato - che cosa sono
io che in suo paragone sono meno di nulla?
- No, Cresti, abbia pazienza -
replicò Flora con una specie di severa benevolenza - ognuno ha nel mondo il suo
valor assoluto e il suo valor relativo; meglio è darsi per quel che si vale.
Lei sa che io sono una ragazza superba come Lucifero.
- Lucifero era un angelo.
- Ma la superbia l'ha perduto.
- Quando si conoscono i propri
peccati, si è già sulla buona via per convenirsi.
- Ma ci vuol la grazia, Cresti.
- Se sapessi che a fare un
pellegrinaggio alla Madonna del Soccorso ottenessi un miracolo, ci andrei a
piedi nudi. Che mi consiglia di fare?
- La fede muove le montagne - disse
tranquillamente la signorina del Castelletto, che non voleva nè ingannare nè
ingannarsi.
- E allora speriamo che la fede
aiuti la speranza a compiere un atto di carità... - concluse con una complicata
perorazione il buon Cresti, cercando la mano della fanciulla che non osò
rifiutarla. Tra lui e Flora stendevasi ancora una nuvoletta, ma non era più la
nuvola di prima. Il vento vi aveva fatto molti strappi, attraverso i quali
pareva al nostro amico di veder come tanti pezzi di paradiso. Ma non si poteva,
nè si doveva concludere un sì delicato affare, lì, tra le fragole, sotto quel
sole che coceva la testa.
Rimasero intesi che tutti e due
avrebbero fatto un pellegrinaggio alla Madonna del Soccorso, anche colle scarpe
e senza corda al collo: poi si sarebbero trovati a comunicarsi sinceramente la
loro ispirazione.
Lentamente, facendo colle fragole
mazzetti, vennero verso il luogo dove Massimo e donna Vincenzina stavano seduti
all'ombra del vecchio pero. Non avendo nulla a dirsi o per evitare di entrare in
discorsi pericolosi, i due antichi fidanzati erano intenti a contar certe vele
bianche che spinte dal buon vento di mezzodì uscivano una dopo l'altra dalla
punta di Bellagio, di ritorno da Lecco, dirette verso Colico. Ne avevano già
contate due, tre... quattro... pronunciando i numeri a voce alta, all'unissono,
mentre il signor ambasciatore, posata la mano sulla manina morbida e grassoccia
di donna Vincenzina, la teneva così prigioniera sull'erba fresca.
- Cinque! - esclamarono insieme,
quando Flora si presentò col mazzetto delle fragole.
- O belle! come si chiama questa
qualità? - chiese la zia, arrossendo anche lei come una fragola.
- Finora non hanno un nome
speciale: è un mio prodotto - disse Cresti. - Glielo faremo dare a Flora il
nome.
- Quando saranno più mature - fu
pronta a soggiungere la briccona con un sorriso di amabile compiacenza, che non
dispiacque all'ortolano del Pioppino.
*
* *
«Tutto mi persuade a credere che
questa sarebbe la mia pace - scriveva Flora qualche giorno dopo a Elisa D'Avanzo,
che aveva le confidenze del suo cuore - e tu mi dici sempre che alla felicità
non si va che per la via della pace. Sento anch'io che gli anni passano senza
frutto, l'uno più vecchio dell'altro e mi fa paura l'idea ch'io abbia a
trovarmi un giorno nell'incapacità di provvedere a mia madre, e alla mia
dignità. L'amico che tu conosci è buono, ricco di cuore, d'una devozione a
tutta prova, d'una virtù molto superiore al mio orgoglio: e se io mi guardo
nello specchio, non ho alcun motivo per aspettare le prince charmant...
«Ma con tutto questo, stento a
rinunciare al mio sogno, non mi pare che ancora sia morta tutta la mia
speranza. Spesso mi assale il dubbio che una vita materialmente solida e felice
non valga il piacere di un sogno che esca dalle misteriose profondità
dell'anima nostra; e per poco che mi abbandoni ai ricordi, sto per dire che
tutto ciò che di più tenero e bello ho goduto negli anni della mia giovinezza
fu più sognato che vissuto. Chi sa? forse soltanto il sogno è vero: forse è
tutto quanto rimarrà di noi anche quando dormiremo all'ombra dell'erba nostra.
Il mondo si trasforma a piacer nostro attraverso ai colori del nostro pensiero
e per quanto l'inverno nevichi ed imperversi di fuori, chi mi vieta d'avere in
me stessa una primavera sempre verde? Ma non bisogna rompere questi soavi
incanti con risoluzioni che una volta prese ti immobilizzano nella realtà.
«Molto male mi dicono di lui:
molto male ne penso io stessa: ormai non c'è dubbio che l'ultima speranza è
perduta e sciupata; che siamo giunti al bivio - io e lui - da dove ogni
passo non può che allontanarci di più. Io scenderò nell'umida valle della mia
desolata vecchiezza, mentre lui seguiterà a salire il monte della vita
militante e trionfante; ma fin che resto libera potrò sempre guardare a lui
anche da lontano. Egli non mi ama, nè potrà, nè vorrà amarmi mai: ma a me basta
d'amare....
«Oh Dio, quasi sto per dire che mi
basta d'averlo amato. Nè lui nè altri potranno togliermi questo bene che
è tutto mio, che può essere il dolce viatico di tutti i miei giorni: e troppo
stimo e amo me stessa per rassegnarmi a sostituire un'insipida menzogna al mio
dolcissimo sogno. Ecco perchè esito a dir di sì al buon Cresti, per quanto le
vostre ragioni siano tutte belle e persuasive....
«Ma intanto soffro in due maniere:
e per quel che mi hanno fatto e per quel che non so fare. Qualche volta mi pare
che la fede vacilli e provo oscuri sgomenti come chi si trovasse perduto sopra
altissime creste, dove è tanto pericoloso il muoversi come il rimanere. Procuro
di attaccarmi più che posso agli arbusti della vita e di leggere nelle
coscienze di quest'umile gente che lavora e prega, il segreto della pace. Sono
stata alle Regate, ho accettato un invito al Pioppino, e domani mi lascierò
condurre da Regina all'alpe di Giosuè, dove si accenderanno i falò per la festa
della Madonna. Quanto ti desidero, qui, mia cara Elisa! come sapresti
consigliarmi e consolarmi colle parole che escono dall'esperienza di una vita
così ricca e così cauta come la tua! Qui non ho nessuno con cui discorrere e
dissipare, queste tristezze. La mamma, poverina, non vede che un bene e verso
questo bene mi sospinge senza che io me ne accorga. Regina è spirito troppo
semplice per intendere un problema complicato, fatto metà di immaginazione e
metà di disperazione: nè la zia Vincenzina è donna da saper sostenere il mio
coraggio, quando io lo perdessi del tutto, come dubito di perderlo in certi
istanti di oscura malinconia, un'oscurità in cui mi par di vedere balenare dei
pensieri rossastri....
«Sento che attraverso un momento
pericoloso della mia vita, una specie di «passo del lupo» che ti fece così
paura l'anno scorso, quando andammo lassù verso il Resegone. Sotto mugge un
torrente che precipita in un baratro e devi passare sopra una vecchia trave mal
ferma. Queste montanare si fanno il segno della croce e passan leste a occhi
chiusi cariche le spalle di una gerla di fieno: noi cariche di troppi pensieri
squilibrati, nè sappiamo chiudere gli occhi, nè osiamo credere al segno della
croce.... E intanto l'abisso è lì che ci affascina e ci attira.»
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