XIII.
Convalescenza.
Seguirono alle emozioni di quella notte
giorni di febbre cocente e di delirio, che tennero in pena l'animo del dottore,
il quale non sapeva a che cosa pensare, se a una febbre infettiva di carattere
maligno o a una congestione cerebrale: e invece, quando nessuno se lo
aspettava, il male si dissipò da sè, lasciando indietro una grave prostrazione
di forze e una straordinaria tranquillità morale inesplicabile in quel
carattere rivoluzionario.
Era discesa dai monti colla febbre
in corpo e si pensò che la fatica del viaggio, il sole preso nel ritorno, il
latte della zia Maddalena e la quantità d'acqua trangugiata per spegnere
l'arsura avessero prodotto questo male: e Flora lasciò che credessero al sole,
all'acqua, al latte della zia Maddalena. Essa vedeva bene da dove era venuta la
sua febbre.
Tuttavia nella debolezza grande in
cui era caduta le pareva di trovare in fondo a' suoi mali una pace nuova, non
priva di qualche conforto, come se la febbre avesse abbruciata anche l'idea
maligna che l'aveva fatta soffrire. Non era stato male ch'ella avesse potuto
vedere co' suoi occhi la verità: e non era male che la sua vita si costituisse
nella verità.
Mentre il dottore parlava alla
mamma di crisi, di flogosi del sangue, di sovraeccitazione nervosa, di macchie
epatiche, essa compiacevasi d'aver finito di soffrire. Strappata l'ultima
illusione, non aveva che da aspettare che la ferita si rimarginasse da sè. Per
chi l'aveva fatta soffrir tanto e inutilmente non rimaneva in lei più che una
immensa compassione: a quella donna non osava nemmen discendere col pensiero.
La figlia del colonello Polony, la contessina del Castelletto, la nipotina
della donna, che aveva con un colpo di pugnale vendicata un'ingiuria, s'era
avvilita fin troppo a credere che la sua felicità potesse essere contrastata da
questi volgari intrugli di amori melodrammatici celebrati al raggio di luna. La
nausea è un male che libera spesso da altri mali.
Ad avviarla e a guidarla su questa
buona strada di pensieri modesti e ragionevoli giovò non poco la parola dolce e
misurata di Elisa D'Avanzo, la buona amica che al primo telegramma della
signora Matilde era corsa a sedersi accanto al letto della malata. Con Flora
s'erano conosciute durante le vacanze, che Elisa D'Avanzo veniva a passare
tutti gli anni sul lago: e quantunque questa fosse di parecchi anni più innanzi
e d'indole grave, quasi austera, Flora aveva trovato in lei un'interprete
intelligente che l'aiutava mirabilmente a comprendere sè stessa. L'amicizia non
è in fondo che la fortuna di trovare in altri la parte che ci manca. In questa
funzione integrale Elisa D'Avanzo rappresentava per Flora Polony quella virtù
riflessiva, che non abbondava nell'indole della più giovane, troppo facile a
credere agli impeti del cuore. Poco era il tempo che le due amiche vivevano
insieme, perchè le condizioni ristrette e l'ufficio d'insegnante non
permettevano alla D'Avanzo che un breve soggiorno sul lago tra il settembre e
l'ottobre; ma la buona relazione continuava nelle copiose lettere che Flora
mandava a Torino tutto l'anno, specialmente nelle lunghe e vuote giornate
d'inverno, in cui pare che ogni vita morale si ritiri dalla campagna per
rifugiarsi nei grandi centri. Erano lunghe confessioni, sfoghi innocenti,
confidenze illimitate, nelle quali Flora amava mettere a nudo il suo cuore per
il piacere di contemplarlo; erano sunti di letture fatte, consigli chiesti,
pensieri trascritti dai libri, pagine intere della sua vita e di sensazioni che
nascevano spesso e morivano sul foglio stesso che le raccoglieva.
Elisa D'Avanzo era a parte di quel
segreto che la fanciulla non aveva mai osato confessare molto apertamente
nemmeno a se stessa; nè si era maravigliata che un'illusione fondata
sull'egoismo altrui dovesse cadere un giorno o l'altro come una baracca mal
costruita nella sabbia. Essa era venuta subito, anticipando il suo arrivo, a
raccogliere le rovine di questa illusione e ora sforzavasi di costruire con
quel che si poteva salvare un edificio più modesto, ma più solido per il bene
della povera Flora.
Elisa D'Avanzo aveva sofferto la
parte sua nella vita, perchè potesse parlare con qualche autorità: ma più che i
dolori conosceva della vita quelle spinose necessità e quei nudi bisogni, che
sdegnano la pietà e che vivono giornalmente della nostra carne viva.
Da quasi vent'anni era insegnante
nelle scuole comunali di Torino, costretta a mantenere una povera sorella scema
che non aveva altro aiuto. Per quanto esaurita dal lavoro, conservava ancora al
di sotto del logoramento fisico della persona magra e leggera, i tratti di una
sana e delicata bellezza, vivificata dalla luce di due grandi occhi pieni di
pensieri e sempre attenti alle cose buone. Vestita quasi sempre di nero o con
pochi ornamenti vedovili, essa portava da dieci anni il lutto all'unico amore
della sua vita, perchè si considerava veramente la vedova dell'uomo che l'aveva
amata, che aveva promesso di sposarla e che a ventisei anni era morto vittima
di una infezione cadaverica sul punto in cui stava per ottenere una cattedra di
fisiologia all'università.
Colla morte di Annibale Perrone la
scienza ebbe a rimpiangere una forte speranza spenta troppo presto per l'onore
della patria. Amici, colleghi, discepoli, corpi scientifici, riviste italiane e
straniere ripeterono per un anno l'elogi che segue ai valorosi e benemeriti
cittadini; un busto di marmo fu innalzato nel cimitero dov'è sepolto... ma ad
altre cose ebbe poi a pensare il mondo. Altri uomini, altri studi, altri
maestri, altri ideali sorsero a far dimenticare l'opera di un trapassato, come
l'erba cresce sull'erba segata dalla falce del villano; ma dopo dieci anni la
donna era ancor viva al suo dolore. Il mondo si rinnova e dimentica: la donna
che ha amato bene una volta, vive e muore nel suo amore. Crollano le lapidi e i
monumenti attaccati ai muri: ma una memoria che sia sepolta nel cuore di una donna
è un albero sempre verde che mette ogni anno una radice di più. Così Annibale
Perrone, che nessuno ricordava più, continuava a vivere delle luminose speranze
della giovinezza nel modesto cuore d'una povera maestra elementare, che
all'educazione dei figli del popolo dava tutto quel che non era morto in lei,
in compenso della pace che il lavoro le aveva procurato.
Per Flora fu una vera medicina la
compagnia della cara amica, che, senza bisogno di interrogarla, seppe
rispondere con carità e con prudenza ai gemiti di quel povero cuore lacerato.
- No, no - le andava dicendo Elisa,
nei momenti in cui vedeva la malata più disposta ad ascoltarla - tu non puoi
sacrificare il tuo avvenire, i tuoi pensieri, i tuoi doveri al culto di un uomo
che non ti ama e che non puoi stimare. Se egli ha potuto suscitare in te
un'illusione, non fu che un raffinamento del suo egoismo, perchè volle cogliere
in te un fiorellino modesto dal profumo delicato e ornarsene per un'ora
l'occhiello; ma non tardò a farti capire che si è subito pentito di quest'atto
d'imprudente poesia. Per tutto l'oro del mondo egli non sacrificherebbe un
giorno della sua libertà e un solo dei suoi capricci alla perpetua felicità di
una donna che lo vuole tutto per sè. Il nostro modo di amare, cara Flora, non è
tutto piacevole perchè coll'amor nostro noi diamo tutte noi stesse e per
sempre. Ma questi signori più che la donna amano le donne: o almeno non ci
considerano se non come carte che servono a fare il giuoco e che si cambiano ad
ogni partita. Tu, nell'ingenuità tua, non potevi immaginare che il mondo fosse
così; ma è forse bene che il caso t'abbia aperti gli occhi. Ogni tua violenza
farebbe peggio. Più si sente incalzato da te, più ti si ribella e provocherà le
occasioni per dimostrarti che non intende sacrificarti nulla, nè un
risentimento, nè una vendetta, nè una seduzione. Più cattivo lo renderesti quel
giorno che tu ti presentassi come creditrice. Nulla è più odioso quanto un
creditore che non si può pagare. Sicchè per il tuo meglio, se proprio ti pare di
avergli voluto bene e se ti duole di sciupar del tutto una immagine che ti fu
cara, credo che ti convenga rinunciare tranquillamente a lui, e riprendere
invece quei modesti doveri che tu hai verso tua madre e verso te stessa. Vedi
me. Quando ho dovuto per forza rinunciare alla felicità, mi son rifugiata ne'
miei doveri, come mi sarei rifugiata in una chiesa per salvarmi da un
acquazzone, E così il mio sacrificio invece di restare morta radice nel suo
egoismo, fruttò a me e agli altri, se non una felicità migliore, certamente un
riposo non inutile e qualche beneficio.
Flora ascoltava attentamente e
ringraziava cogli occhi teneri l'amica del bene che le faceva colle sue parole.
Un'altra volta il discorso cadde
sulle grandi obbligazioni che sua madre aveva verso il signor Cresti del
Pioppino e sull'avvenire incerto che avrebbero incontrato tutt'e due, se per
non voler più aumentare queste obbigazioni, Flora avesse persuasa sua madre a
lasciare il Castelletto e a seguirla in una grande città in cerca di lavoro e
di pane. Anche su questo punto Elisa D'Avanzo aveva le idee chiare e positive
di chi ha vissuta la sua esperienza.
- Vivere in una grande città oggi è
un negozio arduo e faticoso per chi vi è nato, per chi vi ha parenti, amici,
clientela, avviamento naturale; ma a chi arriva nuovo la grande città si apre
come un deserto inesplorato; la piccola come un sepolcro. Tu vai in città a
chiedere il tuo pezzo di pane; ma nessuno ha mai pensato che tu avessi diritto
di averne: anzi molti si meraviglieranno che tu possa osar tanto e venir da
lontano apposta per portar via un poco di quel pane che basta appena a chi c'è:
molti se ne sgomentano; molti stringono i pugni e digrignano i denti.
Vincere colla forza la concorrenza
di chi aspira al tuo medesimo pezzo di pane non sempre si riesce: perchè più
abile della forza è l'astuzia: e di tutte più ancora la malignità. Onde i buoni
in questa gara son già vinti prima di entrare. Ma date pure eguali condizioni,
il vincere non riesce facile nemmeno a chi fin da fanciullo si preparò l'animo
alla lotta e per tutti gli anni della sua giovinezza non fece che addestrarsi
nell'esercizio di questa lotta, rompere, per dir così, la volontà a tutte le
ripugnanze, fortificarsi contro gli assalti dei più cupi avvilimenti. Ma chi
non ha mai lavorato o imparò l'arte sua solamente come un diletto della vita,
se anche l'ingegno l'assiste, non può essere sicuro di non smarrirsi, di non
stancarsi, di non avvilirsi, di non trasformare il suo stesso lavoro in un
acuto strumento di tortura e di cader vittima della sua stessa energia.
- E allora - diceva la buona amica
- che sarebbe di tua madre?
- La povertà è cosa assai triste -
soggiungeva malinconicamente col tono di chi sa quel che significa contrastare
giornalmente colla sorte avara e cogli intrattabili bisogni. - La povertà è
cosa triste per tutti, anche per chi vi è nato in mezzo e non conosce altra
sorte; ma per una fanciulla bella e gentile, che non voglia rinunciare al suo
prezioso orgoglio, l'essere povera è una condizione insopportabile.
La gente fa ai poveri una colpa
persino di quella stessa dignità che nei ricchi è stimata come un pregio del
carattere; e io ho sentito accusare di alterigia certe povere donne, che
preferivano una goccia del loro magro caffè fatto in casa, alla grassa abbondanza
d'una minestra offerta per nulla da una cucina economica. Il povero ha sempre
torto d'essere povero e di offendere col suo spettacolo gli occhi beati di chi
lo vede; ha torto di essere seccante, quando chiede, e arrischia di offendere
il beato egoismo della gente felice anche quando si ostina a non chiedere. Al
povero è difficile perfin d'esprimere la sua riconoscenza, o perchè dice troppo
o perchè dice troppo poco; ma più per la ragione che il ben ricevere non è più
facile che il ben dare.
Chi poi può paragonare la povertà
sopravvenuta a una perduta agiatezza ed è nella condizione dolorosa di dover
continuamente paragonare quel che è a quel che era, quel che aveva prima a quel
che non ha più, condanna sè stesso ad un supplizio, che è paragonabile soltanto
allo strazio che farebbero due cavalli che tirassero un misero corpo in due
versi opposti: tra le memorie e i disinganni, tra il passato e il presente Io
strazio rompe la vita.
Ora tu hai qui sull'uscio -
conchiudeva la giudiziosa amica - chi ti offre amore, amor vero, non fiamma di
paglia, tranquillità d'animo, ricchezza con decoro: è un uomo schietto che tu
non potrai non amare, quando potrai più da vicino conoscere il suo cuore e
misurare il valore della sua virtù nascosta. Non è il biondo cavaliere della
leggenda che passa nei sogni della giovinetta bionda: ma tu non sei romantica e
sai quel che valgono i cavalieri di ventura.
L'uomo che io ho amato più di mio
padre e più di mia madre non era bello: nè mai mi son chiesta s'egli lo fosse o
se era un male che non lo fosse. Era il dottor Perrone che aveva guarita mia
madre, era il bravo professore, amato da' suoi allievi, era la gloria della
scienza e bastò perchè a me paresse più bello d'un dio. Sento che l'amerei
dell'istesso amore anche se egli mi comparisse davanti coi capelli bianchi, già
vecchio cadente. Consacrarsi al valore di un uomo è qualche cosa di più
attraente che non amarlo per la sua gioventù e per la sua bellezza. Perciò ti
ripeto che tu fai male a non incoraggiare il signor Cresti. Sarebbe per te il
miglior modo per guarire del tutto da una febbre non buona, che non vien tutta
dal cuore... -
Flora arrossì: gli occhi le si
riempirono di lagrime di pentimento. - Forse, sì, forse avete ragione; io devo
però meritarmi quest'amore e fargli un posto degno nel mio cuore. Avete
ragione, non vi può esser nulla di buono in questa febbre d'odio e di gelosia
che consuma la parte migliore di me. Dite intanto al buon Cresti che venga a
trovarmi. -
*
* *
Quando il solitario del Pioppino, incoraggiato
da tutte le patti, scese al Castelletto a far visita all'illustre inferma si
consolò tutto nel vedersi accolto con un sorriso di tenera bontà.
La malata ancor ravvolta negli
scialli, con in testa una delle cuffiette della mamma, che faceva brillare i
riccioli dei capelli sull'orlo della fronte, coi colori attenuati della
convalescenza, stava nel seggiolone di mamà, nel vano della finestra, dove il
sole batteva, mettendo nel salotto un lieto e giallognolo tepore.
La mamma era in cucina a preparare
la seconda minestra della convalescenza, in cui era stato concesso di lasciar
cadere un fegatino di pollo: Elisa era uscita per la sua solita passeggiata
mattutina, che doveva riattivare un appetito da lunghi mesi inerte: Flora nel
vano della finestra, fissi gli occhi a due nuvolette vaganti nel cielo come
fiocchi di lana, si abbandonava con un molle piacer fisico alla sua dolce
stanchezza, appoggiando la testa al dorso della poltrona, correndo dietro col
pensiero ai rumori che venivano dal villaggio e allo sciacquìo dell'onda che
gorgogliava ai piedi della casa: voci e suoni che si mescolavano a visioni e a
memorie di cose lontane, cadute da un pezzo in dimenticanza.
La mente fatta più docile e meno
impedita dal vigore della resistenza fisica si abbandonava con più indulgenza a
ripensare le cose passate e a considerare con un senso di maggior benevolenza
il destino della vita. Il bene, andava persuadendosi, è nella moderazione dei
desideri e non si riposa mai così bene come nella propria bontà. E come il suo
corpo godeva del tepore del sole e l'appetito invocava come un gran bene la
piccola scodella di minestra, silmilmente nella sua convalescenza morale essa
augurava al suo spirito la guarigione che fa godere d'ogni minimo bene, e
quella sana volontà naturale che dà sapore ad ogni modesta fortuna.
Era così assorta, in contemplazione
d'un farfallone che, svolazzando, urtava nel vetro, ostinato anche lui contro
l'impossibile, quando Beniamino Cresti entrò.
- E così, Flora? va bene, sento....
Flora, che non l'aveva sentito
entrare, piegò la testa e vide il signoretto del Pioppino con un enorme mazzo
di rose gialle in mano, le più belle rose di quella qualità che fossero sul
lago.
- O Cresti, buon dì. Grazie, sto
bene davvero. Son per me queste rose?
- S'intende: le ho colte apposta.
- Come si chiamano?
- Rose rêve d'or....
- Come son belle! me le lasci veder
bene.
Cresti lasciò cadere il grosso
mazzo sciolto in grembo alla fanciulla, che rispose con un piccolo grido di
gioia.
- Hanno un profumo inebriante: o è forse
la mia debolezza che me lo fa sentire?
- Il profumo è l'anima dei fiori -
sentenziò l'amico, che da qualche tempo andava spigolando in un florilegio di
bei pensieri; e per far la sentenza più rotonda e più significante, chinandosi
sulla fanciulla, che pareva sprofondata nel seggiolone della mamma, soggiunse:
- E il sorriso è il profumo dell'anima.
- Ma ci son dei profumi acri che
fan pensare più alle spine che non ai fiori.
- Dunque, proprio bene? sentiamo un
pò.... - Cresti le prese il polso, trasse l'orologio d'oro e misurò le
pulsazioni sul tic tic dei minuti secondi» - Polsetto un pò debole ancora, ma
regolare: segno che il cuore è in ordine.
- Domani potrò uscire in giardino.
Ma sieda, Cresti.
- Ho premura - si scusò egli - son
venuto soltanto per far la mia visita medica e anche per chiedere un consiglio.
- A me?
- Sì, un consiglio d'arte.
Cresti che pareva già sulle spine,
fatto un mezzo giro intorno alla tavola, tornò presso la poltrona,
trascinandosi dietro una sedia; ma si accontentò di appoggiarvisi colle
braccia.
- Sa che ho comperato il
Ravellino.... - riprese in tono semplice, fissando lo sguardo al di là dei
vetri verso la riva, dove si poteva scorgere la piccola villa.
- È affare fatto? benissimo.
- Bersi mi stava alle costole e io
ho detto: Cosa fatta capo ha.
- Ha fatto bene - disse lentamente
Flora, portando alla bocca una rosa, su cui tenne fisse le labbra.
- Per me ne ho fin troppo del mio
vecchio Pioppino, ma capisco che non a tutti possa piacere un luogo così solitario,
lontano dal lago, ficcato in una crepa di montagna. Al Ravellino avremo la
nostra barchetta...
Cresti si arrestò, sentendo che
parlava in plurale; socchiuse un poco gli occhi e aspettò che altri finisse un
discorso che non osava andar avanti da sè.
- Avremo la nostra barchetta... ma
il Ravellino è in un disordine orribile. Bisognerà che ci spenda molto denaro
per ripulirlo e per togliere tutto quel che c'è di barocco e cattivo gusto.
Avrò quindi bisogno di molti consigli.
- Verremo a vedere, consiglieremo...
- disse lentamente, con dolcezza, Flora, secondando con benevolenza il pensiero
del suo buon amico, mentre coll'orlo delle labbra andava mordendo e sfogliando
la bella rosa.
Cresti si appoggiò allo schienale,
distese un braccio sulla sponda della poltrona e con una intonazione in cui
tremolava il suo povero cuore riconoscente, soggiunse:
- Sicuro, vorrei far restaurare una
bella camera grande in stile del Rinascimento con un bel soffitto a rosoni
dipinti: e poi anche il giardino ha bisogno di mille adattamenti. Quel Bersi
era un ostrogoto... Un artista ha posto di guazzare fin che vuole: e io faccio
conto sul buon gusto degli amici.
- Grazie. Metteremo fuori tutta la
nostra dottrina artistica.
- E poi c'è ancora una cosa... -
soggiunse l'amico, che tirava lentamente il pensiero come se temesse che,
rompendosi il filo, l'animo dovesse precipitare in un pozzo. - Ravellino è un
nome che non dice nulla; troppe baldorie vi hanno fatto in questi anni quei
famosi scapestrati: e quando sia lavato e purificato, bisognerà battezzarlo con
un nome un po' poetico.
- È giusto - disse Flora.
- Ho scritto qui alcuni nomi -
riprese, mentre levava con mano tremante dal portafogli un cartoncino; e
balbettando per l'estrema commozione: - Cioè... veramente ne ho scritto uno
solo; anzi o sarà questo o non sarà nulla. Ma non posso scriverlo sul.. sul
frontispizio, se prima non ho la debita autorizzazione.
- Dalla prefettura? - chiese
ridendo dietro il fascio di rose la contessina.
- Eh... già... forse anche dalla
prefettura, ma prima ancora ci vuole un'altra autorizzazione. Ecco: io le
lascio questo cartoncino in una busta, Flora. Non dica nulla a nessuno, ma ci
pensi e mi sappia dire schiettamente il suo parere... No, non lo guardi adesso.
Flora aveva già letto sul cartoncino:
Villa Flora.
- Lei non mi deve dare la risposta
nè oggi, nè domani, nè dopo: potrà anche non darmela mai e non cesseremo per
questo d'essere buoni amici.
Egli aveva ripreso la piccola mano
della signorina e se la teneva stretta nelle,sue. Flora sentì gli occhi
intenerirsi davanti a questa devozione così pietosa, così tenera, così umile e
prima di ritirare la mano strinse quella del vecchio amico con un lungo indugio
di benevolenza.
- Scriveremo... - balbettò essa,
guardandolo cogli occhi molli.
Il pover'uomo, che non si aspettava
tanto, fu per piegare un ginocchio in terra. Si limitò ad appoggiare la testa
al dorsale del seggiolone fino a toccare coll'orlo delle labbra i nastrali
della cuffietta. Ma parendogli che la casa si rovesciasse col tetto nel lago,
fuggì senza manco dire addio. Nel corridoio s'incontrò nella signora Matilde
che veniva colla minestrina in mano. Le fece alcuni segni colle mani, senza
riuscire a farsi capire; finalmente la baciò in fronte e scappò via. Sulla
porta di strada dette proprio nella signorina d'Avanzo, che tornava dalla
passeggiata: fece anche a a lei alcuni segni, baciò anche lei in fronte e corse
verso il Pioppino nella speranza d'incontrare a mezza via il suo caro Massimo.
Una grande beatitudine istupidiva il suo cuore e non capiva perchè egli
seguitasse a tenere alla bocca la mano chiusa come se stringesse una moneta
preziosa. Su quella mano ancor calda della muta promessa non cessava
dall'imprimere baci.
E intanto non restava dal fuggire,
come se la sua felicità gonfia di vento lo portasse in aria. Camminò un bel
pezzo verso la strada lacuale; passò oltre, senza vederla, la strada del
Pioppino: si arrampicò per un viottolo, che metteva in un altro, scese per la
strada d'un torrente, saltò rive e scarpe di campi e di vigne, sempre
stringendo in mano il suo prezioso pensiero, e non si arrestò, se non quando la
schiena del monte gli si rizzò erta e minacciosa davanti. Sentendosi stracco,
affannato, colle ossa dislogate, si lasciò cadere sopra uno strato d'erba ancor
molle di rugiada e lasciò che le lacrime non mai sparse durante la sua vita
colassero tutte in una volta.
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