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Emilio De Marchi
Col fuoco non si scherza

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  • PARTE PRIMA.
    • XVI.   Il duello
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XVI.

 

Il duello.

 

Il temporale rumoreggiava da una mezz'ora nelle alte valli, quando, cessato un poco il vento che faceva stridere le frasche, cominciò a cadere nella chiusa oscurità della notte un'acqua torbida e grossa, che riempì ben presto i solchi, i viottoli, le incavature del monte e prese a correre e a inondare le strade più basse. Ogni qual tratto un lampo vermiglio s'accendeva nelle lontane regioni del cielo e faceva passare un guizzo, come un'idea luminosa, nell'anima oscura della notte; e a quel bagliore uscivano per un istante le creste, le rive, le case, il fondo livido del lago; poi l'oscurità ripiombava in una nerezza più fitta, più chiusa, più profonda in cui il tuono non cessava mai dal brontolare. Era però un temporale più rumoroso che cattivo, che nelle stesse sue furie faceva sentire, come, una volta sfogati i risentimenti d'una giornata calda ed afosa, avrebbe lasciato il tempo più bello di prima. I lavoratori dei campi, che vedevano la terra farsi già dura e spaccarsi in screpolature aride e sitibonde, sentivano con piacere stramazzare questo stroscio refrigerante di pioggia sopra i campi e sopra gli orti, saltare e gorgogliare nei canali e sui tetti delle case, ristorare le fatiche di tutti, come se in ogni goccia di quel diluvio scendesse dal cielo in terra una piccola benedizione; e allentando i corpi nei loro giacigli, dopo aver alzato un poco la testa per ascoltare se in mezzo all'acqua non saltasse qualche cosa di cattivo, cedevano più dolcemente al sonno.

La furia della pioggia non era ancora cessata, quando il Cresti, che girava per la sua casa ad assicurare usci e finestre, credette di sentir sonare il campanello del cancelletto di strada.

- Chi sarà con questo diavolo di tempo? - disse tra , aprendo un poco una finestra meno esposta alla sferza della pioggia; e stette ad ascoltare se era un'immaginazione o uno scherzo del vento. Il campanello risuonò ancor più forte.

- Chi è? - gridò, sporgendo il capo e gettando la voce verso la strada, per vincere il frastuono della pioggia.

- Mi manda il signor Ezio con una lettera - rispose una voce mezzo affogata.

- Ezio? - si chiese con un'intonazione di meraviglia come se dicesse: - l'imperatore della China? - e senza poter immaginare di che cosa potesse aver bisogno il signor Ezio in quel momento, con quel tempo, ma presentendo qualche cosa di poco allegro, scese sotto il portico, scelse tra molte ombrelle una assai grande e massiccia di tela rossa, e accesa la candela d'un lanternino a vetri, si fece coraggio e prese a discendere tra le due siepi di mortella per il viale che spicciava acqua da tutti i sassolini.

La luce del lanternino, che riempiva la cupola dell'ombrellone, sbatteva vermiglia sulla faccia e sulle mani e mandava l'ombra nera di due gambette sull'arena lucida del viale tutto chiazzato di fossatelle di acqua: e un'ombra più larga e spampanata passava sotto gli alberi di frutta come quella d'un immenso fungo proiettato da una gigantesca lanterna magica.

- Che cosa c'è Amedeo? una disgrazia? - chiese quando ebbe ravvisato l'uomo che, rannicchiato anche lui sotto una rustica ombrella dalle ossa dislogate stava attaccato colle mani alle sbarre del cancelletto, che gli offriva l'illusorio riparo di due magri pilastri ritti senza tetto.

- È per il signor ambasciatore. Il signor Ezio mi ha raccomandato di consegnarla subito stasera, ma c'è voluto del bello a trovare il Pioppino con questo buio.

- Qualche cosa di male?

- Ho paura di sì. È partito, credo per la Svizzera. A Tremezzo si dice si abbia a battere in duello.

- Venite dentro.

- No, torno subito, mentre son già bagnato, a pigliare il resto.

- Buona notte, povero Amedeo. - E lottando di nuovo contro il vento, che cominciava a pulir qualche stella e che minacciava di portar lui e l'ombrello nelle nuvole, il Cresti, risalì a saltucci il viale e, grondante come un pesce venne a cercar rifugio sotto l'atrio. Che fare di quella lettera molle anch'essa come una pezza? Massimo s'era già chiuso in camera da un'ora e cullato dal rumore della pioggia, che persuade il sonno, dormiva così placidamente ch'era peccato guastargli la notte per i capricci d'un moscardino che andava a battersi per chi? per la donna d'un altro: vergogna! e questo dopo le belle amabilità che il caro nipote aveva risposto al caro zio in un colloquio quasi degno di storia. Il povero Massimo, dopo quel malaugurato incontro con Ezio a Tremezzo, non aveva mangiato per tre , come se le amabilità del caro nipote degno figlio d'un uomo duro ed egoista gli fossero rimaste sullo stomaco. E se ora il signor Ezio Bagliani affogava, che cosa voleva da loro? che corressero con quel tempo in piena notte a gettargli una corda per trarlo a riva? Era meglio lasciarlo dormire l'amato zio e aspettare la luce del . Il Cresti pensava giusto. Zio e nipote non si eran più visti, Massimo si sentiva disposto a correre in cerca d'un giovinotto, anzi d'un ragazzaccio, che l'aveva stupidamente, bambinescamente oltraggiato nei suoi più nobili pensieri. Per non correre il pericolo d'imbattersi in lui e per non aver l'aria di mendicare un'ospitalità ch'egli non voleva più accettare, non si era lasciato più vedere a Villa Serena, tanto che laggiù non sapevano che cosa pensare. Cioè, donna Vincenzina, temendo di aver mancato in qualche cosa, in pena per e per lui, non osando mandare a chiedere al Pioppino, fece domandare al Castelletto se sapevano qualche notizia: e quando tornarono a dire che stavano tutti bene sentì crescere la sua tristezza. Si domandava se per caso ella non si fosse mostrata troppo poco indulgente con un vecchio amico e nello stesso tempo cominciò a dubitare d'essere stata troppo indulgente fino al punto di mettere il vecchio amico in qualche perplessità: ora avrebbe voluto mostrar di desiderarlo troppo e nemmeno rattristarlo con un atto di fredda trascuranza. Per quanto antica sia questa giurisprudenza dell'amore, che si sappia, non pare ancora compilato un prontuario che risponda a tutti i casi: e per quanto uno vada col piede di piombo, arrischia sempre di dare un cattivo consiglio, specialmente a stesso.

Prima che il sole dipingesse in rosa le cime biancheggianti delle montagne, che l'uragano della notte lasciava spruzzate di neve, il Cresti ricevette un altro biglietto di Erminio Bersi, che gli scriveva:

«Ezio e il barone si batteranno domani alla pistola - il biglietto era stato scritto la sera prima - a condizioni piuttosto gravi che non fu possibile evitare. Per vostra norma l'indirizzo è Lugano per Villa Elvetica. Manderò subito un telegramma al Pioppino se sarà necessario

- Cioè, se occorrerà di aggiustare una testa rotta - commentò acerbamente il Cresti, che per regola generale non sentiva mai una grande compassione per chi va a cercare i suoi guai col lanternino come si cercano le lumache. In questo caso particolare poi, in cui era in giuoco la riputazione d'un pericoloso rivale, non sarebbe stato uomo, se non avesse sfruttato a suo vantaggio la cavalleresca avventura. Se un rimasuglio di rimpianto restava ancora nel cuore di Flora, questo duello veniva opportuno a dimostrare che i tempi della cavalleria nobile e generosa sono scomparsi da un pezzo. I giovani campioni si battono ancora qualche volta per le belle, ma lo fanno per necessità; per esempio, per non lasciarsi infilzare dai mariti gelosi. E in quanto alle belle Angeliche di questi nuovi paladini potrebbero essere anche loro balie. Che ne sanno dell'ideale questi gaudenti giovinotti? (continuava nel suo umor sarcastico il misantropo del Pioppino). Se non possono aver l'amore a buon mercato, c'è sempre un buon amico che fa le spese. Così godono e invecchiano questi furbi: e quando gli acciacchi cominciano a farsi sentire, prima che la macchina irrugginisca del tutto, procurano di rifarsi una seconda giovinezza legale, collo sposare qualche ingenua ragazza provinciale, che insieme all'ignoranza dell'anima porti in dote un sacco di denari. L'idealismo è poco, ma il ragioniere di casa trova che l'operazione accomoda meravigliosamente le partite sconnesse, rimette in equilibrio il bilancio domestico e augura al suo padrone un erede che gli somigli.

Ecco la vera poesia pratica della vita, che non ha nulla a che fare con quella vaporosa poesia del cuore che fa sognare le ragazze belle e povere, che hanno la testa piena di letture, le dita piene di musica e lo spirito pieno di coraggio.

Il buon Cresti metteva in questi suoi segreti brontolamenti un sentimento alquanto involuto in cui lottavano confusamente mescolati e il piacer d'aver avuto ragione e il rancore contro gli avventurieri della felicità e dell'amore, che guastano il cuore delle ragazze. Vecchio idealista non avvizzito del tutto nel suo bozzolo, anzi presso a mettere le ali d'una nuova speranza, si avviava a riconoscere che una certa legge di equilibrio c'è nel mondo, la quale somiglia e rasenta qualche volta la giustizia.

Prima di entrare a discorrere con Massimo mandò un ragazzo con un biglietto a Regina per sapere da lei se la notizia del duello era già arrivata al Castelletto. La pregava di far in modo che le signore non sapessero nulla, se si era ancora in tempo a nascondere la verità: più tardi sarebbe venuto lui. Verso le sette bussò alla camera di Massimo.

Questi era ancora a letto, immerso nella descrizione della battaglia di Waterloo, nella tiepida tranquillità delle coltri, che abbracciavano dolcemente la sua pigrizia; e quando vide entrare l'amico, capì che un pensiero doloroso gli attraversava la fronte.

- To', leggi e vedi quel che significa essere giovani senza giudìzio. È il tuo amabile nipote che scrive.

Massimo prese la lettera, si rizzò un poco a sedere sul letto, e corse su queste parole:

«Caro zio, parto stasera per Lugano, dove dovrò avere una partita d'onore col barone. Cose che capitano ai vivi! procura che a Villa Serena non si sappia nulla o ritarda la notizia fin che è possibile. L'amico Bersi, nel caso d'una disgrazia sa quel che deve fare. Se, come non credo, non tornassi subito, ho lasciato per te, mio burbero benefico, una lunga lettera in camera di papà. Perdona al tuo Ezio

- Ecco, ecco, ecco... - uscì a dire il povero zio, agitando la lettera in aria. - Ho detto io che si doveva venire a questa! benedetto figliuolo, se mi avesse ascoltato. Ora non si è più in tempo a impedire nulla.

- Che cosa vorresti impedire? non possiamo volargli dietro. Del resto se l'è cercata.

- No, no, non possiamo star qui a far nulla, caro Cresti - disse l'amico. - Vediamo se siamo ancora in tempo... Lugano non è in fin del mondo.

- Si potrà andar a sentire... Intanto che tu ti vesti, faccio una scappata a Cadenabbia, dove si saprà qualche cosa. Il direttore dell'albergo potrà mettere a nostra disposizione una carrozza con due buoni cavalli se non saremo più in tempo a prendere la ferrovia di Menaggio. Bersi ha promesso di telegrafare: e forse, mentre parliamo, è già tutto finito colla pace di tutti.

- No, no, va a sentire, Cresti. Io ti raggiungo subito.

Mentre l'amico scendeva a corsa le scale, il buon zio ambasciatore, a cui la notizia aveva fatto battere il cuore in un modo straordinario, nel raccogliere i vestiti sul letto, andava sospirando: - L'ho veduta come in uno specchio. Mi avesse ascoltato! Che ci posso fare ora?... -

L'ultima frase della lettera: «Perdona al tuo Ezio» aveva d'un tratto disarmato i risentimenti d'un uomo, che a differenza di molti altri, più che le baruffe dell'amor proprio, amava di voler bene e di farsi voler bene.

Dopo una lunga vita sterile e vagabonda sentiva il bisogno di qualcuno che gli occupasse il cuore: e poichè c'era al mondo un ragazzo simpatico e ardito, che portava il suo nome, che non aveva che a chiedere il suo affetto, avrebbe voluto che Ezio corrispondesse con altrettanta confidenza. Per questa disposizione s'era commosso fino alle lacrime il giorno che l'avevano ricevuto a Villa Serena con tanta amorevolezza: e per questa disposizione aveva sofferto le pene dell'inferno nel vedersi a un tratto respinto, quasi oltraggiato da quel figliuolo. Ma ora che la mala passione aveva tirato il castigo, il cuore dell'uomo si sentì giovine, indulgente, tratto dalla sua stessa esperienza a compiangere nel povero ragazzo questa nostra povera vita, che tra i mali è una pagliuzza raggirata da un turbine.

Non conosceva le condizioni del duello: ma un duello alla pistola è sempre una partita seria. E c'era di mezzo una donna, la più irragionevole delle ragioni, ma la più difficile a confutare. Se i padrini non avevano potuto far accettare altre armi, era segno che gli animi erano troppo eccitati da una parte e dall'altra. Povero Ezio! già dalle sue parole spirava quel cattivo presentimento che galoppa sempre una mezza giornata davanti al cattivo destino.

Massimo pensava anche a donna Vincenzina, che doveva, poveretta, provare anche questa. Quasi restava incerto fra i due partiti, se era meglio correr dietro al giovine o rimanere presso la madrina: se andar lui e far restar Cresti: se partir subito o aspettare prima il telegramma.

In queste esitanze, l'uomo di sua natura già troppo meticoloso, restava immobile colla roba in mano, nel mezzo della camera, cogli orecchi aperti a tutti i rumori della casa, pronto a trasalire ad ogni colpo di campanello, imbarazzato a compiere quel solito cerimoniale del vestirsi, che turba le donne che hanno pochi pensieri e gli uomini che ne hanno troppi.

Il Cresti arrivò a Cadenabbia sul punto stesso che il fattorino usciva dalla Posta con un telegramma per lui.

- Date qua - disse, strappando quasi di mano all'uomo il foglietto. E tornò su' suoi passi, senza leggere. Invece di svoltare sulla strada ripida del Pioppino, tirò diritto coll'idea sottintesa di portare la notizia al Castelletto. Ma quale notizia? l'aveva in pugno e non osava guardare. E non osava, per paura che fosse troppo paurosa, mentre non osava augurarla nemmeno troppo lieta. Come potesse essere o troppo brutta o troppo bella questa notizia, non avrebbe saputo dire, perchè quando sono in zuffa interessi contrarii, non convien mai aver idee troppo chiare. - Si vede che il duello ha avuto luogo nelle primo ore. Bersi ha telegrafato subito e così potremo risparmiare una corsa inutile con questo caldo.

E mentre, seguendo la spinta d'un primo pensiero buono e generoso, correva verso il Castelletto, un secondo pensiero sbucando come un cane, che da una siepe esce contro un altro, lo arrestò di botto coi piedi nella polvere.

- Ma se egli è sano, salvo e glorioso, non c'è ragione che tu vada a raccontare a queste donne il nuovo trionfo di don Chisciotte. Le donne s'esaltano all'idea delle audaci imprese e c'è a scommettere che, circonfuso dell'aureola del pericolo corso, il signor Ezio abbia a ritornare più bello e più caro di prima. Flora non avea ancor detta l'ultima parola e in questo momento psicologico della sua vita non era prudente turbarne il giudizio col racconto d'un episodio epico in cui Ezio arrischiava di fare la figura d'un eroe. Flora non era più saggia delle altre donne, tutte più o meno romantiche, nel giudicare del valore di un uomo; anzi c'era a dubitare che un'avventura cavalleresca compiuta nel rimbombo delle armi avesse ad esaltare il suo spirito fantastico, imbevuto di pregiudizi rivoluzionari e di poesia polacca.

Ecco perchè il nostro umile coltivatore di cavoli, che non aveva mai sparato pistole, se non contro pipistrelli, s'era fermato coi piedi nella polvere della strada, esitante su quel che conveniva fare; finalmente scoprì che prima di fare o di non fare conveniva leggere il telegramma: e colle mani che tremavano per la troppa emozione aprì il dispaccio, si assicurò le lenti sul naso....

«Ezio ferito gravemente forse mortalmente alla testa. Venite subito tutti.»

 

*

* *

 

- Ferito gravemente, forse mortalmente..... oh Dio mio! - uscì a dire con voce alta e dolente il buon amico, che si credette quasi punito della sua stessa malevolenza. Oh non era possibile una sì grande disgrazia; no, no: egli non aveva desiderato questo male. c'era a lusingarsi che il Bersi esagerasse. Non era della sua indole e non si esagera mai nel peggio in queste circostanze. Come poteva recare questa notizia a Massimo? come avvertirne di punto in bianco queste povere donne? davanti alla crudele verità veniva meno ogni piccola invidia, ogni sofisma; e le stesse ragioni logiche, che si vantavano poco fa d'aver preveduto il male, si vergognavano ora d'essere state così buone sibille.

Cresti non aveva desiderato quel male, e ora il suo cuore buono e generoso temeva soltanto di non aver la forza di rammaricarsene abbastanza; ma aveva fatto troppi passi sulla via della gelosia e del disprezzo, perchè nella sua squisita delicatezza morale non avesse a provare un brivido di rimorso. Il godere del male altrui è già per una specie di complicità. Così amaro è il sapore di certe ragioni, quando ritornano in gola nei momenti del castigo, che uno si pente di essere stato troppo logico come di uno scongiuro fatto al destino. Forse questo spiega come il volgo attribuisca all'astrologo una responsabilità nei mali ch'egli ha il torto di prevedere e come la sapienza che si vanta d'aver sempre ragione sia tanto odiata nel mondo.

Riavutosi dal primo colpo, però colla testa ancora intronata, prese a salire col passo rotto e pesante la strada del Pioppino, che mai gli si era presentata così ripida.

O povera gente! - andava rimpiangendo impaurito all'idea dello spavento che doveva recare a Massimo, a donna Vincenzina e a quelle povere signore del Castelletto.

- O povero figliuolo! - soggiungeva, correndo col pensiero a immaginare Ezio buttato su un letto, colla testa in sangue, forse agonizzante, forse già morto. - O noi imbecilli! - finì col dire nel suo amaro disgusto, vedendo con quanta facilità gli uomini buttino via la felicità che la natura mette loro davanti, la giovinezza, la salute, la pace, la ricchezza, l'amore, l'amicizia, l'aria, il sole, per correre dietro alle melensaggini d'una fantasia sbrigliata.

Che mancava a Ezio perchè fosse l'uomo più beato del mondo? non l'ingegno, che fa intendere il valore delle cose, non la salute che la forza di goderle, non i denari che pagano le spese: non gli mancavano intorno affetti, amicizie, tenerezze, che son la cornice d'oro, più bella, non di raro, del quadro.

Per poco ch'egli avesse stesa la mano, il mondo era suo; ma nossignori! nessuno vorrà essere quel che natura lo fa, ma il desiderio di quel che non si può avere ucciderà sempre la volontà che non si contenta. Bisognava proprio ch'egli andasse a rompersi il capo per una baronessa di princisbecco, per un ex cantante di provincia, per una donna d'altri, fresca, rugiadosa, anzi discretamente sciupata, e scioccherella. E pazienza si fosse trattato di amore, di quell'amore che non lascia tempo a riflettere; ma tutti sappiamo di che cosa son fatti questi pasticci che il mondo chiama amori di contrabbando e che i romanzieri, che non li assaggiano, amano spacciare coi colori più falsi della loro immaginazione. Per un grano di simpatia son due grani di concupiscenza diluita in un secchio d'acqua sporca di tutte le falsità d'una vita oziosa e senza sapore. Mettici un po' di spirito di avventura, un pizzico d'amor proprio e di gusto del pericolo e bevi tiepido senza sete. L'effetto finale è quasi sempre un tedio infinito, la nausea dell'amore, quando non è l'odio per la donna, un odio che avvelena per sempre il fondo della vita.

Cresti predicava ancora dentro di , soffermandosi di tratto in tratto a prendere forza come se portasse su un sacco di malanni, quando si trovò faccia a faccia con Massimo, che era uscito impaziente per venirgli incontro.

- E così? - chiese paurosamente l'amico.

- E così... ecco - rispose l'altro con una voce cupa, presentandogli il telegramma.

Massimo vide tremare le parole sotto gli occhi e dovette appoggiarsi colla mano al muro per non cadere sulla strada.

- Bisogna partir subito... - balbettò costui, quando potò ricuperare un filo di voce.

- Prima bisogna avvertire donna Vincenzina: non possiamo partire senza di lei.

- Andiamoci insieme - confermò Massimo colla voce strozzata.

- Mentre io entro in casa a dar qualche ordine e a prendere un po' di denaro, tu vai a fissare una barca. Ogni momento è prezioso.

Massimo rimasto solo continuò la discesa, ma ad ogni passo credeva di precipitare in una buca. Non per questo, non per assistere a questi dolori aveva attraversato il mare dopo dodici anni di esilio. Ma non mai come in questo momento aveva sentito che il suo posto era presso quella donna.

 

*

* *

 

Flora dopo una notte dolce e riposata s'era alzata più presto del solito e, lasciando entrar l'aria nella stanza, prese a rileggere il principio d'una lettera che da due giorni stava preparando per Cresti.

Essa gli aveva promesso una risposta poteva ormai tardar più senza tener il povero amico sulle spine. La riflessione che la vita non è fatta di sogni, la morte delle antiche illusioni, i consigli della buona Elisa e il desiderio di accontentare la povera mamma avevano finito col farle parere non soltanto ragionevole, ma una vera fortuna per lei l'offerta di un uomo che vantava già tanti titoli di gratitudine e di benevolenza.

Il suo cuore non credeva dunque di mentire, quando diceva a Cresti in frase alla buona:

«Mi pare, mio buon amico, che io le abbia sempre voluto bene: e rispondendo sempre alla sua generosa richiesta, non dovrei che sottolineare questa parola bene, che un nuovo sentimento di gratitudine rende ancora più sacra. Come posso dubitare della mia felicità se io avrò ai fianchi una guida così tenera e così prudente? Io ho troppo vissuto nella nebbia dei vani idealismi, credendo che la vita si potesse fabbricare nelle nuvole: e ho inutilmente sofferto e fatto inutilmente soffrire, mentre la vita è cosa vera, più dolorosa che buona, per cui non bastano sempre le forze del cuore, se non sono confortate dalle ragioni della prudenza. Fidandomi in Lei, mio vecchio amico, sento che io rientro nel vero e mi colloco nella migliore condizione per compiere il mio dovere che ho forse troppo confuso fin qui colla mia volontà».

Rileggendo queste righe, che contenevano una felice argomentazione, la fanciulla vedeva quasi dissiparsi l'ultima nebbia d'un dubbio che la tratteneva dal credere troppo alla sua sincerità.

Non chiedeva più se amava l'uomo che la cercava in isposa: ma sentiva che il suo dovere era di amarlo e ch'egli meritava d'essere amato. Forse era un sofisma del suo spirito, che credeva di risolvere un problema coprendolo con un altro; ma in quest'abbaglio cascano incoscientemente anche i logici più consumati senz'aver le ragioni secondarie che potevano scusare la nostra Flora.

Questa, se paragonava quel che era stata finora a quel che poteva diventare sposando Cresti, la sua stanzuccia dai mattoni screpolati, alla bella villetta che dalla finestra vedeva biancheggiare nell'ombra fredda dell'altra riva: se ricordava i giorni delle lunghe tristezze invernali, quando il gran freddo che scrolla le finestre par che insulti alla poca legna che langue nel caminetto, doveva riconoscere che l'offerta di Cresti scendeva sopra di lei come una benedizione.

Un senso di quiete e il presentimento di una consolazione non priva di orgoglio dilatava il suo cuore. Forse parlava forte, senza che ella sapesse distinguere questa voce dalle altre, anche un risentimento contro un destino troppo avaro e crudele e una certa irritazione di amor proprio offeso, che è sempre nel fondo della tazza in cui precipita un amore che si guasta. Se altri non l'aveva creduta degna d'una grazia, ecco il buon Cresti che la invitava a salire i gradini di un trono... Colla pace dello spirito, col bene compiuto per e per gli altri, coll'adempimento di un dovere reso ormai necessario, era la dignità d'una vita signorile, senza della quale non intendeva che vi possa essere una grande elevazione. Non c'è bellezza senza eleganza, non c'è eleganza senza gioia, non c'è gioia senza dominio. Chi è servo dei propri bisogni non può regnare nemmeno sopra di stesso.

Ogni donna dovrebbe essere regina, com'è regina la femmina dell'alveare. Ma i tempi snaturati vanno apprestando troppi doveri rudi e logoranti alle mani delicate delle figlie della terra, troppo pesanti responsabilità alle tenere spalle, e disseccando le aiuole, isteriliscono i giardini della vita. Quella malinconica scienza economica che insegna che si può cavare un bastone anche da un cespo di rose, mette a usura anche le tenere grazie femminili per cavarne strumenti di lavoro, e trasforma l'aereo pizzo di Fiandra e di Venezia in un volgare strofinaccio. Questo era lo spavento di Flora tutte le volte che si affacciava alla porta del suo vuoto avvenire o che discuteva con stessa il rischio di dover guadagnarsi il pane per e per la mamma con un lavoro miseramente mendicato e miseramente eseguito colle dita fredde e stanche. Non soltanto la lettera di risposta a Cresti le parve buona e sincera, ma volle levarsi anche le ombre d'un ultimo rimorso con una serie di interrogazioni, a cui lasciava a lui la responsabilità di rispondere.

Riprese la penna e continuò: - «Sarò io capace di farla felice, amico Cresti, o non sono io una ragazza troppo leggera, svolazzante, rivoluzionaria, intinta un poco di anarchia come i miei capelli?... (Eran le solite facezie del buon amico del Pioppino).... E non crederà il mondo che io ceda, più alle lusinghe dell'onore che mi fanno, e meno a un santo dovere del cuore?...

 

*

* *

 

A questo punto Flora si alzò in preda a una strana agitazione e corse alla finestra a chiudere le persiane contro il sole che entrava sfolgorante: e in quello stesso punto in un modo che aveva della veemenza squillarono i campanelli della porta di strada. Stando dietro le spie delle persiane, potè vedere, senza essere veduta, il Cresti che s'incontrava con Regina e fermavasi a mostrarle un telegramma e a discorrere con lei in una maniera concitata, mettendo fuori delle piccole parole, che afferrava e stringeva in aria colle mani.

Regina una volta si coprì gli occhi colle mani e corse in casa, mentre il Cresti pareva voler ritornare verso la porta: ma fatti quattro passi, veniva di nuovo verso la casa per ripetere a Elisa d'Avanzo il suo gran discorso serrato, pieno di segni che parevano minaccie. Di a poco Regina li raggiunse, precedendo la mamma che aveva un viso slavato, e che alle prime parole del Cresti si lasciò cadere sulla panchina.

- Che è accaduto, o voi? - domandò improvvisamente Flora, buttando all'infuori le due persiane, che suonarono come due colpi di pistola. E tutti trasalirono a quella voce.

- Chi è che sta male? Chi è che è morto? - Vedendo che non sapevano rispondere, scese a volo. Sulla scala s'incontrò nella Nunziata, che ebbe a pronunciare confusamente le parole di Ezio, duello, signora maritata, come le aveva raccolte nella bottega del fornaio.

- Che cosa è stato? un duello? un duello per causa di quella donna? o grave? dov'è? l'hanno ucciso? -

S'erano radunati nello stretto corridoio della scala, all'appoggiatoio della quale Flora stava attaccata per non cadere. Alle troppe domande rispondeva crudelmente l'imbarazzo e il silenzio dei presenti. Fu il Cresti che uscì finalmente a dire: - Nessuno è morto: solamente una ferita leggera...

- Il vostro spavento dice di più: no. Ezio è in pericolo... Datemi quel telegramma che avete ricevuto...

- È inutile: è un duello come se ne danno tanti, o Dio... - ripetè il Oresti.

- Datemi quel telegramma... - balbettò la fanciulla con tono oppresso e con un tremito delle labbra, che disegnò sulla sua bocca un brutto sorriso.

Il Cresti esitava: ma Flora gli si avventò contro e gridò: - Allora è segno che l'hanno ucciso...

- No, per bacco! ecco qua... è un caso un po' grave... ma, ma...

Flora, tolto di mano a Cresti il dispaccio, corse avidamente cogli occhi sulle parole.

- Voi mi condurrete ...

- Dove?

- , da lui.

- Questo poi no - oppose con burbera energia il Cresti.

- Oh, oh... perchè no? - -chiese essa con voce alterata, in cui suonava un non so che di aggressivo. - Chi è che non vuole?

- Io... noi tutti... credo... - rispose l'amico, cercando umilmente l'adesione delle donne. Dove c'è sangue, non o il posto delle ragazze.

- Certamente - approvò la mamma.

- E chi me lo impedirà se io ci voglio andare? - strillò con una mossa tragica di tutta la persona, minacciando coll'occhio corrucciato e con una mano chiusa il povero Cresti, che stava umilmente sicuro del suo pensiero.

- Noi tutti, perchè vogliamo bene a tutti e due.

- Io non sono più malata.

- Ma egli ha bisogno di pace.

- Ma egli mi chiama... Oh Dio... non sentite che egli mi chiama? - E come se veramente sentisse una voce venir da lontano, allibì, stralunò gli occhi, si agitò con una mossa bizzarra e sconnessa, tanto che Regina ed Elisa se la presero in mezzo per impedire che fuggisse di casa.

- Andrò senza di voi, prima di voi, cattive, lasciatemi andare... Non sentite? oh Dio... è proprio la sua voce... - Andava ripetendo, mentre con risoluta energia le due amiche la tenevano ferma. Il Cresti si consultò rapidamente colla mamma e credendo far opera di legittima autorità, con voce grave e paterna: - Oh andiamo, Flora, queste sono sciocchezze - le disse. - Non è a questo modo che si parla colla mamma...

- Sono nel mio diritto - protestò la fanciulla delirante.

- Qui non è questione di diritto, ma di obbedienza, di carità e di buon senso...

- Taccia lei che non c'entra... - fu l'aspra risposta della fanciulla, che un brutto assalto di nervi buttò come irrigidita sugli ultimi gradini della scala. Alle parole succedette un rantolo, quasi un gorgoglìo della voce morente; poi nulla. Il corpo come roba morta fu portato e disteso sul vecchio canapè.

Il povero Cresti come un uomo fulminato, stette un istante senza capire: poi al primo risveglio di lei, come se sentisse il bruciore di un'atroce ferita, se ne fuggì, attraversò il giardino, che gli parve diventato tutto nero e se ne tornò a Villa Serena, dove sapeva d'essere aspettato, senza vedere la strada, le case la gente, che lo guardava con pietosa curiosità.

La voce del grave duello era già corsa nei paeselli di Mezzegra e di Porlezza, dove Ezio e le sue prodezze erano abbastanza conosciute. La buona gente, che al di fuori dei propri bisogni non comprende troppe cose, ne discorreva sugli usci come d'un caso incredibile, non necessario, che non si osa credere. Ma come avviene delle notizie che corrono, davano già per certo che il giovane fosse stato ammazzato dal marito con tre colpi di pistola in una camera presso la pasticceria di Cadenabbia. Si voleva da alcuni che il feroce marito avesse uccisa anche la donna.

All'oscura emozione che lo acciecava il povero nostro amico oltraggiato seppe opporre un volere violento, e un impeto di tanta collera e di tanto orgoglio che vinse ogni altro pensiero e potè essere di conforto agli amici.


 

 

 




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