XVI.
Il duello.
Il temporale rumoreggiava da una
mezz'ora nelle alte valli, quando, cessato un poco il vento che faceva stridere
le frasche, cominciò a cadere nella chiusa oscurità della notte un'acqua
torbida e grossa, che riempì ben presto i solchi, i viottoli, le incavature del
monte e prese a correre e a inondare le strade più basse. Ogni qual tratto un
lampo vermiglio s'accendeva nelle lontane regioni del cielo e faceva passare un
guizzo, come un'idea luminosa, nell'anima oscura della notte; e a quel bagliore
uscivano per un istante le creste, le rive, le case, il fondo livido del lago;
poi l'oscurità ripiombava in una nerezza più fitta, più chiusa, più profonda in
cui il tuono non cessava mai dal brontolare. Era però un temporale più rumoroso
che cattivo, che nelle stesse sue furie faceva sentire, come, una volta sfogati
i risentimenti d'una giornata calda ed afosa, avrebbe lasciato il tempo più
bello di prima. I lavoratori dei campi, che vedevano la terra farsi già dura e
spaccarsi in screpolature aride e sitibonde, sentivano con piacere stramazzare
questo stroscio refrigerante di pioggia sopra i campi e sopra gli orti, saltare
e gorgogliare nei canali e sui tetti delle case, ristorare le fatiche di tutti,
come se in ogni goccia di quel diluvio scendesse dal cielo in terra una piccola
benedizione; e allentando i corpi nei loro giacigli, dopo aver alzato un poco
la testa per ascoltare se in mezzo all'acqua non saltasse qualche cosa di
cattivo, cedevano più dolcemente al sonno.
La furia della pioggia non era
ancora cessata, quando il Cresti, che girava per la sua casa ad assicurare usci
e finestre, credette di sentir sonare il campanello del cancelletto di strada.
- Chi sarà con questo diavolo di
tempo? - disse tra sè, aprendo un poco una finestra meno esposta alla sferza
della pioggia; e stette lì ad ascoltare se era un'immaginazione o uno scherzo
del vento. Il campanello risuonò ancor più forte.
- Chi è? - gridò, sporgendo il capo
e gettando la voce verso la strada, per vincere il frastuono della pioggia.
- Mi manda il signor Ezio con una
lettera - rispose una voce mezzo affogata.
- Ezio? - si chiese con
un'intonazione di meraviglia come se dicesse: - l'imperatore della China? - e
senza poter immaginare di che cosa potesse aver bisogno il signor Ezio in quel
momento, con quel tempo, ma presentendo qualche cosa di poco allegro, scese
sotto il portico, scelse tra molte ombrelle una assai grande e massiccia di
tela rossa, e accesa la candela d'un lanternino a vetri, si fece coraggio e
prese a discendere tra le due siepi di mortella per il viale che spicciava
acqua da tutti i sassolini.
La luce del lanternino, che
riempiva la cupola dell'ombrellone, sbatteva vermiglia sulla faccia e sulle
mani e mandava l'ombra nera di due gambette sull'arena lucida del viale tutto
chiazzato di fossatelle di acqua: e un'ombra più larga e spampanata passava
sotto gli alberi di frutta come quella d'un immenso fungo proiettato da una
gigantesca lanterna magica.
- Che cosa c'è Amedeo? una disgrazia?
- chiese quando ebbe ravvisato l'uomo che, rannicchiato anche lui sotto una
rustica ombrella dalle ossa dislogate stava attaccato colle mani alle sbarre
del cancelletto, che gli offriva l'illusorio riparo di due magri pilastri ritti
senza tetto.
- È per il signor ambasciatore. Il
signor Ezio mi ha raccomandato di consegnarla subito stasera, ma c'è voluto del
bello a trovare il Pioppino con questo buio.
- Qualche cosa di male?
- Ho paura di sì. È partito, credo
per la Svizzera. A Tremezzo si dice si abbia a battere in duello.
- Venite dentro.
- No, torno subito, mentre son già
bagnato, a pigliare il resto.
- Buona notte, povero Amedeo. - E
lottando di nuovo contro il vento, che cominciava a pulir qualche stella e che
minacciava di portar lui e l'ombrello nelle nuvole, il Cresti, risalì a
saltucci il viale e, grondante come un pesce venne a cercar rifugio sotto
l'atrio. Che fare di quella lettera molle anch'essa come una pezza? Massimo
s'era già chiuso in camera da un'ora e cullato dal rumore della pioggia, che
persuade il sonno, dormiva così placidamente ch'era peccato guastargli la notte
per i capricci d'un moscardino che andava a battersi per chi? per la donna d'un
altro: vergogna! e questo dopo le belle amabilità che il caro nipote aveva
risposto al caro zio in un colloquio quasi degno di storia. Il povero Massimo,
dopo quel malaugurato incontro con Ezio a Tremezzo, non aveva mangiato per tre
dì, come se le amabilità del caro nipote degno figlio d'un uomo duro ed egoista
gli fossero rimaste sullo stomaco. E se ora il signor Ezio Bagliani affogava,
che cosa voleva da loro? che corressero con quel tempo in piena notte a
gettargli una corda per trarlo a riva? Era meglio lasciarlo dormire l'amato zio
e aspettare la luce del dì. Il Cresti pensava giusto. Zio e nipote non si eran
più visti, nè Massimo si sentiva disposto a correre in cerca d'un giovinotto,
anzi d'un ragazzaccio, che l'aveva stupidamente, bambinescamente oltraggiato
nei suoi più nobili pensieri. Per non correre il pericolo d'imbattersi in lui e
per non aver l'aria di mendicare un'ospitalità ch'egli non voleva più
accettare, non si era lasciato più vedere a Villa Serena, tanto che laggiù non
sapevano che cosa pensare. Cioè, donna Vincenzina, temendo di aver mancato in
qualche cosa, in pena per sè e per lui, non osando mandare a chiedere al
Pioppino, fece domandare al Castelletto se sapevano qualche notizia: e quando
tornarono a dire che stavano tutti bene sentì crescere la sua tristezza. Si
domandava se per caso ella non si fosse mostrata troppo poco indulgente con un
vecchio amico e nello stesso tempo cominciò a dubitare d'essere stata troppo
indulgente fino al punto di mettere il vecchio amico in qualche perplessità: nè
ora avrebbe voluto mostrar di desiderarlo troppo e nemmeno rattristarlo con un
atto di fredda trascuranza. Per quanto antica sia questa giurisprudenza
dell'amore, che si sappia, non pare ancora compilato un prontuario che risponda
a tutti i casi: e per quanto uno vada col piede di piombo, arrischia sempre di
dare un cattivo consiglio, specialmente a sè stesso.
Prima che il sole dipingesse in
rosa le cime biancheggianti delle montagne, che l'uragano della notte lasciava
spruzzate di neve, il Cresti ricevette un altro biglietto di Erminio Bersi, che
gli scriveva:
«Ezio e il barone si batteranno
domani alla pistola - il biglietto era stato scritto la sera prima - a
condizioni piuttosto gravi che non fu possibile evitare. Per vostra norma
l'indirizzo è Lugano per Villa Elvetica. Manderò subito un telegramma al
Pioppino se sarà necessario.»
- Cioè, se occorrerà di aggiustare
una testa rotta - commentò acerbamente il Cresti, che per regola generale non
sentiva mai una grande compassione per chi va a cercare i suoi guai col
lanternino come si cercano le lumache. In questo caso particolare poi, in cui
era in giuoco la riputazione d'un pericoloso rivale, non sarebbe stato uomo, se
non avesse sfruttato a suo vantaggio la cavalleresca avventura. Se un
rimasuglio di rimpianto restava ancora nel cuore di Flora, questo duello veniva
opportuno a dimostrare che i tempi della cavalleria nobile e generosa sono
scomparsi da un pezzo. I giovani campioni si battono ancora qualche volta per
le belle, ma lo fanno per necessità; per esempio, per non lasciarsi infilzare
dai mariti gelosi. E in quanto alle belle Angeliche di questi nuovi paladini
potrebbero essere anche loro balie. Che ne sanno dell'ideale questi gaudenti
giovinotti? (continuava nel suo umor sarcastico il misantropo del Pioppino). Se
non possono aver l'amore a buon mercato, c'è sempre un buon amico che fa le
spese. Così godono e invecchiano questi furbi: e quando gli acciacchi
cominciano a farsi sentire, prima che la macchina irrugginisca del tutto,
procurano di rifarsi una seconda giovinezza legale, collo sposare qualche
ingenua ragazza provinciale, che insieme all'ignoranza dell'anima porti in dote
un sacco di denari. L'idealismo è poco, ma il ragioniere di casa trova che
l'operazione accomoda meravigliosamente le partite sconnesse, rimette in
equilibrio il bilancio domestico e augura al suo padrone un erede che gli
somigli.
Ecco la vera poesia pratica della
vita, che non ha nulla a che fare con quella vaporosa poesia del cuore che fa
sognare le ragazze belle e povere, che hanno la testa piena di letture, le dita
piene di musica e lo spirito pieno di coraggio.
Il buon Cresti metteva in questi
suoi segreti brontolamenti un sentimento alquanto involuto in cui lottavano
confusamente mescolati e il piacer d'aver avuto ragione e il rancore contro gli
avventurieri della felicità e dell'amore, che guastano il cuore delle ragazze.
Vecchio idealista non avvizzito del tutto nel suo bozzolo, anzi presso a
mettere le ali d'una nuova speranza, si avviava a riconoscere che una certa
legge di equilibrio c'è nel mondo, la quale somiglia e rasenta qualche volta la
giustizia.
Prima di entrare a discorrere con
Massimo mandò un ragazzo con un biglietto a Regina per sapere da lei se la
notizia del duello era già arrivata al Castelletto. La pregava di far in modo
che le signore non sapessero nulla, se si era ancora in tempo a nascondere la
verità: più tardi sarebbe venuto lui. Verso le sette bussò alla camera di
Massimo.
Questi era ancora a letto, immerso
nella descrizione della battaglia di Waterloo, nella tiepida tranquillità delle
coltri, che abbracciavano dolcemente la sua pigrizia; e quando vide entrare
l'amico, capì che un pensiero doloroso gli attraversava la fronte.
- To', leggi e vedi quel che
significa essere giovani senza giudìzio. È il tuo amabile nipote che scrive.
Massimo prese la lettera, si rizzò
un poco a sedere sul letto, e corse su queste parole:
«Caro zio, parto stasera per
Lugano, dove dovrò avere una partita d'onore col barone. Cose che capitano ai
vivi! procura che a Villa Serena non si sappia nulla o ritarda la notizia fin
che è possibile. L'amico Bersi, nel caso d'una disgrazia sa quel che deve fare.
Se, come non credo, non tornassi subito, ho lasciato per te, mio burbero
benefico, una lunga lettera in camera di papà. Perdona al tuo Ezio.»
- Ecco, ecco, ecco... - uscì a dire
il povero zio, agitando la lettera in aria. - Ho detto io che si doveva venire
a questa! benedetto figliuolo, se mi avesse ascoltato. Ora non si è più in
tempo a impedire nulla.
- Che cosa vorresti impedire? non
possiamo volargli dietro. Del resto se l'è cercata.
- No, no, non possiamo star qui a
far nulla, caro Cresti - disse l'amico. - Vediamo se siamo ancora in tempo...
Lugano non è in fin del mondo.
- Si potrà andar a sentire...
Intanto che tu ti vesti, faccio una scappata a Cadenabbia, dove si saprà
qualche cosa. Il direttore dell'albergo potrà mettere a nostra disposizione una
carrozza con due buoni cavalli se non saremo più in tempo a prendere la
ferrovia di Menaggio. Bersi ha promesso di telegrafare: e forse, mentre
parliamo, è già tutto finito colla pace di tutti.
- No, no, va a sentire, Cresti. Io
ti raggiungo subito.
Mentre l'amico scendeva a corsa le
scale, il buon zio ambasciatore, a cui la notizia aveva fatto battere il cuore
in un modo straordinario, nel raccogliere i vestiti sul letto, andava
sospirando: - L'ho veduta come in uno specchio. Mi avesse ascoltato! Che ci
posso fare ora?... -
L'ultima frase della lettera:
«Perdona al tuo Ezio» aveva d'un tratto disarmato i risentimenti d'un uomo, che
a differenza di molti altri, più che le baruffe dell'amor proprio, amava di
voler bene e di farsi voler bene.
Dopo una lunga vita sterile e
vagabonda sentiva il bisogno di qualcuno che gli occupasse il cuore: e poichè
c'era al mondo un ragazzo simpatico e ardito, che portava il suo nome, che non
aveva che a chiedere il suo affetto, avrebbe voluto che Ezio corrispondesse con
altrettanta confidenza. Per questa disposizione s'era commosso fino alle
lacrime il giorno che l'avevano ricevuto a Villa Serena con tanta amorevolezza:
e per questa disposizione aveva sofferto le pene dell'inferno nel vedersi a un
tratto respinto, quasi oltraggiato da quel figliuolo. Ma ora che la mala
passione aveva tirato il castigo, il cuore dell'uomo si sentì giovine,
indulgente, tratto dalla sua stessa esperienza a compiangere nel povero ragazzo
questa nostra povera vita, che tra i mali è una pagliuzza raggirata da un
turbine.
Non conosceva le condizioni del
duello: ma un duello alla pistola è sempre una partita seria. E c'era di mezzo
una donna, la più irragionevole delle ragioni, ma la più difficile a confutare.
Se i padrini non avevano potuto far accettare altre armi, era segno che gli
animi erano troppo eccitati da una parte e dall'altra. Povero Ezio! già dalle
sue parole spirava quel cattivo presentimento che galoppa sempre una mezza
giornata davanti al cattivo destino.
Massimo pensava anche a donna
Vincenzina, che doveva, poveretta, provare anche questa. Quasi restava incerto
fra i due partiti, se era meglio correr dietro al giovine o rimanere presso la
madrina: se andar lui e far restar Cresti: se partir subito o aspettare prima
il telegramma.
In queste esitanze, l'uomo di sua
natura già troppo meticoloso, restava immobile colla roba in mano, nel mezzo
della camera, cogli orecchi aperti a tutti i rumori della casa, pronto a
trasalire ad ogni colpo di campanello, imbarazzato a compiere quel solito
cerimoniale del vestirsi, che turba le donne che hanno pochi pensieri e gli
uomini che ne hanno troppi.
Il Cresti arrivò a Cadenabbia sul punto
stesso che il fattorino usciva dalla Posta con un telegramma per lui.
- Date qua - disse, strappando
quasi di mano all'uomo il foglietto. E tornò su' suoi passi, senza leggere.
Invece di svoltare sulla strada ripida del Pioppino, tirò diritto coll'idea
sottintesa di portare la notizia al Castelletto. Ma quale notizia? l'aveva in
pugno e non osava guardare. E non osava, per paura che fosse troppo paurosa,
mentre non osava augurarla nemmeno troppo lieta. Come potesse essere o troppo
brutta o troppo bella questa notizia, non avrebbe saputo dire, perchè quando
sono in zuffa interessi contrarii, non convien mai aver idee troppo chiare. -
Si vede che il duello ha avuto luogo nelle primo ore. Bersi ha telegrafato
subito e così potremo risparmiare una corsa inutile con questo caldo.
E mentre, seguendo la spinta d'un
primo pensiero buono e generoso, correva verso il Castelletto, un secondo
pensiero sbucando come un cane, che da una siepe esce contro un altro, lo
arrestò di botto coi piedi nella polvere.
- Ma se egli è sano, salvo e
glorioso, non c'è ragione che tu vada a raccontare a queste donne il nuovo
trionfo di don Chisciotte. Le donne s'esaltano all'idea delle audaci imprese e
c'è a scommettere che, circonfuso dell'aureola del pericolo corso, il signor Ezio
abbia a ritornare più bello e più caro di prima. Flora non avea ancor detta
l'ultima parola e in questo momento psicologico della sua vita non era prudente
turbarne il giudizio col racconto d'un episodio epico in cui Ezio arrischiava
di fare la figura d'un eroe. Flora non era più saggia delle altre donne, tutte
più o meno romantiche, nel giudicare del valore di un uomo; anzi c'era a
dubitare che un'avventura cavalleresca compiuta nel rimbombo delle armi avesse
ad esaltare il suo spirito fantastico, imbevuto di pregiudizi rivoluzionari e
di poesia polacca.
Ecco perchè il nostro umile
coltivatore di cavoli, che non aveva mai sparato pistole, se non contro
pipistrelli, s'era fermato coi piedi nella polvere della strada, esitante su
quel che conveniva fare; finalmente scoprì che prima di fare o di non fare
conveniva leggere il telegramma: e colle mani che tremavano per la troppa
emozione aprì il dispaccio, si assicurò le lenti sul naso....
«Ezio ferito gravemente forse
mortalmente alla testa. Venite subito tutti.»
*
* *
- Ferito gravemente, forse
mortalmente..... oh Dio mio! - uscì a dire con voce alta e dolente il buon
amico, che si credette quasi punito della sua stessa malevolenza. Oh non era
possibile una sì grande disgrazia; no, no: egli non aveva desiderato questo
male. Nè c'era a lusingarsi che il Bersi esagerasse. Non era della sua indole e
non si esagera mai nel peggio in queste circostanze. Come poteva recare questa
notizia a Massimo? come avvertirne di punto in bianco queste povere donne?
davanti alla crudele verità veniva meno ogni piccola invidia, ogni sofisma; e
le stesse ragioni logiche, che si vantavano poco fa d'aver preveduto il male,
si vergognavano ora d'essere state così buone sibille.
Cresti non aveva desiderato quel
male, e ora il suo cuore buono e generoso temeva soltanto di non aver la forza
di rammaricarsene abbastanza; ma aveva fatto troppi passi sulla via della
gelosia e del disprezzo, perchè nella sua squisita delicatezza morale non
avesse a provare un brivido di rimorso. Il godere del male altrui è già per sè
una specie di complicità. Così amaro è il sapore di certe ragioni, quando
ritornano in gola nei momenti del castigo, che uno si pente di essere stato
troppo logico come di uno scongiuro fatto al destino. Forse questo spiega come
il volgo attribuisca all'astrologo una responsabilità nei mali ch'egli ha il
torto di prevedere e come la sapienza che si vanta d'aver sempre ragione sia
tanto odiata nel mondo.
Riavutosi dal primo colpo, però
colla testa ancora intronata, prese a salire col passo rotto e pesante la
strada del Pioppino, che mai gli si era presentata così ripida.
O povera gente! - andava
rimpiangendo impaurito all'idea dello spavento che doveva recare a Massimo, a
donna Vincenzina e a quelle povere signore del Castelletto.
- O povero figliuolo! -
soggiungeva, correndo col pensiero a immaginare Ezio buttato là su un letto,
colla testa in sangue, forse agonizzante, forse già morto. - O noi imbecilli! -
finì col dire nel suo amaro disgusto, vedendo con quanta facilità gli uomini buttino
via la felicità che la natura mette loro davanti, la giovinezza, la salute, la
pace, la ricchezza, l'amore, l'amicizia, l'aria, il sole, per correre dietro
alle melensaggini d'una fantasia sbrigliata.
Che mancava a Ezio perchè fosse
l'uomo più beato del mondo? non l'ingegno, che fa intendere il valore delle
cose, non la salute che dà la forza di goderle, non i denari che pagano le
spese: non gli mancavano intorno affetti, amicizie, tenerezze, che son la
cornice d'oro, più bella, non di raro, del quadro.
Per poco ch'egli avesse stesa la
mano, il mondo era suo; ma nossignori! nessuno vorrà essere quel che natura lo
fa, ma il desiderio di quel che non si può avere ucciderà sempre la volontà che
non si contenta. Bisognava proprio ch'egli andasse a rompersi il capo per una
baronessa di princisbecco, per un ex cantante di provincia, per una donna
d'altri, nè fresca, nè rugiadosa, anzi discretamente sciupata, e scioccherella.
E pazienza si fosse trattato di amore, di quell'amore che non lascia tempo a
riflettere; ma tutti sappiamo di che cosa son fatti questi pasticci che il
mondo chiama amori di contrabbando e che i romanzieri, che non li assaggiano,
amano spacciare coi colori più falsi della loro immaginazione. Per un grano di
simpatia son due grani di concupiscenza diluita in un secchio d'acqua sporca di
tutte le falsità d'una vita oziosa e senza sapore. Mettici un po' di spirito di
avventura, un pizzico d'amor proprio e di gusto del pericolo e bevi tiepido
senza sete. L'effetto finale è quasi sempre un tedio infinito, la nausea
dell'amore, quando non è l'odio per la donna, un odio che avvelena per sempre
il fondo della vita.
Cresti predicava ancora dentro di
sè, soffermandosi di tratto in tratto a prendere forza come se portasse su un
sacco di malanni, quando si trovò faccia a faccia con Massimo, che era uscito
impaziente per venirgli incontro.
- E così? - chiese paurosamente
l'amico.
- E così... ecco - rispose l'altro
con una voce cupa, presentandogli il telegramma.
Massimo vide tremare le parole
sotto gli occhi e dovette appoggiarsi colla mano al muro per non cadere sulla
strada.
- Bisogna partir subito... -
balbettò costui, quando potò ricuperare un filo di voce.
- Prima bisogna avvertire donna
Vincenzina: non possiamo partire senza di lei.
- Andiamoci insieme - confermò
Massimo colla voce strozzata.
- Mentre io entro in casa a dar
qualche ordine e a prendere un po' di denaro, tu vai a fissare una barca. Ogni
momento è prezioso.
Massimo rimasto solo continuò la
discesa, ma ad ogni passo credeva di precipitare in una buca. Non per questo,
non per assistere a questi dolori aveva attraversato il mare dopo dodici anni
di esilio. Ma non mai come in questo momento aveva sentito che il suo posto era
presso quella donna.
*
* *
Flora dopo una notte dolce e riposata
s'era alzata più presto del solito e, lasciando entrar l'aria nella stanza,
prese a rileggere il principio d'una lettera che da due giorni stava preparando
per Cresti.
Essa gli aveva promesso una
risposta nè poteva ormai tardar più senza tener il povero amico sulle spine. La
riflessione che la vita non è fatta di sogni, la morte delle antiche illusioni,
i consigli della buona Elisa e il desiderio di accontentare la povera mamma
avevano finito col farle parere non soltanto ragionevole, ma una vera fortuna
per lei l'offerta di un uomo che vantava già tanti titoli di gratitudine e di
benevolenza.
Il suo cuore non credeva dunque di
mentire, quando diceva a Cresti in frase alla buona:
«Mi pare, mio buon amico, che io le
abbia sempre voluto bene: e rispondendo sempre alla sua generosa richiesta, non
dovrei che sottolineare questa parola bene, che un nuovo sentimento di
gratitudine rende ancora più sacra. Come posso dubitare della mia felicità se
io avrò ai fianchi una guida così tenera e così prudente? Io ho troppo vissuto
nella nebbia dei vani idealismi, credendo che la vita si potesse fabbricare
nelle nuvole: e ho inutilmente sofferto e fatto inutilmente soffrire, mentre la
vita è cosa vera, più dolorosa che buona, per cui non bastano sempre le forze
del cuore, se non sono confortate dalle ragioni della prudenza. Fidandomi in
Lei, mio vecchio amico, sento che io rientro nel vero e mi colloco nella
migliore condizione per compiere il mio dovere che ho forse troppo confuso fin
qui colla mia volontà».
Rileggendo queste righe, che
contenevano una felice argomentazione, la fanciulla vedeva quasi dissiparsi
l'ultima nebbia d'un dubbio che la tratteneva dal credere troppo alla sua
sincerità.
Non chiedeva più se amava l'uomo
che la cercava in isposa: ma sentiva che il suo dovere era di amarlo e ch'egli
meritava d'essere amato. Forse era un sofisma del suo spirito, che credeva di
risolvere un problema coprendolo con un altro; ma in quest'abbaglio cascano
incoscientemente anche i logici più consumati senz'aver le ragioni secondarie
che potevano scusare la nostra Flora.
Questa, se paragonava quel che era
stata finora a quel che poteva diventare sposando Cresti, la sua stanzuccia dai
mattoni screpolati, alla bella villetta che dalla finestra vedeva biancheggiare
nell'ombra fredda dell'altra riva: se ricordava i giorni delle lunghe tristezze
invernali, quando il gran freddo che scrolla le finestre par che insulti alla
poca legna che langue nel caminetto, doveva riconoscere che l'offerta di Cresti
scendeva sopra di lei come una benedizione.
Un senso di quiete e il
presentimento di una consolazione non priva di orgoglio dilatava il suo cuore.
Forse parlava forte, senza che ella sapesse distinguere questa voce dalle
altre, anche un risentimento contro un destino troppo avaro e crudele e una
certa irritazione di amor proprio offeso, che è sempre nel fondo della tazza in
cui precipita un amore che si guasta. Se altri non l'aveva creduta degna d'una
grazia, ecco il buon Cresti che la invitava a salire i gradini di un trono...
Colla pace dello spirito, col bene compiuto per sè e per gli altri,
coll'adempimento di un dovere reso ormai necessario, era la dignità d'una vita
signorile, senza della quale non intendeva che vi possa essere una grande
elevazione. Non c'è bellezza senza eleganza, non c'è eleganza senza gioia, non
c'è gioia senza dominio. Chi è servo dei propri bisogni non può regnare nemmeno
sopra di sè stesso.
Ogni donna dovrebbe essere regina,
com'è regina la femmina dell'alveare. Ma i tempi snaturati vanno apprestando
troppi doveri rudi e logoranti alle mani delicate delle figlie della terra,
troppo pesanti responsabilità alle tenere spalle, e disseccando le aiuole,
isteriliscono i giardini della vita. Quella malinconica scienza economica che
insegna che si può cavare un bastone anche da un cespo di rose, mette a usura
anche le tenere grazie femminili per cavarne strumenti di lavoro, e trasforma
l'aereo pizzo di Fiandra e di Venezia in un volgare strofinaccio. Questo era lo
spavento di Flora tutte le volte che si affacciava alla porta del suo vuoto
avvenire o che discuteva con sè stessa il rischio di dover guadagnarsi il pane
per sè e per la mamma con un lavoro miseramente mendicato e miseramente
eseguito colle dita fredde e stanche. Non soltanto la lettera di risposta a Cresti
le parve buona e sincera, ma volle levarsi anche le ombre d'un ultimo rimorso
con una serie di interrogazioni, a cui lasciava a lui la responsabilità di
rispondere.
Riprese la penna e continuò: -
«Sarò io capace di farla felice, amico Cresti, o non sono io una ragazza troppo
leggera, svolazzante, rivoluzionaria, intinta un poco di anarchia come i miei
capelli?... (Eran le solite facezie del buon amico del Pioppino).... E non
crederà il mondo che io ceda, più alle lusinghe dell'onore che mi fanno, e meno
a un santo dovere del cuore?...
*
* *
A questo punto Flora si alzò in
preda a una strana agitazione e corse alla finestra a chiudere le persiane
contro il sole che entrava sfolgorante: e in quello stesso punto in un modo che
aveva della veemenza squillarono i campanelli della porta di strada. Stando
dietro le spie delle persiane, potè vedere, senza essere veduta, il Cresti che
s'incontrava con Regina e fermavasi a mostrarle un telegramma e a discorrere
con lei in una maniera concitata, mettendo fuori delle piccole parole, che
afferrava e stringeva in aria colle mani.
Regina una volta si coprì gli occhi
colle mani e corse in casa, mentre il Cresti pareva voler ritornare verso la
porta: ma fatti quattro passi, veniva di nuovo verso la casa per ripetere a Elisa
d'Avanzo il suo gran discorso serrato, pieno di segni che parevano minaccie. Di
lì a poco Regina li raggiunse, precedendo la mamma che aveva un viso slavato, e
che alle prime parole del Cresti si lasciò cadere sulla panchina.
- Che è accaduto, o voi? - domandò
improvvisamente Flora, buttando all'infuori le due persiane, che suonarono come
due colpi di pistola. E tutti trasalirono a quella voce.
- Chi è che sta male? Chi è che è
morto? - Vedendo che non sapevano rispondere, scese a volo. Sulla scala s'incontrò
nella Nunziata, che ebbe a pronunciare confusamente le parole di Ezio, duello,
signora maritata, come le aveva raccolte nella bottega del fornaio.
- Che cosa è stato? un duello? un
duello per causa di quella donna? o grave? dov'è? l'hanno ucciso? -
S'erano radunati nello stretto
corridoio della scala, all'appoggiatoio della quale Flora stava attaccata per
non cadere. Alle troppe domande rispondeva crudelmente l'imbarazzo e il
silenzio dei presenti. Fu il Cresti che uscì finalmente a dire: - Nessuno è morto:
solamente una ferita leggera...
- Il vostro spavento dice di più:
no. Ezio è in pericolo... Datemi quel telegramma che avete ricevuto...
- È inutile: è un duello come se ne
danno tanti, o Dio... - ripetè il Oresti.
- Datemi quel telegramma... - balbettò
la fanciulla con tono oppresso e con un tremito delle labbra, che disegnò sulla
sua bocca un brutto sorriso.
Il Cresti esitava: ma Flora gli si
avventò contro e gridò: - Allora è segno che l'hanno ucciso...
- No, per bacco! ecco qua... è un
caso un po' grave... ma, ma...
Flora, tolto di mano a Cresti il
dispaccio, corse avidamente cogli occhi sulle parole.
- Voi mi condurrete là...
- Dove?
- Là, da lui.
- Questo poi no - oppose con
burbera energia il Cresti.
- Oh, oh... perchè no? - -chiese essa
con voce alterata, in cui suonava un non so che di aggressivo. - Chi è che non
vuole?
- Io... noi tutti... credo... -
rispose l'amico, cercando umilmente l'adesione delle donne. Dove c'è sangue,
non o il posto delle ragazze.
- Certamente - approvò la mamma.
- E chi me lo impedirà se io ci
voglio andare? - strillò con una mossa tragica di tutta la persona, minacciando
coll'occhio corrucciato e con una mano chiusa il povero Cresti, che stava lì
umilmente sicuro del suo pensiero.
- Noi tutti, perchè vogliamo bene a
tutti e due.
- Io non sono più malata.
- Ma egli ha bisogno di pace.
- Ma egli mi chiama... Oh Dio...
non sentite che egli mi chiama? - E come se veramente sentisse una voce venir
da lontano, allibì, stralunò gli occhi, si agitò con una mossa bizzarra e
sconnessa, tanto che Regina ed Elisa se la presero in mezzo per impedire che
fuggisse di casa.
- Andrò senza di voi, prima di voi,
cattive, lasciatemi andare... Non sentite? oh Dio... è proprio la sua voce... -
Andava ripetendo, mentre con risoluta energia le due amiche la tenevano ferma.
Il Cresti si consultò rapidamente colla mamma e credendo far opera di legittima
autorità, con voce grave e paterna: - Oh andiamo, Flora, queste sono
sciocchezze - le disse. - Non è a questo modo che si parla colla mamma...
- Sono nel mio diritto - protestò
la fanciulla delirante.
- Qui non è questione di diritto,
ma di obbedienza, di carità e di buon senso...
- Taccia lei che non c'entra... -
fu l'aspra risposta della fanciulla, che un brutto assalto di nervi buttò come
irrigidita sugli ultimi gradini della scala. Alle parole succedette un rantolo,
quasi un gorgoglìo della voce morente; poi nulla. Il corpo come roba morta fu
portato e disteso sul vecchio canapè.
Il povero Cresti come un uomo
fulminato, stette un istante senza capire: poi al primo risveglio di lei, come
se sentisse il bruciore di un'atroce ferita, se ne fuggì, attraversò il
giardino, che gli parve diventato tutto nero e se ne tornò a Villa Serena, dove
sapeva d'essere aspettato, senza vedere nè la strada, nè le case nè la gente,
che lo guardava con pietosa curiosità.
La voce del grave duello era già
corsa nei paeselli di Mezzegra e di Porlezza, dove Ezio e le sue prodezze erano
abbastanza conosciute. La buona gente, che al di fuori dei propri bisogni non
comprende troppe cose, ne discorreva sugli usci come d'un caso incredibile, non
necessario, che non si osa credere. Ma come avviene delle notizie che corrono,
davano già per certo che il giovane fosse stato ammazzato dal marito con tre
colpi di pistola in una camera presso la pasticceria di Cadenabbia. Si voleva
da alcuni che il feroce marito avesse uccisa anche la donna.
All'oscura emozione che lo
acciecava il povero nostro amico oltraggiato seppe opporre un volere violento,
e un impeto di tanta collera e di tanto orgoglio che vinse ogni altro pensiero
e potè essere di conforto agli amici.
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