XVIII.
Pentimento.
Il Cresti arrivava al Castelletto
ch'era già notte fatta. Di mano in mano che si avvicinava alla casa delle Polony
andava crescendo in lui il dolore della ferita, che durante il giorno e le
scosse della battaglia pareva assopito.
Era partito, anzi fuggito, davanti
a una ruvida domanda: - Che c'entra lei? - e ritornava col puntiglio di
dimostrare che intendeva non entrarci per nulla, nè per il passato nè per
l'avvenire, nè per debiti nè per crediti, e di lasciare a ciascuno la sua
libertà di dire e di fare quel che credeva suo diritto. Era un gran colpo per
un uomo che si era pasciuto di così lunghe speranze: ma è inutile far conto
sopra le nespole che non vogliono maturare nemmeno sulla paglia: c'è da far
stridere i denti e null'altro.
Stava per mettere la mano sul
martello della porta, quando si sentì stringere il braccio. Era Flora, che,
seduta nell'oscurità, aspettava da tre ore che da Lugano arrivasse qualche
notizia. Riconobbe subito il passo dell'amico e infilando il braccio nel suo,
lo accompagnò in casa.
- E così?
- Tutto bene: niente di grave:
umore allegro, ma un assoluto bisogno di quiete e di silenzio. -
Vennero incontro le altre donne col
lume e tutte si rallegrarono delle buone notizie. Flora, un po' più pallida del
solito, si mostrò tuttavia perfettamente tranquilla, guarita e persuasa. Pregò
Cresti di sedere, di riposare, di prendere qualche cosa, almeno un caffè: ma il
signor cavaliere col pretesto che le sue donne l'aspettavano a casa, Dio sa con
quanta ansietà, chiese subito licenza e senza accettare nemmeno un bicchier
d'acqua, si ritirò da una casa in cui non aveva, a parer suo, più alcun diritto
di entrare.
Non era una vendetta, ma una
legittima difesa. Promise di mandare altre notizie di mano in mano che
arrivassero, e augurando la buona notte a tutti, senza guardare in viso a
nessuno, ritrovò al buio la strada del Pioppino, e rientrò nella sua solitudine,
dopo una lunga e perfida giornata, come un capitano, che dopo una tremenda
disfatta, pianta le tende in qualche luogo sicuro. La stanchezza fisica gli
procacciò subito un tal sonno che potè dormire tutta la notte.
Dormiva ancora, quando l'Angiolina
gli portò il caffè in camera la mattina verso le sette.
Insieme al caffè sul vassoio c'era
una lettera che un ragazzo aveva portato poco prima... una lettera di Flora.
Ne riconobbe subito la scrittura
larga ed energica sulla busta di carta verde: ma non osò aprirla subito.
Dopo che ebbe lentamente
sorseggiato il suo caffè amaro, alzando la voce come se parlasse a qualcuno un
po' sordo, disse: - Eccomi a lei, signorina. Immagino quel che mi deve dire. -
Immaginava: ma le sue mani secche
ed abbrustolite dal sole tremavano tanto nel toccar la lettera, che dovette
aspettare che passasse anche questa morbosità. Passò lentamente: tornò la
ragione e poichè quando un dente fa male, è meglio strapparlo se non c'è altro
rimedio, con una curiosità coraggiosa corse cogli occhi sulla lettera e
vide.... ch'erano due, l'una nell'altra: e quest'altra non era finita, ossia
finiva con dei punti sospensivi come se fosse stata bruscamente interrotta.
Nella letterina accompagnatoria la
contessina Polony diceva:
«Caro Cresti, mi dicono che
stamattina io ho pronunciato parole dure e scortesi contro il migliore de' miei
amici: e devo pur credere, perchè non posso dubitare de' testimoni. Ma io non
ho coscienza di nulla, glielo giuro, mio buon amico. Quando mi hanno richiamata
ai sensi, tornai in me stessa come chi si sveglia da un sogno grave e
fastidioso, di cui conserva l'impressione e lo spavento, ma non ricorda più i
particolari. Flora, sveglia nella sua coscienza, non avrebbe mai osato dire una
parola cattiva al suo buon Cresti, all'amico di casa, al benefattore, proprio
in un momento in cui stava scrivendo la lettera che chiudo in questa. Non è
tutta la risposta che le dovevo e non trovo opportuno questo momento per darla:
forse nemmeno lei la vorrebbe da me in queste condizioni: ma glie la mando come
un documento per dimostrarle, mio tenero amico, che se una parola cattiva è
uscita da questa bocca, non è Flora che l'ha detta, ma una febbre o una
suggestione misteriosa, che mi tolse ogni responsabilità. Non saprei spiegar tutto
adesso; ma certamente io ho attraversata un'ora pericolosa della mia vita, come
la Sonnambula del dramma, che a fosco cielo e a notte bruna, scende per
il ponticello del molino.
«Amico, benefattore mio, cancelli
quell'ora dalla sua memoria e mi renda tutta intera la sua cara amicizia. Se mi
abbandonano i migliori, che potrò fare sola nel mondo, forse in balìa di
cattivi spiriti? Ora mi par di star bene. Il cuore è tranquillo e non desidera
che pace. Gliela offro e gliela chiedo con umiltà; abbia compassione di questa
povera rivoluzionaria».
*
* *
Cresti lesse due volte questa
lettera: rilesse tre volte l'altra: le mescolò per leggerle insieme, commentò
l'una coll'altra, traendo da tutte due la convinzione che Flora era sincera,
che il passato non era tutto morto in lei, ma che non aveva più ragione di
vivere, che bisognava veramente aver compassione di lei, volerle bene,
aiutarla, aspettare che il frutto maturasse da sè. Nè Ezio, in qualunque modo
la brutta storia andasse a finire, poteva risorgere per Flora, nè questa nel
suo orgoglio poteva rassegnarsi a raccogliere le briciole di una scandalosa
cronaca. Se il giovinotto usciva dell'avventura colla testa accomodata, più di
prima l'avrebbe legato a quella donna un sentimento di solidarietà, che è quasi
sempre castigo degli amanti. Messa alla porta dal marito, non restava ad
Ersilia Baracchi altro rifugio che la fedeltà dell'amico che l'aveva
compromessa. Per quanto ingenua e inesperta delle cose della vita, Flora aveva
troppo ingegno, per non sentire, a cuore riposato, la forza di questa ragione
ed era naturale che il buon Cresti, il povero Cresti, il vecchio ortolano del
Pioppino, con tutti i suoi difetti, con tutte le sue stravaganze dovesse parere
un miracolo di rettitudine in confronto di questi grossi fallimenti e di queste
avarie morali. C'era dunque a sperare che il senso logico la vincesse sopra le
irragionevolezze della fantasia, cioè che Flora in compenso di quella pace che
invocava con tanta umiltà, avesse a offrire forse con orgoglio il suo amore.
L'uomo dubbioso e timoroso stette a
lungo nel tepore delle coltri a contemplare e a covare il suo sogno, procurando
di sceverare quel che di più sincero poteva essere nel sentimento di Flora da
quel che vi poteva introdurre il dispetto, l'interesse, la necessità, la
debolezza della donna; e finì col concludere che il mondo è di chi se lo
conquista: che invalido capitano è colui, che potendo occupare una buona
posizione mentre il nemico dorme, aspetta che il nemico si svegli: che poichè
Flora invocava da lui pace e perdono, sarebbe stata una vana crudeltà
rispondere con dei puntigli e con delle musonerie.
Saltò dal letto, e fatta una
toeletta sommaria sedette a preparare un bollettino di guerra; ma ebbe un
grande arzigogolare colla penna prima di infilare una parola. Provò due o tre
fogli con frasi che gli parevano sempre troppo banali per sonar bene nel
grandioso proclama che doveva riassumere le speranze, i sospiri, le ansie, i
tremiti, le aspirazioni e le vertigini della sua vita. Finalmente decise di pigliar
la strada più corta che non è sempre la più faticosa. Levata da una scatola una
carta da visita, la completò così:
BENIAMINO CRESTI
avverte la rivoluzionaria che verrà
stamattina a far colazione al Castelletto. Al melone ci pensa lui.
*
* *
Qualche giorno dopo corse la voce
che la signorina del Castelletto avrebbe sposato il cavallier Cresti del
Pioppino. Le nozze si sarebbero fatte, nulla intervenendo in contrario, ai
primi di ottobre, e la luna di miele gli sposi l'avrebbero passata al Ravellino,
trasformato in villa Flora.
Per quanto prevista, la notizia
piacque a tutti e diede motivo a Bortolo di dire: - Oh, oh! l'anguilla trovò il
pescatore. -
FINE DELLA PARTE PRIMA.
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