II.
Nelle tenebre.
La giornata era stata caldissima
anche per i prigionieri di Villa Elvetica, che tra ansie e speranze e con una
pazienza da santi avevano potuto persuadere Ezio a rimanere a letto tutti gli
otto giorni trascorsi dopo il loro arrivo; otto giorni ch'eran parsi otto
secoli.
Il giovine, che si sentiva abbruciare
nella sua cameruccia, protestava di continuo di non voler più rimanere col capo
fasciato nel ghiaccio, al buio come un uccello di muda, tuffato nell'aceto, nel
cloroformio, nell'acido fenico; e non ci voleva che l'autorità scientifica del
medico e forse un resto di buon senso, ancor vivo nel malato per trattenere il
giovine da un atto di follia.
Il caldo portò anche a lui una
grande stanchezza e quel giorno aveva dormito a lungo d'un sonno tranquillo;
talchè Massimo persuase don Andreino a prendere mezza giornata di svago e a
scendere in città.
Il povero Lolò era stato per
l'amico, il più devoto e il più paziente degli infermieri. Una suora di carità
non avrebbe potuto sacrificarsi di più. Di notte dormiva presso la soglia in un
lettuccio, pronto ad ogni chiamata: di giorno, tranne l'ora dei pasti e della
toeletta, non si allontanava mai dall'infermo. Libero del suo tempo, don
Andreino era persuaso che non avrebbe potuto impiegarlo meglio che in
quest'opera doverosa di carità e di amicizia: ma era un mistero anche per lui
dove attingesse la forza fisica per resistere agli strapazzi e alle
inquietudini del più insofferente degli infermi.
Quel giorno, una domenica, accettò
volentieri il suo congedo e scese in città in un perfetto vestito tutto bianco,
che era in piena armonia coi trentadue gradi di caldo che infocavano le strade
e le case.
Massimo e Vincenzina rimasero soli
a pranzo. Questo fu servito in un salottino che dava sulla vista del lago e
rimasti soli, dopo il caffè, i due vecchi innamorati si trovarono immersi nelle
vecchie memorie prima che avessero il tempo di guardarsene: e discorrendo, i
loro spiriti continuavano ad avvicinarsi con quel senso di curiosa trepidazione
con cui si ripassa da un luogo ove si è corso un mortale pericolo.
- Forse facciamo male a rimescolare
queste foglie secche, Vincenzina: ma c'è un punto enigmatico in questo nostro
passato che non so ancora a quale dei due abbia fatto più torto.
- Dite quale.
- Perchè non avete resistito di più
a vostro padre il giorno che vi obbligò a rompere la vostra fede? perchè non mi
avete scritto che volevano far violenza al vostro cuore? Sarei accorso, vi
avrei aiutato in qualche modo. Forse non avreste sposato un uomo ricco....
- Cattivo! - interruppe essa,
guardandolo con aria di rimprovero. - Perchè dite queste cose?
- Perchè ora le possiamo dire senza
soffrire, come si raccontano le storie dell'Antico Testamento. Io non avrei
potuto offrirvi una grande protezione, ma si sarebbe combattuto insieme.
- Questo non era possibile.
- Ecco quel che mi ha fatto più
soffrire. Voi non avete avuto abbastanza fede in me.
- No, Massimo; tra me e voi... ma
perchè volete farmi parlare? che giova risuscitare queste cose morte? io non ho
potuto non sposare vostro fratello, ecco tutto: così ha voluto mio padre.
- Vostro padre avrà avuto dei
torti, ma non fu mai un tiranno. Amabile egoista, questo sì, ma non tiranno.
- Amabile egoista - avete trovata
la giusta definizione; ma egli ha sbagliato e io ho pagato, ecco tutto. Perchè
volete farmi parlare di più?
- Perchè vorrei persuadere me
stesso che non sono stato troppo vile e che non ho meritato il mio castigo.
- Chi fu più castigato di noi due,
Massimo? - chiese donna Vincenzina, sollevando i suoi grandi occhi umidi.
Egli pure respingendo una leggera
onda di tristezza, che minacciava di travolgerlo: - Sta bene - disse - siamo
stati castigati entrambi: ma perchè mantenere fra noi due un mistero? non
sarebbe più bello che i nostri cuori si vedessero innocenti anche a traverso
alla nostra sventura? perchè volete ch'io dubiti fino alla morte ora di me, ora
di voi? Se i morti hanno avuto dei torti, a noi non manca ora la pazienza di
perdonarli.
Donna Vincenzina esitò ancora un
istante come se finisse di consultare il suo cuore: poi riprese:
- Ci son delle ragioni sacre che
comandano il silenzio... -
- Se credete che io non meriti
ancora la vostra confidenza... -
Ma essa lo interruppe di nuovo per
dirgli: - Devo accusare il mio povero babbo, capite? Che valore avrebbe il mio
sacrificio se io lo facessi scontare a un povero morto a prezzo di vergogna? Se
ho creduto utile di tacere, quando ero più giovine, quando ero bella, quando
avevo qualche diritto di ribellarmi al mio destino, come potrei ora pentirmi
del bene che ho fatto, senza commettere quasi un delitto? Ma voi oggi non siete
più semplicemente un amico di casa; troppo ho bisogno della vostra assistenza e
della vostra stima perchè non abbia a considerarvi quasi come un mio fratello,
a cui posso e devo consegnare le carte più preziose e i segreti più gelosi
della mia vita. Se voi dovete far da padre a Ezio, se i nostri rapporti devono
continuare nell'avvenire, è bene che non vi siano diffidenze, sospetti,
recriminazioni tra noi. Solamente a questo patto credo di poter rompere un
segreto che doveva morire con me. Mi sarete poi grato di questo sacrificio che
vi faccio? e promettete che morirà con voi la confidenza che dopo dodici anni
mi tolgo per la prima volta dal cuore? e che non me ne parlerete più? e che
sarete più buono e più savio con me? Quel che io sto per dire a voi, non è
conosciuto nemmeno da mia sorella, che ha creduto ad altre apparenze.
- E allora, mia cara... - disse il
vecchio amico come se volesse rinunciare a questo privilegio; ma o egli non
ebbe abbastanza prontezza per resistere alla sua curiosità o essa non ebbe
abbastanza forza per respingere il suo bisogno di parlare.
- Voi vi ricordate, Massimo, che
nostro padre era impiegato alla Tesoreria provinciale, in un posto di fiducia -
riprese a dire frettolosamente senza mai levare gli occhi da terra. - Quando
cominciò a sentire le strettezze del vivere, non volendo nella sua bontà, che
alle sue figliuole avesse a mancare nulla, bisognoso egli stesso di vivere
bene, troppo incosciente dei pericoli e delle responsabilità a cui andava
incontro, il pover'uomo ebbe in più riprese ad abusare della fiducia de' suoi
superiori: e una volta non potè rifondere una riserva di cassa. Fu una volta
sola per una somma non troppo grande: ma fu scoperto. Egli aveva anche dei
nemici: immaginate. Era il disonore, la rovina, un processo, la prigionia. Il
suo capo l'aveva già denunciato al procuratore del Re, che era allora vostro
fratello, Camillo Bagliani, e fu sotto il terrore di questa minaccia che il
povero babbo.... Dio, che giorni!... mi prese in disparte e fece a me sola, la
sua cara Vincenzina, la confessione del suo peccato. Piangendo, strappandosi i
capelli, mi pregò di aiutarlo, di salvarlo... Come potevo fare? - Donna
Vincenzina si arrestò un momento: poi seguitò, cercando di uscir più presto
dalle spine di quel racconto: - Gli proposi di andar insieme dal procuratore
del Re. Mi gettai a' suoi piedi e lo pregai con tutte le mie lagrime; anche in
nome vostro, Massimo, di non far male al mio povero papà. L'austero magistrato
parve commosso e promise che avrebbe fatto in modo che il deposito di riserva
fosse immediatamente restituito per rendere regolare il rendiconto mensile: e
anticipò del suo la somma. Non mancava che di arrestare l'istruttoria del
processo: e anche in questo giovò l'opera di un uomo così autorevole. Una sera
venne egli stesso in casa nostra a promettere il suo valido appoggio, ma poi...
(qui la voce di Vincenzina tremò) pose una condizione ch'io non ho potuto
rifiutare. Ecco perchè ho sposato vostro fratello. Era il minor male che potessi
fare in quel momento... -
Con voce umile e fredda troncò
quasi improvvisamente una confessione, che stentatamente aveva dovuto cavare
dal cuore, sulla quale era corsa colle parole come se volesse abbreviare a sè e
a chi l'ascoltava un inutile martirio. Con un sorriso d'indulgenza stese la
mano a Massimo, che rimase inerte come un uomo che sia stato mortalmente ferito
in qualche parte del corpo e resta un istante in piedi in attesa che la morte
lo faccia stramazzare.
Non era difficile intendere che
Camillo aveva contrattata vita per vita. Affascinato dalla molle e tenera
bellezza di Vincenzina, che il destino gli aveva condotto ai piedi, uso, come
tutti i forti, a creder suo tutto quanto cadeva nel dominio del suo egoismo,
stese la mano sul bene di un fratello povero e ramingo: e se ne impadronì...
ossia lo comperò col denaro che servì a coprire un furto.
Massimo, che ora si pentiva d'aver
troppo voluto conoscere, dopo aver fatto forza sopra sè stesso, tirò una sedia
accanto a quella di lei, sedette, cercò timidamente una sua mano ch'ella non
gli seppe rifiutare, e parlandole con voce dimessa e carezzevole, le disse: -
voi siete una santa.
- No, no, Massimo, protestò essa,
ridendo, mentre le lagrime, a stento trattenute, scendevano a inondarle il
viso.
- Sì, e io sono un piccolo cuore
avaro e permaloso. Sento però quanto sia stato più doloroso per voi alzar la
pietra di queste memorie sepolte: è un sacrificio di cui vi sarò sempre
riconoscente, Vincenzina. Se io pronunciassi davanti a voi, così buona e così
santa, una parola di rancore, non sarei degno di voi. Mi vergogno di non aver
saputo trovare da me la ragione che ha ispirata e sostenuto il vostro
sacrificio e di aver guardato più al mio che al vostro dolore. Aiutatemi a
esser buono: devo dimenticare chi mi ha fatto un così grave male.
- Io credevo già di tenerlo il
vostro perdono.
- Non a voi devo perdonare, capite:
voi siete sempre per me un raggio luminoso.
- Ora mi fate la corte, Massimo -
interruppe essa ridendo.
- Dite più semplicemente che vi amo
ancora, oggi, coi capelli quasi bianchi come vi ho amata dodici anni fa. Forse
che vi offende di sentirvelo dire?
- Perchè dovrei offendermi, caro
Massimo? - si lasciò condurre a dire donna Vincenzina, in cui quelle dolci
dichiarazioni schiudevano le misteriose fonti della tenerezza. - Come potrei
non rallegrarmi di essere stata per voi qualche cosa di buono? anche voi lo
foste per me. Non posso dire che il vostro pensiero mi abbia aiutata a compiere
meglio quel difficile dovere che mi ero imposto: forse è più giusto che vi dica
che ho fatto di tutto per dimenticarvi, per cacciarvi via come il diavolo e non
ci son sempre riuscita, pare... -
Massimo si rallegrò di sentirsi
paragonato al diavolo e stava per portare la mano piccola e morbida di lei alle
labbra, quando risuonò nella quiete dell'aria, e precisamente dal lato dov'era
la stanza del malato, un grido straziante, che parve la voce di Ezio.
Trasalirono entrambi, si mossero
con quello spavento che si può immaginare e accorsero verso la stanza. Massimo
arrivò primo, spinse l'uscio e trovò il malato in piedi semivestito, presso la
finestra aperta. S'era levato le bende e le fasciature e stava così a capo nudo
e raso, girando gli occhi nel vano, in cui agitava le mani.
- Cosa fai Ezio? sei impazzito?
stare con quest'aria, in questa luce, mezzo nudo, nel tuo stato di debolezza?
- Vuoi sentirne una bella, zio
Massimo? - cominciò a dire il giovane, sforzandosi di giocare d'ironia contro
un mortale accasciamento. Vuoi vedere che son rimasto orbo come un fringuello?
- Cosa ti passa per la mente? torna
in letto, sii buono.
- Orbo ti dico, se è vero che
questa è una finestra aperta e non un armadio: orbo, se è vero che quest'aria
calda vien dal giardino e non dalla bocca di un forno; orbo, se è vero che il
mio naso sente un gran profumo di fiori e di piante resinose, mentre io non
vedo una saetta. Avete un bell'ingannarmi, ma son tre giorni che nutro questo
sospetto. Era troppo il buio, qua dentro. Non bastavano le imposte chiuse, le
fasciature, le vostre ciarle, le fanfaluche della Russia a fare questo buio
maledetto... Oh, oh: questa è la finestra aperta, queste sono le frasche della
glicina: questo è l'odore del pino e dell'erba tagliata. Il naso c'è, zio
Massimo, ma io non ci vedo un accidente, nulla vedo, come se fossi chiuso nella
scatola d'un cappello. Che il barone mi abbia portato via gli occhi? -
Sentendo a questo punto entrare
donna Vincenzina, drappeggiandosi alla meglio nelle coltri, che trascinava come
un paludamento, le disse: - Guarda un po', madrina, quel che hanno fatto de'
miei occhi. Se io ci avessi qui due capocchie, ci vedrei di più!
- Che cosa dici, figliuolo? i tuoi
occhi son belli e sani come prima.
- Sani e belli, ma io non ci vedo.
Vi giuro che non ci vedo - ripetè con più voce, alzando le braccia e
brancicando nello spazio per afferrarsi alle cose. - Chiamate subito
quell'animale di dottore che mi ha rovinato. Altro che guarigione: questa è la
cassa da morto inchiodata e ribadita.
- Non dir così. Sarà lo stato di
debolezza - disse lo zio.
- O il molto sangue perduto -
aggiunse affannosamente la mamma.
- O uno scherzo della polvere da
fuoco... commentò il giovane con acre ironia.
- E se ti rimettessi in letto?
- C'è Andreino?
- È uscito, non può tardar molto.
- Bene, non ditegli nulla. Chiudete
ermeticamente la finestra in modo che non entri il minimo filo di luce e
lasciate parlare a me: - Dreino, Lolò, dove sei tu? - cantarellò mentre cercava
di raggiungere a tentoni il letto, annaspando come se giocasse a mosca cieca.
Quando, aiutato dallo zio, sentì il
molle delle coltri, vi si rannicchiò, mentre Andreino entrava nella stanza.
Ezio sentì il suo passo prima che
gli altri avessero il tempo di parlargli: - Dreino, vien qua: fa chiudere bene
quella benedetta finestra. Mi è caduta la benda e ogni po' di luce mi abbaglia
la vista. -
Andreino in buona fede corse a
chiudere le imposte. - Più ancora, più ancora: non sto bene che nel buio.
Chiudete anche l'uscio... - E quando sentì che tutto era sbarrato come una
prigione, stese la mano all'astuccio dei zolfanelli, che stavano sul tavolino,
e strofinando un cerino se lo tenne acceso davanti agli occhi come una candela,
finchè non sentì la fiamma attaccargli la punta delle dita.
Fu un mezzo minuto di triste
silenzio nella camera, mentre la fiamma rischiarava il volto dell'infermo,
pallido, irrigidito nei tratti, in cui gli occhi fissi in una vitrea immobilità
parevano aver perduta l'anima.
- Buona notte, sonatori: sono orbo!
- e lasciò cadere pesantemente sul cuscino la testa che rimase come un pezzo di
marmo.
- Tu ti spaventi per nulla,
figliuolo.
- Ora sentiremo il medico.
- È un effetto della debolezza
- Sarà una paralisi momentanea. -
Così si affrettavano or l'uno or
l'altro a consolarlo; ma Ezio, cantarellando sulle parole, respingeva le loro
consolazioni con una insistenza disperata che stringeva il cuore.
- Vi dico che non c'è più stoppino.
La palla del barone deve avere scassinato il meccanismo della luce elettrica e
le cure di quel moscovita avranno fatto il resto.
- Dammi una sigaretta, Dreino! che
bella sorpresa, Giovannino, restar orbo a ventiquattro anni! -
Scherzava coll'umore ferito,
resistendo con ferocia di anima all'assalto della nera disperazione che lo
ghermiva, come un superbo, che, vinto e conculcato dal nemico potente, lo
oltraggia sogghignandogli in faccia.
Donna Vincenzina, sentendosi venir
meno, si aggrappò alla sponda del letto e s'inginocchiò per soffocare contro la
coltre un doloroso singulto. Massimo perdette un istante il senso delle cose,
preso da una vertigine come se precipitasse da una torre. Soltanto Andreino
Lulli fu calmo e ragionevole. Colla voce naturale e convinta disse: - Il medico
ha già preveduto questo caso in seguito alla forte emorragia: non per nulla ti
raccomandava la quiete, il silenzio e la perfetta oscurità: ma assicura che col
rinnovarsi dei globuli rossi e col ritornare delle forze, tutto scomparirà come
nebbia al sole. -
Don Andreino non aveva mai detto
tante bugie, ma le disse così bene e con tanta naturalezza che i cuori si
confortarono.
- E allora mandalo a chiamare
questo fabbricatore di globuli rossi - disse Ezio, ricuperando un poco di
quella speranza che galleggia sempre anche in mezzo alle più fiere tempeste.
Nelle parole dell'amico egli aveva sentito abbastanza di quel verosimile, che
in cento casi tiene il posto del vero, e quasi lo tien meglio.
*
* *
Seguirono tristissimi giorni. Il
medico, che aveva fama di uomo dotto, colpito dalla novità del fenomeno
patologico, non osò pronunciare un giudizio. Il proiettile non era penetrato nel
cranio, non aveva attraversato le cavità orbitali e quindi non poteva aver
occasionata l'atrofia assoluta dei nervi ottici e prodotta l'abolizione totale
della vista. Continuando nella cura del ghiaccio sulla fronte e nella quiete
somma del soggetto, che pietosamente persuase ad aver fede nella parola della
scienza, egli rimise un definitivo pronostico al giorno, in cui fosse sembrato
utile alla famiglia di interrogare un consulente specialista. Subito fu fatto
il nome del celebre dottor Dantelli di Torino, che il Cresti aveva conosciuto
all'Università. Si scrisse subito a costui che venisse a Lugano, mentre
Andreino telegrafava poche parole al Bersi. Arrivarono quasi insieme col cuore
pieno di paurosi sospetti e si tenne una specie di consiglio di famiglia. Che
si doveva fare? Cresti era partito senza dir nulla alle donne del Castelletto.
Aveva lasciato solamente due righe per giustificare una momentanea assenza.
Il Bersi si offrì di partir per
Torino con una lettera di Cresti per il dottor Dantelli, che avrebbe cercato di
ricondurre con sè, non parendo il caso di perder tempo, sia per riparare subito
al male se il male era riparabile, sia per recare al più presto a Ezio il
conforto di una parola autorevole prima che la disperazione andasse alla testa
del povero figliuolo.
Le cose furono così ben condotte,
che in men di ventiquattro ore dopo, il dotto specialista, ornamento
dell'Ateneo torinese, scendeva alla villa. Era un uomo di apparenza ancor
giovane, dalla barba brizzolata, dal viso pallido, dall'aria pensosa e modesta
degli uomini, che sanno quanto scarso sia il potere umano davanti alla
grandezza smisurata dei mali.
In presenza dell'infermo la nuova
diagnosi non si allontanò di molto da quella del dottor russo; il fenomeno si
poteva interpretare come una interruzione momentanea dell'azione visiva
prodotta da coaguli sanguigni. La quiete, la cura ricostituente e la fiducia
nelle buone forze della natura dovevano confortare il malato a sperar bene; ma
nel venir via in carrozza con Bersi, Cresti e Andreino, il dotto clinico non
nascose qualche paura che il male potesse essere irreparabile.
- Cioè... cioè?... - esclamarono in
coro con un senso di raccapriccio gli amici.
- Cioè ch'egli resti cieco per
sempre.
- Cieco per sempre? a ventiquattro
anni? - ripetè il povero Cresti con una voce fuggevole, in cui tremava la
compassione.
- Il proiettile, passando sopra la
cavità orbitale dell'occhio sinistro, ha offeso i vasi neuro-retinici e
occasionato un gran disturbo di circuito. L'occhio destro è rimasto illeso; ma
la cecità di questo può dipendere da quella che in gorgo medico si dice
compiacenza simpatica o da un travaso di sangue che una diligente cura
antisepsi potrebbe - chi sa? - far scomparire. Non escludo assolutamente che vi
possa essere in giuoco una morbosità nervosa dipendente dalla eccezionale
eccitabilità del soggetto: ma ad ogni modo, se gli volete bene, dovete far di
tutto per prepararlo al peggio...
- Ezio - disse il Bersi, mordendosi
le unghie - non è un ragazzo che possa rassegnarsi a una condanna di questa
natura.
- Il meno che farà - aggiunse don
Andreino - sarà di tirarsi un colpo di pistola nella testa.
- Io farei lo stesso - completò il
misantropo del Pioppino.
- È religioso il vostro amico? -
chiese il dottore.
Gli altri si guardarono in viso per
chiedersi a vicenda una risposta di cui sentivano tutta la gravità. Ezio era
religioso sì e no, come lo sono un po' tutti i giovani a seconda del tempo che
fa. Andava a messa in campagna per non scandalizzare la povera gente e per non
perdere l'amicizia dell'arciprete; ma, figlio di un razionalista ed educato
alla scuola del lieto vivere, non si era mai posto probabilmente davanti il
problema filosofico di una fede in qualche cosa di superiore,
- Io ho sempre visto - continuò
colla, sua parola facile e serena il dottore - che dove non arriva la nostra
scienza, arriva la religione. Tutti i giorni assisto a spettacoli edificanti di
pazienza e di sacrificio in gente rozza, primitiva, in poveri contadini, in
povere fantesche che perdono quasi senza piangere la vista degli occhi, perchè
son sicuri di veder sempre qualche cosa ancora al di là delle tenebre. Voi,
amici suoi, non dovete abbandonarlo, ma far appello a tutte le forze più nobili
ed elevate del suo cuore: dovrete offrirgli la parte migliore di voi,
prestargli la vostra fede, se ne avete.
- Se ne avete... - brontolò il
Cresti, saltando per il primo dalla carrozza, mentre arrivavano sul piazzale
della stazione. Dopo aver accompagnato il dottore fino al vagone, ritornarono a
piedi alla villa, discorrendo malinconicamente di questa tremenda disgrazia,
che nessuno sapeva augurare a sè senza provare un brivido di morte. Chi doveva
dare a Ezio la tremenda notizia? e conveniva mantenere i parenti
nell'illusione? e se la pazienza e la rassegnazione fossero mancate
all'infermo?
Il Cresti per parte sua si
domandava che cosa avrebbe dovuto dire alle donne del Castelletto e come
avrebbe intesa questa notizia Flora. Non volendo scrivere, partì lo stesso
giorno, in compagnia del Bersi. Entrambi sentivano quasi una smania nelle gambe
di essere cento miglia lontani. Che catastrofe! che castigo! che disgrazia per
la povera donna Vincenzina e anche per il povero Massimo, ch'era venuto
dall'America apposta per assistere a queste torture!
Il solo Andreino,detto Lolò, rimase
fedele a quel dovere di amicizia che si era imposto. Fuggire in quel momento
gli sarebbe parsa una impolitesse anche rispetto a donna Vincenzina: ma
non rimase su un letto di rose. Il malato, passato il primo istante di
confidenza, ricadde in un abbattimento morale peggiore di prima, che fece
saltar fuori qualche brivido di febbre. Tre dì e tre notti rimase così
rovesciato sul letto senza parlare, senza gemere, come se la morte l'avesse già
toccato colle sue mani di ghiaccio.
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