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Emilio De Marchi
Col fuoco non si scherza

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  • PARTE SECONDA.
    • III   Una scappata
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III

 

Una scappata

 

Per quanto il Cresti nascondesse a Flora la tristissima notizia, non fu difficile alla fanciulla di leggere sulla sua faccia e di capire dalle sue risposte imbarazzate e incoerenti che le cose a Villa Elvetica non erano così liscie come si voleva far credere. Anche la mamma aveva silenzi e reticenze piene di tristezze. Regina, che per mezzo di Amedeo era in grado di raccogliere le voci correnti, pareva imbarazzata a rispondere e lasciava morire freddamente il discorso. Flora capì che volevano nasconderle una brutta verità, ma non osò chiedere quel che non si voleva dire. Colse invece l'occasione d'una sua visita a Villa Serena e interrogò con abilità la vecchia Bernarda. Ma la donna non seppe dire se non che da Lugano avevan chiesto molta biancheria, che il signor Ezio aveva la febbre, che era stato chiamato un dottore famoso da Torino... e che intanto non si parlava di tornare.

La partenza di Elisa D'Avanzo le fece sentire ancor di più la solitudine e la tristezza del Castelletto, dove pesava continuamente un'aria di mistero. La stessa Nunziata andava ripetendo che essa non sapeva nulla; ma lo diceva in un modo così spaventato, povera donna, che faceva pensare alle più orribili cose. Flora cominciò a non dormire la notte. Era evidente che intorno a lei s'era fatto congiura di tacere: segno che Ezio correva un brutto quarto d'ora. Se non ci fosse stato nulla di male, perchè tanti misteri? perchè la mamma aveva così spesso gli occhi rossi? perchè non le lasciavano leggere le lettere che arrivavano da Lugano?

Il non dormire la notte accrebbe questo stato di vane apprensioni. Ezio poteva essere stato ucciso, ma Ezio era pur sempre vivo nel suo cuore. Il non poter parlare di lui colla gente non impediva che essa non ne parlasse con stessa; a poco a poco divenne questo il suo pensiero dominante, come una luce fissa accesa nel mezzo d'una grande oscurità.

Di notte balzava a sedere sul letto scossa ancora da quella voce che l'aveva chiamata la prima volta ch'era arrivato il doloroso telegramma, una voce lamentevole, ma chiara, che chiamava: - Flora... Flora. - Al punto che essa scendeva fino all'uscio e stava a sentire, se mai fosse la mamma che la chiamasse così.

Se avesse pregato che la conducessero per carità a vedere l'infermo, non poteva aspettarsi che una risposta. - A che pro? e con qual pretesto? - avrebbero detto: - Ezio aveva bisogno di quiete. Dacchè essa apparteneva a un altro uomo, meno ancora di prima poteva invocare le ragioni dell'amicizia e dell'umanità. a chiedere quel che le sarebbe stato crudelmente negato si rassegnava più il suo orgoglio, che si sentiva già prigioniero e quasi incatenato dalle meschine convenzioni: e allora si domandò se non poteva andar senza permesso. Il viaggio non era lungo. Partendo la mattina, essa poteva essere di ritorno la sera stessa. Non aveva nulla a recare, nulla a chiedere, ma voleva soltanto vedere la verità, quella verità che fa tanto più paura quanto più si presenta vestita in panni non suoi.

Fece un breve studio sull'orario delle corse e vide che, partendo la mattina col battello delle sei da Cadenabbia, poteva essere a Lugano per le nove e di ritorno al Castelletto sull'imbrunire. Prese con una valigietta in cui pose un libro, un pezzo di pane e una tavoletta di cioccolata, ma si accorse di non aver denaro: volle chiederlo alla mamma. Scrisse un biglietto a Regina in cui la pregava di recarsi subito al Castelletto: «Dirai alla mamma che son partita per Lugano, ma tornerò stasera. Non stia in cattivi pensieri per me».

Uscì di casa poco prima delle cinque, mentre era ancora tutto quieto alla riva e nello strade, e si avviò verso Cadenabbia.

Quando fu davanti al fornaio, su cui aveva già fatto i suoi conti, entrò nella bottega e chiese in prestito al padrone dieci lire in piccoli biglietti.

- Dove va a quest'ora fresca, contessina? - chiese il padrone.

- Vado su verso Menaggio per alcune compere... C'è qui un ragazzo che voglia portare questo biglietto subito alla Regina di Bortolo?

- Ci deve andare per il pane. -

Camminando lesta, fu a Cadenabbia prima dell'approdo del battello. A Menaggio trovò pronto il treno e montò in un vagoncino di terza classe, dove non c'erano che tre o quattro guardie di finanza.

Si rincantucciò, si raccolse e per tutto il tempo che il treno sbuffò su per le rampe del monte, non tolse mai gli occhi dallo specchio fermo del lago, che si dilatava a' suoi piedi. La mattina era nitida, ma prometteva una giornata calda e senz'aria.

A Porlezza discese dal treno e risalì sul battello, prendendo posto fra le ceste e i colli che ingombravano la punta di prua. Fatti i conti, s'era accorta che le dieci lire erano scarse per viaggiare in prima classe: c'era quasi pericolo di non averne abbastanza per il ritorno. Ma a questo avrebbe provveduto la zia Vincenzina. Vicino a lei sedevano altre donne coi canestri sui ginocchi, si radunavano operai e pescatori, chiocciavano le galline nelle gabbie, i discorsi comuni della gente si mescolavano ai comandi del capitano e alle voci dei battellieri che gridavano le stazioni.

Seduta su di un fascio di grosse corde, sotto il suo cappelluccio schiacciato sulla testa colle tese rovesciate per assicurarlo contro il vento, Flora, sorpresa di sentirsi così tranquilla e convinta, come se andasse a compiere un dovere naturale, fissava il punto lontano dalla sua meta, affrettando col desiderio il momento d'arrivare. - La mamma - pensava - riceverà il mio biglietto prima di alzarsi. Stasera mi sgriderà, naturalmente, ma poi mi perdonerà. Perchè io sola non devo sapere quello che tutti sanno? Quando vedrò che l'opera mia è inutile, tornerò a casa, non ci penserò più, sposerò Cresti, farò tutto quello che vorranno. -

Pensare non è la parola precisa. Era piuttosto un passar rapido di immagini, d'impulsi, di sgomenti, di riflessioni, che viaggiavano con lei, ma di cui essa non era padrona.

Giunta a Lugano, quando fu dalla folla sospinta fin quasi nel mezzo della piazza del mercato, chiese a una fruttaiola la strada per andare a villa Elvetica.

La donna non aveva mai sentito nominare questa villa, ma una guardia di città insegnò alla signorina il modo di prendere il tramwai della stazione che l'avrebbe condotta a pochi passi dal luogo. Così fece. Tutto andava bene come se fosse guidato da una mano benevola.

Dieci minuti dopo, il conduttore le indicava la villa sopra un poggio in fondo a una salita battuta dal sole. Ringraziò, discese e prese la sua strada, provando ai primi passi un senso di debolezza: ma si ripigliò subito.

L'ora si faceva già calda e il bianco della strada riverberava già la vampa cocente di quel sole, che prometteva un'altra giornata di bel tempo. Il cancello della villa era aperto ed essa entrò liberamente sentendosi tutta consolata dalla freschezza delle ombre e dei viali oscuri che salivano alla casa. Una volta si fermò ad asciugarsi la fronte, per ricomporre i capelli scompigliati dal vento, accomodò il cappellino di paglia, che aveva perduto le sue penne e fattosi cuore, disse a stessa: - ora ci sono: botte non me ne daranno. -

E per non lasciarsi avvilire da quella debolezza che l'aveva presa alle gambe, provò a ridere di e dell'ombra sua che, allungandole sul terreno la persona stretta nel suo giubbetto leggero, e dilatando le tese del suo cappelline, le faceva la figura di un giovine prete lungo lungo. Veramente la scappata era più da studente biricchino che da teologo, e chissà? chissà che cosa avrebbero detto di lei a casa la mamma, il rigido Cresti, la beata Regina, la Nunziata.».. E che sorpresa per la zia Vincenzina di vederla arrivare in quel modo.... Ma comunque la volesse andare, adesso era qui, stava per rivederlo dopo un secolo che non lo rivedeva, gli avrebbe parlato, ed egli avrebbe dovuto almeno ringraziarla della sua carità. Oh non gli chiedeva nulla nulla; un «grazie» un «addio Flora...» un... «poverina che sei venuta con questo caldo...» e poi sarebbe tornata a casa tranquilla com'era venuta.

 

*

* *

 

La villa era chiusa da tutte le parti, immersa in un silenzio di chiostro.

Provò a girarle intorno, in cerca di una porta d'ingresso, provò a scuotere e a battere nelle persiane; nessun segno di vita, di dentro di fuori.

Accostando l'orecchio alle persiane chiuse, non sentì che vi fosse anima viva. Sfette un istante avvilita senza sapere che cosa pensare. Che avesse sbagliata la casa? no, il nome di Villa Elvetica era scritto a lettere d'oro sul frontone; e le soprascritte e i telegrammi che aveva potuto consultare parlavano nettamente di una villa Elvetica sopra Lugano, a pochi passi dalla stazione. Dunque non ci poteva esser errore da parte sua, e bisognava piuttosto credere che fossero partiti tutti, o che Ezio... oh Dio!.. che il povero Ezio fosse stato ucciso nel duello, e che le lettere e i telegrammi non fossero che un inganno pietoso dei parenti per preparare a poco a poco l'animo suo a ricevere la tremenda notizia.

Fu tanta la violenza persuasiva di questa supposizione che le mancarono le forze e si lasciò andare sui gradini della casa, tenendosi su a fatica colle mani aggrappate agli stipiti della porta. Se non perdette i sensi del tutto fu per forza di una volontà quasi irritata che comandò di resistere, di non smarrirsi in quel deserto, di opporre agli inganni la forza de' suoi diritti

Se Ezio era morto, perchè non doveva essa saperlo? se era morto l'ideale della sua vita, ben poteva ritenere finita anche per lei ogni ragione di essere e di soffrire. Se l'avevano ingannata, non solo era stata un'ingiustizia, ma una crudeltà; una inutile crudeltà che essa avrebbe dovuto far scontare a' suoi ingannatori.

A confermarla in questo odioso sospetto ritornavano in mente alcune circostanze.

Cresti era partito una prima volta coll'animo sollevato, ma era stato chiamato improvvisamente, mentre facevano venire da Torino un celebre dottore: da allora era incominciata quell'aria cupa di mistero, che faceva gli occhi rossi alla mamma, e confuse le risposte di Regina e delle altre donne....

No, no: era possibile ch'egli fosse già morto, che lo avessero sepolto in segreto senza che la sua Flora fosse stata chiamata a piangere sopra la sua bara? Non avrebbe mai più perdonato questo delitto, ma avrebbe vendicato in stessa l'oltraggio, lasciandosi morire di disperazione sulla fossa chiusa....

- Ezio - gridò non sapendo più resistere alle violenze di quel dolore acerbo, battendo colla testa e colle palme contro le gretole delle persiane che risuonarono nel silenzio del giardino.... - Ezio! - gridò una seconda volta più forte, stringendosi i capelli - o mio povero Ezio, dimmi che non sei morto! oh Dio, non ingannatemi. O cattivi, pietà di questa poverina; aiuto, Madonna... -

E sentendo che lo spasimo più forte della resistenza stava per travolgerla in un torrente d'angoscia si accoccolò, si rannicchiò sul freddo sasso, appoggiò la testa alle braccia; e mentre non cessava di chiamare con voci alte e straziate il suo Ezio, pianse in uno scroscio di lagrime infinite.

 

*

* *

 

Si ridestò dopo alcuni istanti al suono d'una voce che la chiamava: credette anzi di sentir pronunciare il suo nome e alzò la testa.

- Si sente male, poverina? - chiese la donna del giardiniere, mentre cercava di sollevarle la testa.

- Fatele odorare questo profumo - soggiungeva una voce più gentile: e fu appunto all'acuto effluvio d'un'essenza che Flora si ridestò, riconobbe il luogo, riprese coscienza di , del suo dolore, del suo pianto, ravvisò la donna e accanto a questa, seduta su una panca del giardino, un'altra donna pietosa, assai giovine e bella, che le parlava con soavità, compassionandola, e dava qualche segno di conoscerla.

Era forse questa signora, che aveva pronunciato poco prima il suo nome.

- Perdonate - cominciò a balbettare la poverina - -sto meglio. Ero venuta a cercare di questi signori, voglio dire di quel giovane che fu ferito in duello. È morto? dite. È morto?

- No. Son partiti tutti fin da ieri mattina - disse la donna.

- Partiti? - esclamò Flora, rianimandosi. - Scusate, pensavo che fosse morto e ho provato un gran colpo di cuore. La sua ferita è guarita?

- Quasi guarita o almeno il dottore assicura che da questa parte non avrà più nulla a temere. Non so per il resto.

- Cioè?

- È forse una parente la signorina?

- Sono una sua lontana cugina. Dite pure: dovrò pur sapere come sono andate le cose.

- Si teme che il poverino abbia a rimaner cieco per tutta la vita.

- Cieco?! - gridò Flora, afferrando le mani della donna - Cieco?! - E lottando contro una specie d'interna incapacità a comprendere il senso doloroso delle cose, guardava negli occhi la donna per cercare la soluzione di un enigma che non si lasciava sciogliere.

Ma a poco a poco la verità si fece strada, La nozione del male si trasformò in una sensazione oscura che l'avvolse come una notte. Il giardino così pieno di sole sprofondò in una tenebra fitta come se la verità acida e velenosa, saltandole agli occhi, accecasse anche lei.

La giardiniera, vedendola vacillare di nuovo, la sorresse col braccio e cercò di rianimarla con delle buone parole, a cui Flora si sforzò di rispondere per non perdere del tutto una forza di resistenza di cui aveva ora più bisogno di prima.

- Cieco! - Ora sentiva tutta la grandezza di questa nuova sciagura, che non osava confrontare con quella che aveva temuto prima, per paura che, dovendo sceglier tra due terribili mali, il suo cuore avesse a ingannarsi. Piangeva Ezio come morto e glielo rendevano vivo, ma cieco: non sepolto morto nella terra, ma sepolto vivo nelle tenebre, Era una scoperta orribile, da togliere ogni virtù: ma dopo aver dissipato con un atto materiale delle mani la nebbia che le ingombrava la vista, tornò in stessa per non so qual forza riposta, si alzò e chiese con voce subitamente rinvigorita: - Sapete se essi intendevano di tornare a casa?

- Sentivo dire che il signor Ezio desiderava tornare: ma che volesse tornar subito non saprei dire.

- Grazie, buona donna; scusate se vi ho spaventata. - La fanciulla, appoggiandosi al braccio della giardiniera, si fece accompagnare un tratto per il viale fin verso il cancello; ma fatti alcuni passi, accortasi di non aver ringraziata e salutata la bella signora che l'aveva soccorsa e di cui teneva ancor stretta nella mano un'elegante fialetta di cristallo: - Quella buona signora.... - disse voltandosi a cercarla cogli occhi. Ma la buona signora era già scomparsa.

- La conoscete? - chiese alla donna.

- Dev'essere una signora americana che sta all'Hôtel. È venuta anche lei due sere fa per la prima volta a chieder notizie del ferito e restò molto impressionata, quando il contino le diede la brutta notizia. Oggi è tornata per veder la villa, perchè spera che suo marito, un milionario americano, abbia a comprargliela. Dicono che non sia propriamente suo marito: ma per noi è lo stesso, purchè la villa si venda e si esca da questa melanconia. È peccato buttar via questa grazia di Dio: e anche mio marito potrebbe guadagnare qualche cosa di più che non a servire questi usurai dell'hôtel che non danno mai un soldo di mancia. Si sa, siam povera gente che vive di incerti e di piccoli proventi. -

In Flora, al sentir parlare di mancia, si rivegliò il senso di quel dovere civile che vuole che ogni servigietto abbia il suo compenso. Tolse dal magro portamonete una lira di carta italiana e offrendola modestamente alla donna le disse: - Pregate per quel poverino e un poco anche per me.

- Lo farò, bella ragazza; non avrebbe per caso moneta svizzera?

- Oh no... - esclamò la povera Flora, arrossendo, cercando inutilmente tra le poche lire stracciate che eran rimaste nel fondo.

- Fa nulla, pregherò lo stesso.

- E ringraziate per me la signora... - disse, affrettandosi verso le strada che scendeva in città. -

La donna dalla soglia del cancello la seguì un pezzo cogli occhi e quindi, pesando il barattolo di cristallo in una mano, la logora lira nell'altra, mentre tornava sui suoi passi, prese a dire: - Peccato davvero che resti cieco quel povero figliolo, quando ha la fortuna di farsi ben volere dalle donne, dalle bionde, dalle rosse, e forse anche dalle nere. Era forse meglio che morisse addirittura laggiù in quel prato, povero figliuolo! - E seguitando ne' suoi pensieri, mentre tornava in traccia della bella americana, almanaccava: - -Questa rossa, pare una sartina o una maestrina di laggiù, e a giudicare dai capelli dev'essere un diavoletto intelligente, un'anima calda: e come piangeva! sento ancora il calore delle sue lagrimone sulla pelle delle mani. Peccato che il suo borsellino sia smilzo come un agone secco. Per una lira italiana e sporca io dovrei pregare per lui, per lei, e magari accompagnarli in paradiso. L'americana non ha bisogno delle mie orazioni e se devo giudicare dall'odore, è di quelle che pregano una volta sola in punto di morte, quando il diavolo si muove per portarle via. Questa boccettina - soggiunse, portando il buon odore al naso - par di cristallo fino e il collo par d'argento, guai se non avessimo di questi proventi in questi anni di miseria! - E se la mise in tasca. - Ora non mi resta che di conoscere la maritata, quella per cui il giovinotto arrischiò di farsi ammazzare. Dev'essere assai bella se l'ha pagata con un paio d'occhi, scartando la bionda e la rossa. Ma, ah povera me! che cosa serve la bellezza, se non hai gli occhi per vederla? -

Ridendo, crollando la testa sulle sue considerazioni, la donna, che aveva nei suoi giovani anni conosciuto il mondo, finì col conchiudere che bisognerebbe nascere due volte: la prima per imparare, la seconda per vivere.


 

 

 




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