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Emilio De Marchi
Col fuoco non si scherza

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  • PARTE SECONDA.
    • IV.   Belvedere
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IV.

 

Belvedere.

 

Ezio smanioso di tornare a casa sua, appena si sentì in grado di affrontare le noie del viaggio, fu come se avesse i carboni accesi sotto i piedi. Sperava che a cambiar aria, potesse rompersi quel sinistro augurio che gli pesava sul capo; ma non volle ritornare per la valle di Menaggio, temendo di ripassare troppo presto da luoghi ch'egli aveva ancora negli occhi. Mostrò invece il desiderio di scendere ad Argegno sul lago di Como a poca distanza da Villa Serena, attraversando il valico d'Intelvi. Lassù, a Lanzo e al Belvedere, era andato da giovinetto con suo padre e gli era rimasta la memoria come di siti incantevoli, d'aria frizzante e leggiera, di una luce trasparentissima, piena di azzurro. Deviando un poco, era facile raggiungere anche la vetta del Monte Generoso, famoso per la grandiosità delle sue vedute sopra la catena delle Alpi e delle prealpi, e più ancora per gli spettacoli quasi divini delle sue aurore. Si ricordava di aver passata una notte di settembre in compagnia di alcuni cacciatori, che dopo averlo condotto in mezzo ai boschi oscuri della valle di S. Fedele e di Casasco, avevano acceso un fuoco e fumato nelle pipe in attesa del sole. Quel bivacco luminoso nella gran selva dei castagni gli tornava spesso nella mente e aveva la virtù di accendere ancora una vampa di fuoco nel suo viso. E ricordava quando, avvolti negli scialli per difendersi dalla brezza acuta dell'alba, s'erano accovacciati in una specie di fossa a ridosso dell'ultimo dente, e di aveva visto schiarirsi a poco a poco il cielo, prima in un colore opalino verso la somma volta, poi in striscie più calde all'orizzonte, in cui guizzavano delle pagliuzze d'oro, finchè un vivo braciere di fuoco purpureo venne a divampare sopra le vette e a tingere di sangue le pozze e i rigagnoli dei pascoli. Ricordava con una chiaroveggenza quasi dolorosa questo sublime spettacolo, in virtù di quella vista che non è negli occhi, e che va spesso più lontano, oltre i confini del senso. Sperava di ritrovare di nuovo lassù queste vive immagini a cui l'anima sua attaccava un'ultima speranza. Quasi se le prometteva come un premio alla sua costanza, con quell'ostinazione propria delle anime forti, che rifiutano di credere ai mali che le opprimono.

Non osava ancora ammettere che le sue pupille, così pronte poco prima, osassero disobbedire al cenno imperioso della sua volontà ancora così piena di luce e di cose. Non si scongiura un male se non ribellandosi. La rassegnazione, la più umile delle virtù, non è buona se non quando è necessaria.

Arrivarono all'Albergo del Belvedere sul far della notte, dopo un viaggio lento, melanconico, in cui quasi nessuno parlò. Soltanto don Andreino si sforzò di parer qualche volta di buon umore: ma i suoi discorsi, per quanto cercasse di farli parere spontanei, avevano nell'animo de' suoi compagni di viaggio quella falsa risonanza, che mandano le posate e i bicchieri a un pranzo che segue un triste funerale. Ezio, sentendosi le ossa affrante e lo spirito depresso, si mise subito a letto dopo aver persuaso Andreino a svegliarlo la mattina all'alba, perchè desiderava di assistere alla levata del sole. E quasi che in questa speranza trovasse il suo riposo, si addormentò subito.

Intanto che il contino prendeva alcuni accordi coll'albergatore, donna Vincenzina che il doloroso viaggio aveva stancata d'anima e di corpo, era andata a sedersi in un angolo del terrazzo che domina, dall'altezza di quasi mille metri, il lago di Lugano e stava fissa a contemplare ora le stelle che luccicavano nel fondo del cielo, ora i lumi della città sottoposta, collocata nella profonda oscurità dell'abisso.

Massimo la trovò immersa nelle lagrime.

Dopo una settimana di torture, sul momento di avvicinarsi a casa, essa sentiva tutta la grandezza della sventura che li aveva colpiti e cercava nel pianto un sollievo.

Massimo sedette accanto a lei, nell'angolo dove arrivava, diluita, la luce dei fanali e languivano gli ultimi rumori che uscivano dall'albergo.

- Abbiamo ragione di piangere - disse con voce soave e tremula il vecchio amico, - È una grande sventura e non vedo come, col suo temperamento autoritario e irritabile, Ezio possa sopportarla. Temo anch'io che in un momento di maggior avvilimento egli possa commettere uno sproposito. Colla sua è la vostra disgrazia, poverina. Quale sarà la vostra vita da ora innanzi? come potete legarvi per sempre, alla sorte di un cieco?

- Che cosa pensate, Massimo? che io possa abbandonare Ezio?

- Non posso pensare nulla di male di voi, sapete: ma temo che il sacrificio sia maggiore delle vostre forze.

- Io ho sempre amato Ezio come un figliuolo.

- È vero. Avesse egli corrisposto con altrettanto affetto! Ora che la sventura l'ha colpito così tremendamente, credete ch'egli saprà trovare quella ricchezza di cuore di cui voi avete bisogno? Già sacrificata una volta all'egoismo del padre....

- Vi proibisco di parlare, Massimo - fece donna Vincenzina, posando una mano sulla mano di lui.

Massimo chinò la testa e stette un istante in silenzio. Fu essa la prima a riprendere la parola dopo un lungo intervallo, durante il quale gli occhi avevano a lungo contemplata una stella.

- Voi che cosa mi consigliereste di fare?

- Una cosa semplicissima, Cenzina - disse Massimo con una tenerezza che ricordava nel suono e nelle parole un'antica famigliarità. - Che si sia in due a portare questa croce.

- Oh sì... io faccio affidamento sul vostro aiuto, Massimo - disse lentamente.

- Ma io potrei ripartire, capite? quando fossi vostro, tutto vostro, Cenzina.... -

Essa non rispose. Come se un improvviso malore l'assalisse posò la testa sul braccio appoggiato al balaustro di sasso e lasciò che il vecchio amico portasse la sua mano alle labbra. Ve la tenne un pezzo il vecchio amico e la bagnò di lagrime calde che uscivano dal vecchio cuore.

 

*

* *

 

Fu il primo Ezio a svegliarsi e chiamò Andreino che dormiva in un letto accanto.

- Ho sentito sonar le tre all'orologio del corridoio. Aiutami a vestirmi: noi dobbiamo essere su qualche altura prima che il sole metta fuori le corna. Voglio respirare la brezza dell'alba, la buona brezza che sveglia gli uccelli e gli alberi: voglio lavarmi gli occhi nella rugiada e ricevere in viso il primo raggio di sole, riceverlo puro attraverso alla pura atmosfera. -

E su questa intonazione, in cui non avresti saputo discernere quanto di enfatico egli mettesse per sostenere i dolori del suo spirito, seguitò a discorrere finchè Andreino non fu pronto ad accompagnarlo.

- Ora sta zitto, perchè a quest'ora i cristiani dormono - gli disse il contino.

- È buio?

- Buio pesto. Appoggiati al mio braccio e sta attento a fare gli scalini che ti conto. Troveremo qui abbasso il portier che ci aspetta.

- Non lo voglio: andiamo soli, Andreino.

- Ma io non conosco queste strade.

- Non fa nulla. Menami fuori, all'aperto, in una di queste vicine alture. Ho bisogno di respirare un'aria alta. Poi ti dirò quel che dovrai fare. Tu mi vuoi bene, Andreino: tu sei stato per me in questi giorni più che una sorella.

- Oh senti, se non hai nulla di meglio da contarmi, lascia stare anche i complimenti. Eccoti invece un buon bastone di montagna che ti aiuterà a trovare la strada. È buio anche di fuori, come se si fosse in una cantina.

- È buio? è proprio buio? Oh com'è fresca l'aria qui fuori - esclamò il giovane, vagolando sul piazzale - questa vien dal lago. Che silenzio di chiesa! dormono tutti?

- Non sono ancora le quattro.

- È nuvolo?

- No, ci sono le stelle.

- Allora questa è rugiada.... - disse Ezio, tenendo alto il viso. - Andiamo bene di qua?

- Ieri sera mi son fatto insegnare un sentiero che mena alla capannuccia detta des artistes: di dicono che si domina tutta la valle. -

I due giovani cominciarono a salire per un viottolo spianato che s'internava con arte nelle fitte ombre d'un bosco di faggio. Già il biancore primo dell'alba andava rompendo il cielo dietro le creste e un primo alito di luce animava insieme alla brezza la trama degli alberi. Qualche frullo d'ala usciva all'avvicinarsi dei loro passi. Ezio camminava appoggiato pesantemente al braccio dell'amico: ma di tratto in tratto arrestavasi e alzando il bastone in atto di protesta gridava: - Sei sicuro che di quà si va bene? mi pare invece che si discenda nella valle.

- C'è quì un cartello colla freccia che insegna la strada.

- Dov'è questo cartello?

- L'abbiamo di poco passato. -

Si ripigliava il cammino. Ezio a un punto si distaccò dalla sua guida: - Voglio provare a camminare da me. La strada è molle come un tappeto. Direi che quasi comincio a veder qualche cosa. Di', non c'è in faccia una fontana con un cavallo che beve?

- Dove? - chiese Andreino imbarazzato.

- , in mira al mio bastone. Un bel cavallo bianco.

- Ah sì... è una grossa rupe.

- C'è però qualche cosa di bianco.

- Sì, una macchia di granito. - Non c'era nulla: ma il giovine cercava di secondarne le allucinazioni per tenergli alto lo spirito.

Ripresa la strada e usciti dal bosco, cominciarono a montare sul bel sentiero che sale il dosso erboso del monte. Sentendo un mormorìo d'acqua, Ezio volle arrestarsi a bere. S'inginocchiò sull'erba, stese la mano al rigagnolo, bevette nei palmi di quell'acqua diaccia, se ne bagnò il viso, la testa, s'inebriò di quella freschezza.

Cominciava ad albeggiare. Le creste si colorivano di rosa: il cielo diventava sempre più turchino, il verde dei vecchi boschi, meno oscuro, più ridente il verde dei prati: rumori vaghi e indistinti uscivano dai cespugli, dalle piccole siepi: e più acuto si sollevava l'odore dei muschi e delle erbe selvatiche. Il fondo delle valli continuava a restare immerso in una fredda e nebulosa oscurità, mentre si andavano via via accendendo le vette più alte, dapprima le nevose che pigliavano una chiarezza rosea di carnagione viva, poi le altre ferrigne e taglienti, che si rinforzavano nella luce, più tardi ancora i greppi, i dirupi, che parevano scostarsi per lasciar adito all'incanto luminoso dei pascoli, coi casolari alpestri raggruppati in un lieto disordine. Uscivano di mano in mano dai fuggenti vapori, come da veli lacerati e scossi, gli spacchi dei laghi, movevansi le ondulazioni delle colline lontane, svegliavansi al tocco insinuante della luce i borghi fitti di case, ridevano i poveri villaggi adunati alle falde e un intimo affetto univa la terra, patria dei dolori e il cielo, patria delle serene speranze....

Ezio andava avanti, prudentemente, alzando la faccia contro la brezza, aspirando quei profumi, raccogliendo quei suoni, sentendo intorno a il ritorno del solo, indovinando colla fantasia la bellezza delle cose: ma un cerchio di ferro cingeva il suo capo.

- Ah.... - fece una volta, aprendo la bocca a un grido, che morì soffocato dall'angoscia mortale. - A te lo posso dire, perchè sei un uomo ragionevole. O mi tiran fuori di questa cantina o la faccio finita....

- Perchè pensi a queste cose?

- Perchè non posso a meno di pensarle. Ti par possibile questa vita di fringuello in muda? Quando sentirai che mi son tirato un colpo nel cervello, dirai: Povero diavolo, s'è liberato.

- Non dovresti dirmele queste sciocchezze che mi fanno male - protestò Andreino, facendo sentire nella voce un tremito di dolore.

- Sì, sì, hai ragione, povero Lolò, non dovrei dirle a te queste cose. Tu credi alla Provvidenza, tu... mentre io, in questo caso, proprio non so vedere che ci possa essere una ragione nel tormentare così un uomo come una bestia. Vien qua: dammi il braccio. Siam fuori del bosco? da qual parte è il lago? Sento che va diventando chiaro: sento che è bello qui intorno a me. Non è vero che le cime son accese come tanti falò?... Lascia che io mi sieda, qui, qui, in qualche sito: mettimi in faccia al sole. Lasciami qui solo. Non aver paura, Dreino, non mi farò del male: no, povero Lolò, vi ho già dato abbastanza noie, povera gente. Ho bisogno di star solo, un momento, per pensare al caso mio e a quel che devo fare di me.... Non immagini che pena sia sentir il sole sulla faccia e non vederlo: è una maledizione orrenda, ve', aver gli occhi, questi maledetti occhi impiombati. È una cosa ben crudele che un uomo sia condannato a questo supplizio. Tu non puoi immaginare quel che soffro: no. Nessuno al mondo può immaginare fin dove si può soffrire senza morire. È un'atrocità orribile, uno spasimo indescrivibile. È come l'esser sepolti vivi senza nemmeno la speranza di morir presto. È tutto il male del mondo concentrato nel cuore d'un uomo. O papà, o la mia povera mamma, se mi vedete, aiutatemi, fatemi morire! -

 

*

* *

 

Steso bocconi, colle mani che raspavano la terra, il povero figliuolo lasciò uscire tutti i gridi e tutte le lagrime che da dieci giorni andava rinserrando nell'anima orgogliosa. C'era da commovere le pietre soltanto a vedere quella giovinezza schiantata nel suo fiore e a sentire quel suo dolore piangere così lamentosamente.

Andreino Lulli non seppe far altro che buttarsi a piangere anche lui sul povero suo amico. Lo carezzò, gli fece sentire il calore delle sue lagrime, lo strinse nelle braccia, lo baciò sul capo, sforzandosi di patire anche lui nella misura enorme del suo compagno, oltre la sua capacità.

Intanto il sole continuava a illuminare in una festa di colori le cime e scendeva a baciare col raggio le falde erbose popolate di pascoli. La brezza calava tra le valli, piegando gli steli rugiadosi dei fiori, recando lo scampanellare sparso degli armenti. In questi due giovani soffriva qualche cosa di più sensibile e forse di più forte della natura, qualche cosa di cui non avevano ancora la chiara coscienza, ma che sta nella vita come la scintilla nella pietra.


 

 

 




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