IV.
Belvedere.
Ezio smanioso di tornare a casa
sua, appena si sentì in grado di affrontare le noie del viaggio, fu come se
avesse i carboni accesi sotto i piedi. Sperava che a cambiar aria, potesse
rompersi quel sinistro augurio che gli pesava sul capo; ma non volle ritornare
per la valle di Menaggio, temendo di ripassare troppo presto da luoghi ch'egli
aveva ancora negli occhi. Mostrò invece il desiderio di scendere ad Argegno sul
lago di Como a poca distanza da Villa Serena, attraversando il valico
d'Intelvi. Lassù, a Lanzo e al Belvedere, era andato da giovinetto con suo
padre e gli era rimasta la memoria come di siti incantevoli, d'aria frizzante e
leggiera, di una luce trasparentissima, piena di azzurro. Deviando un poco, era
facile raggiungere anche la vetta del Monte Generoso, famoso per la grandiosità
delle sue vedute sopra la catena delle Alpi e delle prealpi, e più ancora per
gli spettacoli quasi divini delle sue aurore. Si ricordava di aver passata una
notte di settembre in compagnia di alcuni cacciatori, che dopo averlo condotto
in mezzo ai boschi oscuri della valle di S. Fedele e di Casasco, avevano acceso
un fuoco e fumato nelle pipe in attesa del sole. Quel bivacco luminoso nella
gran selva dei castagni gli tornava spesso nella mente e aveva la virtù di
accendere ancora una vampa di fuoco nel suo viso. E ricordava quando, avvolti
negli scialli per difendersi dalla brezza acuta dell'alba, s'erano accovacciati
in una specie di fossa a ridosso dell'ultimo dente, e di là aveva visto
schiarirsi a poco a poco il cielo, prima in un colore opalino verso la somma
volta, poi in striscie più calde all'orizzonte, in cui guizzavano delle
pagliuzze d'oro, finchè un vivo braciere di fuoco purpureo venne a divampare
sopra le vette e a tingere di sangue le pozze e i rigagnoli dei pascoli.
Ricordava con una chiaroveggenza quasi dolorosa questo sublime spettacolo, in
virtù di quella vista che non è negli occhi, e che va spesso più lontano, oltre
i confini del senso. Sperava di ritrovare di nuovo lassù queste vive immagini a
cui l'anima sua attaccava un'ultima speranza. Quasi se le prometteva come un
premio alla sua costanza, con quell'ostinazione propria delle anime forti, che
rifiutano di credere ai mali che le opprimono.
Non osava ancora ammettere che le
sue pupille, così pronte poco prima, osassero disobbedire al cenno imperioso
della sua volontà ancora così piena di luce e di cose. Non si scongiura un male
se non ribellandosi. La rassegnazione, la più umile delle virtù, non è buona se
non quando è necessaria.
Arrivarono all'Albergo del
Belvedere sul far della notte, dopo un viaggio lento, melanconico, in cui quasi
nessuno parlò. Soltanto don Andreino si sforzò di parer qualche volta di buon
umore: ma i suoi discorsi, per quanto cercasse di farli parere spontanei,
avevano nell'animo de' suoi compagni di viaggio quella falsa risonanza, che
mandano le posate e i bicchieri a un pranzo che segue un triste funerale. Ezio,
sentendosi le ossa affrante e lo spirito depresso, si mise subito a letto dopo
aver persuaso Andreino a svegliarlo la mattina all'alba, perchè desiderava di
assistere alla levata del sole. E quasi che in questa speranza trovasse il suo
riposo, si addormentò subito.
Intanto che il contino prendeva
alcuni accordi coll'albergatore, donna Vincenzina che il doloroso viaggio aveva
stancata d'anima e di corpo, era andata a sedersi in un angolo del terrazzo che
domina, dall'altezza di quasi mille metri, il lago di Lugano e stava fissa a
contemplare ora le stelle che luccicavano nel fondo del cielo, ora i lumi della
città sottoposta, collocata nella profonda oscurità dell'abisso.
Massimo la trovò immersa nelle
lagrime.
Dopo una settimana di torture, sul
momento di avvicinarsi a casa, essa sentiva tutta la grandezza della sventura che
li aveva colpiti e cercava nel pianto un sollievo.
Massimo sedette accanto a lei,
nell'angolo dove arrivava, diluita, la luce dei fanali e languivano gli ultimi
rumori che uscivano dall'albergo.
- Abbiamo ragione di piangere -
disse con voce soave e tremula il vecchio amico, - È una grande sventura e non
vedo come, col suo temperamento autoritario e irritabile, Ezio possa
sopportarla. Temo anch'io che in un momento di maggior avvilimento egli possa
commettere uno sproposito. Colla sua è la vostra disgrazia, poverina. Quale
sarà la vostra vita da ora innanzi? come potete legarvi per sempre, alla sorte
di un cieco?
- Che cosa pensate, Massimo? che io
possa abbandonare Ezio?
- Non posso pensare nulla di male di
voi, sapete: ma temo che il sacrificio sia maggiore delle vostre forze.
- Io ho sempre amato Ezio come un
figliuolo.
- È vero. Avesse egli corrisposto
con altrettanto affetto! Ora che la sventura l'ha colpito così tremendamente,
credete ch'egli saprà trovare quella ricchezza di cuore di cui voi avete
bisogno? Già sacrificata una volta all'egoismo del padre....
- Vi proibisco di parlare, Massimo
- fece donna Vincenzina, posando una mano sulla mano di lui.
Massimo chinò la testa e stette un
istante in silenzio. Fu essa la prima a riprendere la parola dopo un lungo
intervallo, durante il quale gli occhi avevano a lungo contemplata una stella.
- Voi che cosa mi consigliereste di
fare?
- Una cosa semplicissima, Cenzina -
disse Massimo con una tenerezza che ricordava nel suono e nelle parole
un'antica famigliarità. - Che si sia in due a portare questa croce.
- Oh sì... io faccio affidamento
sul vostro aiuto, Massimo - disse lentamente.
- Ma io potrei ripartire, capite?
quando fossi vostro, tutto vostro, Cenzina.... -
Essa non rispose. Come se un
improvviso malore l'assalisse posò la testa sul braccio appoggiato al balaustro
di sasso e lasciò che il vecchio amico portasse la sua mano alle labbra. Ve la
tenne un pezzo il vecchio amico e la bagnò di lagrime calde che uscivano dal
vecchio cuore.
*
* *
Fu il primo Ezio a svegliarsi e
chiamò Andreino che dormiva in un letto accanto.
- Ho sentito sonar le tre
all'orologio del corridoio. Aiutami a vestirmi: noi dobbiamo essere su qualche
altura prima che il sole metta fuori le corna. Voglio respirare la brezza
dell'alba, la buona brezza che sveglia gli uccelli e gli alberi: voglio lavarmi
gli occhi nella rugiada e ricevere in viso il primo raggio di sole, riceverlo
puro attraverso alla pura atmosfera. -
E su questa intonazione, in cui non
avresti saputo discernere quanto di enfatico egli mettesse per sostenere i
dolori del suo spirito, seguitò a discorrere finchè Andreino non fu pronto ad
accompagnarlo.
- Ora sta zitto, perchè a quest'ora
i cristiani dormono - gli disse il contino.
- È buio?
- Buio pesto. Appoggiati al mio
braccio e sta attento a fare gli scalini che ti conto. Troveremo qui abbasso il
portier che ci aspetta.
- Non lo voglio: andiamo soli,
Andreino.
- Ma io non conosco queste strade.
- Non fa nulla. Menami fuori,
all'aperto, in una di queste vicine alture. Ho bisogno di respirare un'aria
alta. Poi ti dirò quel che dovrai fare. Tu mi vuoi bene, Andreino: tu sei stato
per me in questi giorni più che una sorella.
- Oh senti, se non hai nulla di
meglio da contarmi, lascia stare anche i complimenti. Eccoti invece un buon
bastone di montagna che ti aiuterà a trovare la strada. È buio anche di fuori,
come se si fosse in una cantina.
- È buio? è proprio buio? Oh com'è
fresca l'aria qui fuori - esclamò il giovane, vagolando sul piazzale - questa
vien dal lago. Che silenzio di chiesa! dormono tutti?
- Non sono ancora le quattro.
- È nuvolo?
- No, ci sono le stelle.
- Allora questa è rugiada.... -
disse Ezio, tenendo alto il viso. - Andiamo bene di qua?
- Ieri sera mi son fatto insegnare
un sentiero che mena alla capannuccia detta des artistes: di là dicono
che si domina tutta la valle. -
I due giovani cominciarono a salire
per un viottolo spianato che s'internava con arte nelle fitte ombre d'un bosco
di faggio. Già il biancore primo dell'alba andava rompendo il cielo dietro le
creste e un primo alito di luce animava insieme alla brezza la trama degli
alberi. Qualche frullo d'ala usciva all'avvicinarsi dei loro passi. Ezio
camminava appoggiato pesantemente al braccio dell'amico: ma di tratto in tratto
arrestavasi e alzando il bastone in atto di protesta gridava: - Sei sicuro che
di quà si va bene? mi pare invece che si discenda nella valle.
- C'è quì un cartello colla freccia
che insegna la strada.
- Dov'è questo cartello?
- L'abbiamo di poco passato. -
Si ripigliava il cammino. Ezio a un
punto si distaccò dalla sua guida: - Voglio provare a camminare da me. La
strada è molle come un tappeto. Direi che quasi comincio a veder qualche cosa.
Di', non c'è lì in faccia una fontana con un cavallo che beve?
- Dove? - chiese Andreino
imbarazzato.
- Lì, in mira al mio bastone. Un
bel cavallo bianco.
- Ah sì... è una grossa rupe.
- C'è però qualche cosa di bianco.
- Sì, una macchia di granito. - Non
c'era nulla: ma il giovine cercava di secondarne le allucinazioni per tenergli
alto lo spirito.
Ripresa la strada e usciti dal
bosco, cominciarono a montare sul bel sentiero che sale il dosso erboso del
monte. Sentendo un mormorìo d'acqua, Ezio volle arrestarsi a bere. S'inginocchiò
sull'erba, stese la mano al rigagnolo, bevette nei palmi di quell'acqua
diaccia, se ne bagnò il viso, la testa, s'inebriò di quella freschezza.
Cominciava ad albeggiare. Le creste
si colorivano di rosa: il cielo diventava sempre più turchino, il verde dei
vecchi boschi, meno oscuro, più ridente il verde dei prati: rumori vaghi e
indistinti uscivano dai cespugli, dalle piccole siepi: e più acuto si sollevava
l'odore dei muschi e delle erbe selvatiche. Il fondo delle valli continuava a
restare immerso in una fredda e nebulosa oscurità, mentre si andavano via via
accendendo le vette più alte, dapprima le nevose che pigliavano una chiarezza
rosea di carnagione viva, poi le altre ferrigne e taglienti, che si
rinforzavano nella luce, più tardi ancora i greppi, i dirupi, che parevano
scostarsi per lasciar adito all'incanto luminoso dei pascoli, coi casolari
alpestri raggruppati in un lieto disordine. Uscivano di mano in mano dai
fuggenti vapori, come da veli lacerati e scossi, gli spacchi dei laghi, movevansi
le ondulazioni delle colline lontane, svegliavansi al tocco insinuante della
luce i borghi fitti di case, ridevano i poveri villaggi adunati alle falde e un
intimo affetto univa la terra, patria dei dolori e il cielo, patria delle
serene speranze....
Ezio andava avanti, prudentemente,
alzando la faccia contro la brezza, aspirando quei profumi, raccogliendo quei
suoni, sentendo intorno a sè il ritorno del solo, indovinando colla fantasia la
bellezza delle cose: ma un cerchio di ferro cingeva il suo capo.
- Ah.... - fece una volta, aprendo
la bocca a un grido, che morì soffocato dall'angoscia mortale. - A te lo posso
dire, perchè sei un uomo ragionevole. O mi tiran fuori di questa cantina o la
faccio finita....
- Perchè pensi a queste cose?
- Perchè non posso a meno di
pensarle. Ti par possibile questa vita di fringuello in muda? Quando sentirai
che mi son tirato un colpo nel cervello, dirai: Povero diavolo, s'è liberato.
- Non dovresti dirmele queste
sciocchezze che mi fanno male - protestò Andreino, facendo sentire nella voce
un tremito di dolore.
- Sì, sì, hai ragione, povero Lolò,
non dovrei dirle a te queste cose. Tu credi alla Provvidenza, tu... mentre io,
in questo caso, proprio non so vedere che ci possa essere una ragione nel
tormentare così un uomo come una bestia. Vien qua: dammi il braccio. Siam fuori
del bosco? da qual parte è il lago? Sento che va diventando chiaro: sento che è
bello qui intorno a me. Non è vero che le cime son accese come tanti falò?...
Lascia che io mi sieda, qui, qui, in qualche sito: mettimi in faccia al sole.
Lasciami qui solo. Non aver paura, Dreino, non mi farò del male: no, povero
Lolò, vi ho già dato abbastanza noie, povera gente. Ho bisogno di star solo, un
momento, per pensare al caso mio e a quel che devo fare di me.... Non immagini
che pena sia sentir il sole sulla faccia e non vederlo: è una maledizione
orrenda, ve', aver gli occhi, questi maledetti occhi impiombati. È una cosa ben
crudele che un uomo sia condannato a questo supplizio. Tu non puoi immaginare
quel che soffro: no. Nessuno al mondo può immaginare fin dove si può soffrire
senza morire. È un'atrocità orribile, uno spasimo indescrivibile. È come
l'esser sepolti vivi senza nemmeno la speranza di morir presto. È tutto il male
del mondo concentrato nel cuore d'un uomo. O papà, o la mia povera mamma, se mi
vedete, aiutatemi, fatemi morire! -
*
* *
Steso bocconi, colle mani che
raspavano la terra, il povero figliuolo lasciò uscire tutti i gridi e tutte le
lagrime che da dieci giorni andava rinserrando nell'anima orgogliosa. C'era da
commovere le pietre soltanto a vedere quella giovinezza schiantata nel suo
fiore e a sentire quel suo dolore piangere così lamentosamente.
Andreino Lulli non seppe far altro
che buttarsi a piangere anche lui sul povero suo amico. Lo carezzò, gli fece
sentire il calore delle sue lagrime, lo strinse nelle braccia, lo baciò sul
capo, sforzandosi di patire anche lui nella misura enorme del suo compagno,
oltre la sua capacità.
Intanto il sole continuava a
illuminare in una festa di colori le cime e scendeva a baciare col raggio le
falde erbose popolate di pascoli. La brezza calava tra le valli, piegando gli
steli rugiadosi dei fiori, recando lo scampanellare sparso degli armenti. In
questi due giovani soffriva qualche cosa di più sensibile e forse di più forte
della natura, qualche cosa di cui non avevano ancora la chiara coscienza, ma
che sta nella vita come la scintilla nella pietra.
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