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Emilio De Marchi
Col fuoco non si scherza

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  • PARTE SECONDA.
    • VII.   Verso la luce
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VII.

 

Verso la luce.

 

Una sera donna Vincenzina, sentendosi dei brividi nelle ossa, andò a letto più presto del solito. La notte i brividi divennero febbre, che crebbe sul mattino forte e ardente. Le sensazioni troppo violente dei giorni passati dovevano avere il loro contraccolpo nel suo temperamento non abituato alle fiere battaglie della vita.

Il dottore, chiamato d'urgenza, giudicò il caso non gravissimo; ma avvertì di stare in guardia contro i pericoli di una febbre infettiva

Due giorni dopo si dichiarò il tifo, con tutti i suoi sintomi di coma e di delirio.

Non essendovi a Villa Serena una donna giovine che potesse assistere la malata, potendosi far molto conto sopra la povera Matilde e meno sulla vecchia Bernarda, Flora trovò che il suo posto era accanto al letto della zia, e nessuno osò contrastarla.. Per tre settimane, quanto durò il primo periodo del male, quasi non si tolse il vestito da dosso, ritrovando nella sua energia, non solo la forza di assistere la inferma ma anche quella di far andare la casa in modo che ognuno avesse il suo posto e il suo da fare. Massimo restò fin che gli parve di non essere d'impedimento: e fu un bene, perchè intorno a lui si raccolsero gli altri come intorno a un capo di famiglia.

In quest'improvviso sconcerto, nell'apprensione comune, Ezio dimenticò alquanto stesso e cercò di farsi dimenticare. E nell'alternativa di bene e di male, di speranze e di timori, che formavano la vita di quelle dolorose settimane, seguì un tempo di tregua salutare per lui e per tutti gli altri. Lo stesso Cresti che veniva sempre a chiedere notizie della malata non osava pensare alla sua felicità.

Per non essere d'imbarazzo Ezio usciva spesso a passeggiare solo per le stradine a lui note, ora verso la chiesa dove s'incontrava spesso coll'arciprete, ora verso il cimitero dov'erano sepolti i suoi cari, un cimitero romito e tranquillo in mezzo alle vigne; e vi restava volentieri seduto all'ombra del muricciuolo a leggere stesso.

Intorno a lui ronzavano i mosconi nel caldo odore dell'erba tagliata e messa a seccare. Frulli d'ala, cinguettii di passeri vagabondi e i colpi spessi delle coti sulle falci, portati dal vento e mescolati alle voci erranti del villaggio, gli facevano intorno un piccolo mondo, in cui sentiva mescolarsi la vita alla morte.

Poco lontano, colle teste quasi appoggiate al muricciuolo, ov'egli sedeva, dormivano suo padre e sua madre. Per poco ch'egli discendesse coll'occhio dell'anima sotto le zolle fiorite, ne rivedeva le care spoglie composte nell'eterno silenzio, immagini evidenti come non eran tornate mai davanti al suo occhio vivo, quando altre forze lo trascinavano ad altri pensieri. Ora fatto più chiaroveggente e più penetrante il suo spirito non si arrestava più alla superficie delle cose, ma come se una mano potente levasse il muro che separa il regno dei vivi da quello dei morti, vedeva allargarsi lo spazio in cui si muovono le cose.

Siam noi che ci sforziamo di alzare una barriera tra i vivi ed i morti; ma veramente la natura non sa dove gli uni finiscano e dove incominciano gli altri. Le cose vanno in una seguìta continuità trascinate dall'intimo spirito che le penetra, mormorando tra loro in un pensiero solo che le raccoglie, sommessa armonia che sfugge a chi ha l'orecchio pieno di frastuoni mondani, ma che le anime raccolte sentono passare insieme alle mille cose che scendono nel tempo. La morte non è che un principio. Essa è buona quando arriva a tempo come è buono il cadere d'un frutto maturo, da cui scendono alla terra nuovi semi: ma non tocca al tronco dell'albero scuotere da i suoi frutti.

Colui che aveva meditato il suicidio come la fine d'un triste viaggio, sentiva ora che il fiume scorre anche nelle tenebre verso un fine profondo che può essere anche un ritorno.

Ezio seduto all'ombra di quel muricciuolo cercava di richiamare coll'aiuto delle memorie il passato nel presente per rivivere le ore che aveva sbadatamente buttato via, ciascuna delle quali aveva dovuto contenere un sapore non gustato, un valore non apprezzato a tempo, scaduto per sempre, come quello delle vecchie monete che il contadino scopre in un angolo del suo campicello. L'avvenire non paga gl'interessi della vita se non a chi ha saputo ben impiegare il capitale del suo passato: ma può concedere un largo credito a una onesta speranza.

Vivere in una buona speranza è il miglior modo per consolidare l'avvenire nel presente, di dar consistenza al tempo che fugge, di far della vita l'espressione di qualche cosa.

Il cieco non sapeva capire che cosa fosse questa nuova speranza che veniva a sorreggerlo nel momento in cui tutte le forze stavano per abbandonarlo: non capiva nemmeno da dove venisse; ma ne sentiva il caldo raggio intorno al cuore come intorno al capo quello del sole ch'egli non poteva vedere.

Intanto non pensava più a morire,

- Non potresti uccidere in te, tutti quelli che ti amano - aveva detto Flora con ragione. Sì, triste è sopravvivere nel cuore altrui come un triste fantasma. La vita che viviamo in noi è troppo poca cosa in paragone a quella che ci lega agli altri. L'anello non si può strappare senza che tutta una catena di cuori si spezzi. E allora cercar la pace nella morte è un cercar il vantaggio suo nel castigo altrui, qualche cosa di più crudele e nel tempo stesso di più vile che il vivere a spese delle lagrime de' tuoi simili.

La morte che vien da Dio è invece cosa matura e buona, e nessuno dorme così bene come chi dorme benedetto nel cuore d'un fratello.

Flora aveva ragione. A lui pareva già di riposare in questa soave benevolenza piena di carità in cui avevano raccolta una povera anima ferita i suoi parenti, i suoi amici, i servi stessi della casa e le persone in mezzo a cui sentiva di passare, quando andava per le strade del paese. La povera madrina s'era ammalata di dolore, il buon zio Massimo non aveva voluto lasciar la sua casa: perfino quel piccolo uomo di Andreino aveva saputo compiere per lui meravigliosi atti di sacrificio e di coraggio: il Bersi, il buon Cresti.... tutti avevano avuto uno slancio di cuore per salvarlo dal naufragio. E Flora? che dire di questa tenera creatura, di quest'antica compagna della sua infanzia, che gli era venuta incontro nel momento più doloroso, quasi per impedire ch'egli cadesse affranto dai mali, e l'aveva rigenerato nel lavacro ardente di tutte le sue lagrime?

Da troppe parti ora si sentiva assediato e stretto perchè potesse ancora pensare a fuggire. Per tradire tante anime buone gli sarebbe abbisognata una forza ch'egli non possedeva più. Il vecchio egoista si sentiva un Sansone avvilito e disarmato.

 

*

* *

 

Fuori della cinta del giardino continuava a salire nell'erta del monte una strada a scalinata che passando nell'ombra degli ulivi menava a una spianata molto verde e aperta dove spiegavasi la gran luce del cielo e del lago. Qui era anche una piccola grotta naturale rivestita di molte erbe e per la frescura del sito erano stati collocati alcuni sedili che invitavano a restare. Ezio imparò a contare i gradini che menavano fin lassù e una volta arrivato si compiaceva di rimanere a «contemplare» la larga distesa azzurra che dilagava davanti.

Non la vedeva propriamente con gli occhi, ma ne sentiva l'immensità in un non so che di più libero e di più arioso che circondava la sua persona.

Nella freschezza del vento sentiva un refrigerio anche al suo patimento col quale andava a poco a poco familiarizzandosi: e stupiva qualche volta di non sentirsi più così fieramente infelice. Si può amare il proprio dolore? può un'anima stanca riposare nel suo patimento come un viandante affranto dalle fatiche del viaggio trova riposo e sonno sopra un mucchio di spine? può fiorire il dolore come in mezzo alle nevi sboccia un cespuglietto di ellebori? doveva egli credere a una grazia invocata e intervenuta dall'alto o ritenere che nella vita e la fonte inesauribile di tutte le forze sempre fresche e sempre in moto come il mare?

Qualche volta portava lassù il violino che Flora aveva cavato dal polveroso astuccio e messogli nelle mani e si compiaceva di ritrovare le note dei vecchi esercizi sulle corde, evocando nell'oscura memoria frammenti di frasi melodiche che trovavano nel vecchio strumento un obbediente interprete. In breve, nella raccolta tensione del suo spirito, scoprì che le dita e l'archetto andavano agevolmente da in cerca di armonie nuove, di accenti sconosciuti, di voci che egli non aveva mai udito uscire dal cavo legno del suo strumento, quali forse non erano mai state scritte in nessun rigo di musica. Meravigliato inseguiva quelle note e quei gemiti in cui esalava il suo patimento e che avevano la virtù di farlo piangere.

Flora lo sorprese una volta in questa attitudine di ispirata mestizia.

- Tu ti fai bravo - gli disse.

- È sorprendente, Flora. Io comincio ora soltanto a capire che cosa è la musica. Ho sempre creduto che la musica fosse quella scritta sulla carta e mi accorgo invece che l'abbiamo in noi. Con un po' più di pratica meccanica spero di far dire al mio violino delle grandi cose. Capisco come Orfeo movesse le pietre e le piante; è una cosa divina, una cosa che fa quasi paura.

Flora, quando la zia cominciò ad aver meno bisogno di lei, saliva spesso alla grotta per riaccompagnare il cieco in una passeggiata attraverso ai campi, lungo le siepi e intanto raccoglieva un mazzetto di fiori per la sua malata.

Ezio imparò a «vedere i fiori nell'erba». Colla mano leggera toccava la riva erbosa e sceglieva la margherita e il bottone d'oro, il ranuncolo, il timo silvestre, la menta con una delicatezza prodigiosa di tocco.

- E dire che io son sempre stato un grande ignorante in fatto di botanica! e non c'è nulla di più bello di questi fiori naturali che la terra offre per nulla. Mi piacevan tanto quand'ero bambino e che venivo colla povera mamma a passeggiare sui monti. Me li ricordo quei bei fiori di allora... Li vedo tutti come tanti occhi che mi guardano con tenerezza infantile. -

Flora potè accompagnare il povero cieco in passeggiate sempre più lunghe per sentieri diversi nel fitto delle erbe di mano in mano che al venire avanti dell'ottobre anche la stagione si attenuava in una specie di tenera stanchezza.

Il sole entra con minor vampa nella trasparenza della vegetazione più rarefatta, in cui qualche foglia già rosseggiante nel verde accenna a un primo declinare dell'anno. Giornate non troppo lunghe animate da brezzoline settentrionali passano con luminosa freschezza sulle acque del lago, in cui i colori del cielo si smorzano in flutti che sembrano foglie di rose bianche. Le vette dei monti spruzzate dalle prime nevi ricevono al mattino la dipintura rosea del sole che ristora e stanno, se si può dire, quasi a ridere di gioia sotto il velo d'un cielo trasparente e senza fondo. Il rosso carmino delle aurore e dei tramonti urta e si mescola al bel verde smeraldo dei prati innaffiati ogni notte dalle larghe guazze e col grigio dell'acqua che sente già i tremiti paurosi dei venti freddi.

Contemplavano insieme questi spettacoli dagli alti gioghi, ove Ezio amava inerpicarsi o dagli aperti sagrati delle chiesuole sparse pel clivo, dove rimanevano a riposare. Ezio vedeva attraverso alle parole di Flora come dentro a cornici aperte per quella virtù di evocazione che suscita le luminose visioni dell'artista.

Una volta (era verso il tramonto di una giornata serena e mite) sentendo suonare una campanella, si lasciarono condurre dal bisbiglio e dal rumore degli zoccoletti a entrare in una di quelle cineserie che il sole bacia per ultime, mentre le case del villaggio si oscurano nella sera e si avvolgono nel fumo delle cene. Quattro muri chiudono un rozzo altare davanti a cui una povera lampada arde della fede di tanti cuori. La scienza non è mai salita fin lassù, e il dubbio, se mai vi passa stanco e perduto, si arresta volentieri a riposare sulla porta. Entrano le vecchie donne e i coloni che hanno finito di lavorare e quasi di vivere, insieme al rumore delle zoccolette che hanno corso tutto il giorno dietro alle capre: e a quell'unica fiamma d'olio che contrasta coll'ultimo raggio di sole, dietro a una voce che invita seguono le altre a rispondere il rosario in cui di umano e d'intelligibile non c'è che il sentimento che l'ispira. Poi quella stessa voce intona una litania e tutte le altre cantano, nell'ombra crescente, mentre al dondolare della lampada par che escano ombre ed immagini dal rozzo intonaco dei muri.

Ezio quella sera era in vena di cantare e provò a mescolare anche la sua alla voce delle donne e dei ragazzi. Non l'aveva mai fatto in vita sua, nemmeno da bambino le poche volte che la mamma l'aveva condotto in chiesa: più tardi aveva creduto che il cantare in chiesa fosse il teatro dei contadini che mescolano al profumo dell'incenso troppo odore di prossimo selvatico. Ma quella sera i suoi nervi affievoliti furono improvvisamente scossi da una soave pietà per tutte quelle anime che, sprigionandosi dai rozzi corpi, s'armonizzavano in una cantilena che per le finestre aperte usciva a spandersi per il cielo.

Tornarono a casa un po' tardi quel giorno, mentre già usciva qualche stella; e per tutta la strada non si dissero una parola.

 

*

* *

 

Ai primi di ottobre ebbero luogo le fauste nozze di Amedeo e di Regina, alle quali Flora non potè assistere come aveva promesso. A stento trovò un quarto d'ora nella giornata per correre a salutare e baciare all'imbarcadero la sposa, che partiva per un breve viaggio di due giorni fino a Locarno e alla Madonna del Sasso, dove aveva promessa una «divozione». Erano alla riva Bortolo, Maria Giulia, la zia Maddalena, il parente dell'osteria del Gallo, dove s'era celebrato il modesto pranzetto, don Malachia che li aveva benedetti, gli amici barcaiuoli che avevano diviso con Amedeo i trionfi delle regate, le compagne della sposa e una piccola folla di gente del paese, che prendevano parte alla gioia di quei due ragazzi come se fosse la gioia di ciascuno e di tutti. Amedeo vestito di nuovo con una giacchetta di panno nero, su cui spiccava una lunga cravatta celeste, aveva l'aria imbarazzata e confusa di un monello colto sul fatto di una bricconeria, schivava gli occhi degli amici che tentavano di abbracciarlo, e per darsi un'attitudine seguitava a mordere ed accendere un bel sigaro nuovo che gli aveva regalato il signor Cresti in un elegante astuccio di cuoio. Regina in un vestito di pannino grigio su cui il suo bell'oro giallo faceva una stupenda figura con nulla in testa, e per tutto bagaglio uno scialle sul braccio e una valigetta in mano, si lasciava carezzare, baciare e stringere da tutte le donne, da tutte le ragazze che la invidiavano senza rancore. Era un pallida per le molte emozioni e per la stanchezza delle ultime giornate, ma gli occhi sereni e aperti lasciavano vedere fino in fondo la sua felicità resa sicura dall'inconsapevolezza e dalla piena fiducia nell'uomo a cui aveva detto di sì.

Nulla sarebbe stato più fuori di luogo e avrebbe fatta una più bella figura barbina di chi fosse venuto a citare a quei due figliuoli un aforisma sulla vanità delle cose e su la tristezza della vita. Oh sapevan ben essi che cosa fosse la vita, meglio di qualunque filosofo! una citazione amara e pessimista non avrebbe potuto intaccare tale felicità più che la punzecchiatura d'una mosca possa intaccare una statua di bronzo. La loro vita era così ben fusa e così ben colata negli affetti naturali che potevano senza timore affrontare le inclemenze dell'aria e le follie delle stagioni sicuri di acquistar nel tempo, che rode le macerie, anche uno smalto di più sicura bellezza. La natura non teme sofismi.

Mentre aspettava il battello che venisse a portarli via, Regina scorse in una lancetta la signorina Flora che fece un segnale col fazzoletto. Ai remi sedeva Ezio, il povero cieco, che destò un bisbiglio di compassione in tutti i presenti. La sposa si sciolse dalle compagne e scese a riva incontro alla contessina, che saltò a terra e se la prese tra le braccia.

Regina ebbe appena il tempo di nascondere la faccia nel seno della buona amica, perchè un improvviso colpo di pianto le schiantò il cuore.

- Taci, non piangere - le sussurrò Flora. - Non farti sentire, non farti vedere a piangere per me, non c'è ragione. Dio c'è per tutti, specialmente per i più infelici. Vedrai che Iddio mi aiuterà e preparerà anche a me qualche compenso. Tu non cessare di pregare per me, per lui... per tutti. Ho bisogno che Egli compia un miracolo e che mantenga in me la fede che muove le montagne, fa vedere i ciechi e camminare i morti. Guai se viene a mancare la fede a chi cammina sui flutti! si precipiterebbe tutti sul fondo. Pregherai?

- Sì, sì, tutte le volte che mi sentirò più contenta - disse Regina, asciugandosi di nascosto le lagrime.

- Grazie. Io godrò di ogni tua ora felice, Regina. Salutami il tuo Amedeo e digli che non ti rubi troppo. Avrò forse ancora molto bisogno di te....

- Anche lei presto, contessina, farà questo passo. Voglio metterle io, in capo, il velo di sposa.

- Chi sa? l'avvenire è nelle mani di Dio: e non le facciamo noi le strade per cui si cammina. Non meravigliarti se le cose andranno per un'altra strada. -

Regina cercò di scoprire negli occhi della contessina il segreto di queste parole: ma un improvviso squillo di cornetta avvertì che il battello era in vista. Le due giovani si baciarono ancora una volta sulle gote e si sciolsero senza poter pronunciare altre parole. Flora entrò nella lancetta che si distaccò lentamente dalla riva, mentre nuovi auguri e nuovi evviva salutavano i due sposi.

 

*

* *

 

L'ottobre a un tratto si volse al piovoso, e, come accade spesso, la stagione precipitò verso l'inverno con giornate tristi e agitate da freddi venti di nord.

Il dottore fece intendere che il rimanere sul lago non poteva essere prudente per donna Vincenzina, che usciva da una grossa battaglia; e consigliò un lungo soggiorno in Riviera, dove anche Ezio avrebbe potuto trovare più conforto nella mitezza del clima.

Massimo approvò questo consiglio e si offerse di essere compagno e guida. La zia Vincenzina mise quasi per condizione che anche Flora l'accompagnasse. Era un premio che la sua infermiera s'era ben meritato; e non avrebbe fatto male manco a lei un mese di riposo dopo si grandi strapazzi. Ma bisognava ottenere l'approvazione del signor Cresti, dell'impaziente fidanzato, che vedevasi offeso nei suoi diritti per ogni minuto sottratto alla sua felicità.

Questa partenza, foss'anche per un mese solo, minacciava di ritardare ancora un matrimonio, che era già andato fin troppo per le lunghe tra mille dolorosi accidenti.

Ma la zia Vincenzina assunse sopra di l'incarico di scrivere al signor del Pioppino una bella lettera, a nome anche di Massimo, per implorare la desiderata grazia. Un mese di riposo in Riviera avrebbe restituita una sposa ancor più bella e robusta; e del resto chi impediva il signor Cresti di fare un paio di valigie e di partire anche lui in compagnia?

La zia lesse la lettera a Flora che s'incaricò di farla recapitare; e seguendo un suo segreto pensiero, colse questo pretesto per andare essa stessa in cerca del suo padrone e fidanzato, lassù al Pioppino.


 

 

 




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