VII.
Verso la luce.
Una sera donna Vincenzina,
sentendosi dei brividi nelle ossa, andò a letto più presto del solito. La notte
i brividi divennero febbre, che crebbe sul mattino forte e ardente. Le
sensazioni troppo violente dei giorni passati dovevano avere il loro
contraccolpo nel suo temperamento non abituato alle fiere battaglie della vita.
Il dottore, chiamato d'urgenza,
giudicò il caso non gravissimo; ma avvertì di stare in guardia contro i
pericoli di una febbre infettiva
Due giorni dopo si dichiarò il
tifo, con tutti i suoi sintomi di coma e di delirio.
Non essendovi a Villa Serena una
donna giovine che potesse assistere la malata, nè potendosi far molto conto
sopra la povera Matilde e meno sulla vecchia Bernarda, Flora trovò che il suo
posto era accanto al letto della zia, e nessuno osò contrastarla.. Per tre
settimane, quanto durò il primo periodo del male, quasi non si tolse il vestito
da dosso, ritrovando nella sua energia, non solo la forza di assistere la
inferma ma anche quella di far andare la casa in modo che ognuno avesse il suo
posto e il suo da fare. Massimo restò fin che gli parve di non essere
d'impedimento: e fu un bene, perchè intorno a lui si raccolsero gli altri come
intorno a un capo di famiglia.
In quest'improvviso sconcerto,
nell'apprensione comune, Ezio dimenticò alquanto sè stesso e cercò di farsi
dimenticare. E nell'alternativa di bene e di male, di speranze e di timori, che
formavano la vita di quelle dolorose settimane, seguì un tempo di tregua
salutare per lui e per tutti gli altri. Lo stesso Cresti che veniva sempre a
chiedere notizie della malata non osava pensare alla sua felicità.
Per non essere d'imbarazzo Ezio
usciva spesso a passeggiare solo per le stradine a lui note, ora verso la
chiesa dove s'incontrava spesso coll'arciprete, ora verso il cimitero dov'erano
sepolti i suoi cari, un cimitero romito e tranquillo in mezzo alle vigne; e vi
restava volentieri seduto all'ombra del muricciuolo a leggere sè stesso.
Intorno a lui ronzavano i mosconi
nel caldo odore dell'erba tagliata e messa a seccare. Frulli d'ala, cinguettii
di passeri vagabondi e i colpi spessi delle coti sulle falci, portati dal vento
e mescolati alle voci erranti del villaggio, gli facevano intorno un piccolo
mondo, in cui sentiva mescolarsi la vita alla morte.
Poco lontano, colle teste quasi
appoggiate al muricciuolo, ov'egli sedeva, dormivano suo padre e sua madre. Per
poco ch'egli discendesse coll'occhio dell'anima sotto le zolle fiorite, ne
rivedeva le care spoglie composte nell'eterno silenzio, immagini evidenti come
non eran tornate mai davanti al suo occhio vivo, quando altre forze lo
trascinavano ad altri pensieri. Ora fatto più chiaroveggente e più penetrante
il suo spirito non si arrestava più alla superficie delle cose, ma come se una
mano potente levasse il muro che separa il regno dei vivi da quello dei morti,
vedeva allargarsi lo spazio in cui si muovono le cose.
Siam noi che ci sforziamo di alzare
una barriera tra i vivi ed i morti; ma veramente la natura non sa dove gli uni
finiscano e dove incominciano gli altri. Le cose vanno in una seguìta
continuità trascinate dall'intimo spirito che le penetra, mormorando tra loro
in un pensiero solo che le raccoglie, sommessa armonia che sfugge a chi ha
l'orecchio pieno di frastuoni mondani, ma che le anime raccolte sentono passare
insieme alle mille cose che scendono nel tempo. La morte non è che un
principio. Essa è buona quando arriva a tempo come è buono il cadere d'un
frutto maturo, da cui scendono alla terra nuovi semi: ma non tocca al tronco
dell'albero scuotere da sè i suoi frutti.
Colui che aveva meditato il
suicidio come la fine d'un triste viaggio, sentiva ora che il fiume scorre
anche nelle tenebre verso un fine profondo che può essere anche un ritorno.
Ezio seduto all'ombra di quel
muricciuolo cercava di richiamare coll'aiuto delle memorie il passato nel
presente per rivivere le ore che aveva sbadatamente buttato via, ciascuna delle
quali aveva dovuto contenere un sapore non gustato, un valore non apprezzato a
tempo, scaduto per sempre, come quello delle vecchie monete che il contadino
scopre in un angolo del suo campicello. L'avvenire non paga gl'interessi della
vita se non a chi ha saputo ben impiegare il capitale del suo passato: ma può
concedere un largo credito a una onesta speranza.
Vivere in una buona speranza è il
miglior modo per consolidare l'avvenire nel presente, di dar consistenza al
tempo che fugge, di far della vita l'espressione di qualche cosa.
Il cieco non sapeva capire che cosa
fosse questa nuova speranza che veniva a sorreggerlo nel momento in cui tutte
le forze stavano per abbandonarlo: non capiva nemmeno da dove venisse; ma ne
sentiva il caldo raggio intorno al cuore come intorno al capo quello del sole
ch'egli non poteva vedere.
Intanto non pensava più a morire,
- Non potresti uccidere in te,
tutti quelli che ti amano - aveva detto Flora con ragione. Sì, triste è
sopravvivere nel cuore altrui come un triste fantasma. La vita che viviamo in
noi è troppo poca cosa in paragone a quella che ci lega agli altri. L'anello
non si può strappare senza che tutta una catena di cuori si spezzi. E allora
cercar la pace nella morte è un cercar il vantaggio suo nel castigo altrui,
qualche cosa di più crudele e nel tempo stesso di più vile che il vivere a
spese delle lagrime de' tuoi simili.
La morte che vien da Dio è invece
cosa matura e buona, e nessuno dorme così bene come chi dorme benedetto nel
cuore d'un fratello.
Flora aveva ragione. A lui pareva
già di riposare in questa soave benevolenza piena di carità in cui avevano
raccolta una povera anima ferita i suoi parenti, i suoi amici, i servi stessi
della casa e le persone in mezzo a cui sentiva di passare, quando andava per le
strade del paese. La povera madrina s'era ammalata di dolore, il buon zio Massimo
non aveva voluto lasciar la sua casa: perfino quel piccolo uomo di Andreino
aveva saputo compiere per lui meravigliosi atti di sacrificio e di coraggio: il
Bersi, il buon Cresti.... tutti avevano avuto uno slancio di cuore per salvarlo
dal naufragio. E Flora? che dire di questa tenera creatura, di quest'antica
compagna della sua infanzia, che gli era venuta incontro nel momento più
doloroso, quasi per impedire ch'egli cadesse affranto dai mali, e l'aveva
rigenerato nel lavacro ardente di tutte le sue lagrime?
Da troppe parti ora si sentiva
assediato e stretto perchè potesse ancora pensare a fuggire. Per tradire tante
anime buone gli sarebbe abbisognata una forza ch'egli non possedeva più. Il
vecchio egoista si sentiva un Sansone avvilito e disarmato.
*
* *
Fuori della cinta del giardino
continuava a salire nell'erta del monte una strada a scalinata che passando
nell'ombra degli ulivi menava a una spianata molto verde e aperta dove
spiegavasi la gran luce del cielo e del lago. Qui era anche una piccola grotta
naturale rivestita di molte erbe e per la frescura del sito erano stati
collocati alcuni sedili che invitavano a restare. Ezio imparò a contare i
gradini che menavano fin lassù e una volta arrivato si compiaceva di rimanere a
«contemplare» la larga distesa azzurra che dilagava davanti.
Non la vedeva propriamente con gli
occhi, ma ne sentiva l'immensità in un non so che di più libero e di più arioso
che circondava la sua persona.
Nella freschezza del vento sentiva
un refrigerio anche al suo patimento col quale andava a poco a poco
familiarizzandosi: e stupiva qualche volta di non sentirsi più così fieramente
infelice. Si può amare il proprio dolore? può un'anima stanca riposare nel suo
patimento come un viandante affranto dalle fatiche del viaggio trova riposo e
sonno sopra un mucchio di spine? può fiorire il dolore come in mezzo alle nevi
sboccia un cespuglietto di ellebori? doveva egli credere a una grazia invocata
e intervenuta dall'alto o ritenere che nella vita e la fonte inesauribile di
tutte le forze sempre fresche e sempre in moto come il mare?
Qualche volta portava lassù il
violino che Flora aveva cavato dal polveroso astuccio e messogli nelle mani e
si compiaceva di ritrovare le note dei vecchi esercizi sulle corde, evocando
nell'oscura memoria frammenti di frasi melodiche che trovavano nel vecchio
strumento un obbediente interprete. In breve, nella raccolta tensione del suo
spirito, scoprì che le dita e l'archetto andavano agevolmente da sè in cerca di
armonie nuove, di accenti sconosciuti, di voci che egli non aveva mai udito
uscire dal cavo legno del suo strumento, quali forse non erano mai state
scritte in nessun rigo di musica. Meravigliato inseguiva quelle note e quei
gemiti in cui esalava il suo patimento e che avevano la virtù di farlo piangere.
Flora lo sorprese una volta in
questa attitudine di ispirata mestizia.
- Tu ti fai bravo - gli disse.
- È sorprendente, Flora. Io
comincio ora soltanto a capire che cosa è la musica. Ho sempre creduto che la
musica fosse quella scritta sulla carta e mi accorgo invece che l'abbiamo in
noi. Con un po' più di pratica meccanica spero di far dire al mio violino delle
grandi cose. Capisco come Orfeo movesse le pietre e le piante; è una cosa
divina, una cosa che fa quasi paura.
Flora, quando la zia cominciò ad
aver meno bisogno di lei, saliva spesso alla grotta per riaccompagnare il cieco
in una passeggiata attraverso ai campi, lungo le siepi e intanto raccoglieva un
mazzetto di fiori per la sua malata.
Ezio imparò a «vedere i fiori
nell'erba». Colla mano leggera toccava la riva erbosa e sceglieva la margherita
e il bottone d'oro, il ranuncolo, il timo silvestre, la menta con una
delicatezza prodigiosa di tocco.
- E dire che io son sempre stato un
grande ignorante in fatto di botanica! e non c'è nulla di più bello di questi
fiori naturali che la terra offre per nulla. Mi piacevan tanto quand'ero
bambino e che venivo colla povera mamma a passeggiare sui monti. Me li ricordo
quei bei fiori di allora... Li vedo tutti come tanti occhi che mi guardano con
tenerezza infantile. -
Flora potè accompagnare il povero
cieco in passeggiate sempre più lunghe per sentieri diversi nel fitto delle
erbe di mano in mano che al venire avanti dell'ottobre anche la stagione si
attenuava in una specie di tenera stanchezza.
Il sole entra con minor vampa nella
trasparenza della vegetazione più rarefatta, in cui qualche foglia già
rosseggiante nel verde accenna a un primo declinare dell'anno. Giornate non
troppo lunghe animate da brezzoline settentrionali passano con luminosa freschezza
sulle acque del lago, in cui i colori del cielo si smorzano in flutti che
sembrano foglie di rose bianche. Le vette dei monti spruzzate dalle prime nevi
ricevono al mattino la dipintura rosea del sole che ristora e stanno, se si può
dire, quasi a ridere di gioia sotto il velo d'un cielo trasparente e senza
fondo. Il rosso carmino delle aurore e dei tramonti urta e si mescola al bel
verde smeraldo dei prati innaffiati ogni notte dalle larghe guazze e col grigio
dell'acqua che sente già i tremiti paurosi dei venti freddi.
Contemplavano insieme questi
spettacoli dagli alti gioghi, ove Ezio amava inerpicarsi o dagli aperti sagrati
delle chiesuole sparse pel clivo, dove rimanevano a riposare. Ezio vedeva
attraverso alle parole di Flora come dentro a cornici aperte per quella virtù
di evocazione che suscita le luminose visioni dell'artista.
Una volta (era verso il tramonto di
una giornata serena e mite) sentendo suonare una campanella, si lasciarono
condurre dal bisbiglio e dal rumore degli zoccoletti a entrare in una di quelle
cineserie che il sole bacia per ultime, mentre le case del villaggio si
oscurano nella sera e si avvolgono nel fumo delle cene. Quattro muri chiudono
un rozzo altare davanti a cui una povera lampada arde della fede di tanti
cuori. La scienza non è mai salita fin lassù, e il dubbio, se mai vi passa
stanco e perduto, si arresta volentieri a riposare sulla porta. Entrano le
vecchie donne e i coloni che hanno finito di lavorare e quasi di vivere,
insieme al rumore delle zoccolette che hanno corso tutto il giorno dietro alle
capre: e a quell'unica fiamma d'olio che contrasta coll'ultimo raggio di sole,
dietro a una voce che invita seguono le altre a rispondere il rosario in cui di
umano e d'intelligibile non c'è che il sentimento che l'ispira. Poi quella
stessa voce intona una litania e tutte le altre cantano, nell'ombra crescente,
mentre al dondolare della lampada par che escano ombre ed immagini dal rozzo
intonaco dei muri.
Ezio quella sera era in vena di
cantare e provò a mescolare anche la sua alla voce delle donne e dei ragazzi.
Non l'aveva mai fatto in vita sua, nemmeno da bambino le poche volte che la
mamma l'aveva condotto in chiesa: più tardi aveva creduto che il cantare in
chiesa fosse il teatro dei contadini che mescolano al profumo dell'incenso
troppo odore di prossimo selvatico. Ma quella sera i suoi nervi affievoliti
furono improvvisamente scossi da una soave pietà per tutte quelle anime che,
sprigionandosi dai rozzi corpi, s'armonizzavano in una cantilena che per le
finestre aperte usciva a spandersi per il cielo.
Tornarono a casa un po' tardi quel
giorno, mentre già usciva qualche stella; e per tutta la strada non si dissero
una parola.
*
* *
Ai primi di ottobre ebbero luogo le
fauste nozze di Amedeo e di Regina, alle quali Flora non potè assistere come
aveva promesso. A stento trovò un quarto d'ora nella giornata per correre a
salutare e baciare all'imbarcadero la sposa, che partiva per un breve viaggio
di due giorni fino a Locarno e alla Madonna del Sasso, dove aveva promessa una
«divozione». Erano alla riva Bortolo, Maria Giulia, la zia Maddalena, il
parente dell'osteria del Gallo, dove s'era celebrato il modesto pranzetto, don
Malachia che li aveva benedetti, gli amici barcaiuoli che avevano diviso con
Amedeo i trionfi delle regate, le compagne della sposa e una piccola folla di
gente del paese, che prendevano parte alla gioia di quei due ragazzi come se
fosse la gioia di ciascuno e di tutti. Amedeo vestito di nuovo con una
giacchetta di panno nero, su cui spiccava una lunga cravatta celeste, aveva
l'aria imbarazzata e confusa di un monello colto sul fatto di una bricconeria,
schivava gli occhi degli amici che tentavano di abbracciarlo, e per darsi
un'attitudine seguitava a mordere ed accendere un bel sigaro nuovo che gli
aveva regalato il signor Cresti in un elegante astuccio di cuoio. Regina in un
vestito di pannino grigio su cui il suo bell'oro giallo faceva una stupenda
figura con nulla in testa, e per tutto bagaglio uno scialle sul braccio e una
valigetta in mano, si lasciava carezzare, baciare e stringere da tutte le
donne, da tutte le ragazze che la invidiavano senza rancore. Era un pò pallida
per le molte emozioni e per la stanchezza delle ultime giornate, ma gli occhi
sereni e aperti lasciavano vedere fino in fondo la sua felicità resa sicura
dall'inconsapevolezza e dalla piena fiducia nell'uomo a cui aveva detto di sì.
Nulla sarebbe stato più fuori di
luogo e avrebbe fatta una più bella figura barbina di chi fosse venuto a citare
a quei due figliuoli un aforisma sulla vanità delle cose e su la tristezza
della vita. Oh sapevan ben essi che cosa fosse la vita, meglio di qualunque
filosofo! una citazione amara e pessimista non avrebbe potuto intaccare tale
felicità più che la punzecchiatura d'una mosca possa intaccare una statua di
bronzo. La loro vita era così ben fusa e così ben colata negli affetti naturali
che potevano senza timore affrontare le inclemenze dell'aria e le follie delle
stagioni sicuri di acquistar nel tempo, che rode le macerie, anche uno smalto
di più sicura bellezza. La natura non teme sofismi.
Mentre aspettava il battello che
venisse a portarli via, Regina scorse in una lancetta la signorina Flora che
fece un segnale col fazzoletto. Ai remi sedeva Ezio, il povero cieco, che destò
un bisbiglio di compassione in tutti i presenti. La sposa si sciolse dalle
compagne e scese a riva incontro alla contessina, che saltò a terra e se la
prese tra le braccia.
Regina ebbe appena il tempo di
nascondere la faccia nel seno della buona amica, perchè un improvviso colpo di
pianto le schiantò il cuore.
- Taci, non piangere - le sussurrò
Flora. - Non farti sentire, non farti vedere a piangere per me, non c'è
ragione. Dio c'è per tutti, specialmente per i più infelici. Vedrai che Iddio mi
aiuterà e preparerà anche a me qualche compenso. Tu non cessare di pregare per
me, per lui... per tutti. Ho bisogno che Egli compia un miracolo e che
mantenga in me la fede che muove le montagne, fa vedere i ciechi e camminare i
morti. Guai se viene a mancare la fede a chi cammina sui flutti! si
precipiterebbe tutti sul fondo. Pregherai?
- Sì, sì, tutte le volte che mi
sentirò più contenta - disse Regina, asciugandosi di nascosto le lagrime.
- Grazie. Io godrò di ogni tua ora
felice, Regina. Salutami il tuo Amedeo e digli che non ti rubi troppo. Avrò
forse ancora molto bisogno di te....
- Anche lei presto, contessina,
farà questo passo. Voglio metterle io, in capo, il velo di sposa.
- Chi sa? l'avvenire è nelle mani
di Dio: e non le facciamo noi le strade per cui si cammina. Non meravigliarti
se le cose andranno per un'altra strada. -
Regina cercò di scoprire negli
occhi della contessina il segreto di queste parole: ma un improvviso squillo di
cornetta avvertì che il battello era in vista. Le due giovani si baciarono
ancora una volta sulle gote e si sciolsero senza poter pronunciare altre
parole. Flora entrò nella lancetta che si distaccò lentamente dalla riva,
mentre nuovi auguri e nuovi evviva salutavano i due sposi.
*
* *
L'ottobre a un tratto si volse al
piovoso, e, come accade spesso, la stagione precipitò verso l'inverno con
giornate tristi e agitate da freddi venti di nord.
Il dottore fece intendere che il
rimanere sul lago non poteva essere prudente per donna Vincenzina, che usciva
da una grossa battaglia; e consigliò un lungo soggiorno in Riviera, dove anche
Ezio avrebbe potuto trovare più conforto nella mitezza del clima.
Massimo approvò questo consiglio e
si offerse di essere compagno e guida. La zia Vincenzina mise quasi per
condizione che anche Flora l'accompagnasse. Era un premio che la sua infermiera
s'era ben meritato; e non avrebbe fatto male manco a lei un mese di riposo dopo
si grandi strapazzi. Ma bisognava ottenere l'approvazione del signor Cresti,
dell'impaziente fidanzato, che vedevasi offeso nei suoi diritti per ogni minuto
sottratto alla sua felicità.
Questa partenza, foss'anche per un
mese solo, minacciava di ritardare ancora un matrimonio, che era già andato fin
troppo per le lunghe tra mille dolorosi accidenti.
Ma la zia Vincenzina assunse sopra
di sè l'incarico di scrivere al signor del Pioppino una bella lettera, a nome
anche di Massimo, per implorare la desiderata grazia. Un mese di riposo in
Riviera avrebbe restituita una sposa ancor più bella e robusta; e del resto chi
impediva il signor Cresti di fare un paio di valigie e di partire anche lui in
compagnia?
La zia lesse la lettera a Flora che
s'incaricò di farla recapitare; e seguendo un suo segreto pensiero, colse
questo pretesto per andare essa stessa in cerca del suo padrone e fidanzato,
lassù al Pioppino.
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