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Emilio De Marchi
Col fuoco non si scherza

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  • PARTE SECONDA.
    • VIII.   Verso le tenebre
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VIII.

 

Verso le tenebre.

 

Pioveva a dirotto quando Cresti la vide venire per il viale delle mortelle sotto un piccolo ombrello, che riparava a stento la testa, colle gonnelle raccolte sui fianchi per difenderle contro i colpi di vento.

A tutta prima stentò a riconoscerla: poi disse correndole incontro: - Flora? al Pioppino con questo tempo?

- Proprio io. Mi son fidata un po' troppo del tempo e l'acquazzone mi ha colta a mezza via: ma d'altra parte non potevo tardare - soggiunse correndo a ripararsi sotto il portichetto, dove depose in un cantuccio l'ombrello grondante e scosse la pioggia dalle vesti.

- Entriamo in casa dove faremo una fiammata. Ma che idea con questo tempo?

- Avevo urgente bisogno di parlarle, Cresti.

- Sarei venuto io stesso abbasso.

- No, ho bisogno di parlarle qui, in casa sua, senza testimoni.

- O diavolo, un affar diplomatico - soggiunse lo sposo, offrendole il braccio e guidandola verso il salotto. Quando furon nell'andito, abbassando un poco la voce, riprese in tono carezzevole: - Non si era rimasti d'accordo di trattarci un po' più in confidenza? che cos'è questo lei, che imbroglia tanto tutt'e due? -

Flora rispose con un moto del capo e con un freddo sorriso: ma Cresti capì che per quanto cercasse di farsi forza, la fanciulla aveva lo spirito agitato.

Il fuoco fu presto acceso. Cresti accostò una poltrona e invitò la fanciulla ad asciugarsi i piedi. Flora si levò il cappello e accomodò un poco colle mani la testa scomposta.

- Dunque a che cosa devo attribuire questa visita straordinaria?

- Ora dirò. Ma prima mi dia la sua mano, me la dia da vecchio amico e mi prometta di essere buono.

- Quando fui cattivo con.... lei, signorina? - mormorò egli, piegando un poco la testa per cercare uno sguardo d'incoraggiamento: ma Flora guardava fissa nel fuoco.

- È forse necessario chiudere anche la porta? - chiese di a poco il padrone di casa, dopo aver ordinato all'Angiolina un caffè molto caldo.

- Non avremo bisogno di leticare.

- È però un grande discorso, da quel che vedo.

- Sì, grande. Avrei potuto scrivere, ma ho detto: «No, è meglio che vada io stessa e che gli parli.» La mamma non sa che son qui e non mi approverebbe se potesse indovinare perchè son venuta. - Flora lottò ancora un istante contro l'affanno che l'opprimeva, poi soggiunse:

- Ho una lettera della zia Vincenzina per lei, Cresti: veda - e gliela porse.

- Donna Vincenzina? in che cosa posso servirla? - E fattosi più presso la finestra per aver più luce, scorse lentamente i pochi periodi con cui si faceva appello alla sua indulgenza.

- Sta bene l'idea d'un soggiorno in Riviera; certamente farà bene a tutti. Sicuro che si rimanda ancora alle calende greche il nostro matrimonio, ma non vorrei aver l'aria di un tiranno. Che cosa pensa la mamma di questo progetto?

- Povera mamma! sento che io sono una cattiva figliuola per lei, come sono una cattiva amica per il mio buon Cresti, e una cattiva compagna per me stessa.

- Qualche volta sì - approvò con una punta di canzonatura il romito del Pioppino. - Ma veniamo al nostro caso. Per quanto il rimandare di qualche mese ancora quel che dovrebbe essere già fatto mi pesi un poco, tuttavia, per non dir di no alla zia, ci si potrebbe intendere.

Il Ravellino non è ancor pronto; ma sentiamo: ottobre, novembre.... bastano? -

Cresti tenne alzate le due dita aperte, agitandole nell'aria, poi riprese: - Possiamo far i conti almeno per la Madonna di dicembre?

- Non so! - rispose faticosamente la sposina senza togliere gli occhi dalla fiamma.

- Io non voglio, saprei essere un tiranno: ma ho pur bisogno di far i miei conti. Non parlo, s'intende, de' miei diritti e delle mie legittime impazienze; ma via, se la Riviera deve far bene anche a noi, giorno più giorno meno, non è quel che conta. Che cosa dice la mamma?

- Non sa nulla - rispose con tono asciutto e pauroso la signorina. Il segreto pensiero che l'aveva condotta a questo colloquio s'irrigidì quasi visibilmente nei tratti del suo volto pallido e stanco.

- Cioè.... intendiamoci - balbettò il pover'uomo che cominciava a non capire. - Questo viaggio sarebbe per caso un pretesto per... per... -

Flora si coprì gli occhi colla mano, in cui raccolse tutte le rughe della sua fronte dolente.

Cresti credette questa volta di capir troppo e s'impaurì. Che diavolo voleva dire questo improvviso scoraggiamento, questo parlar sibillino? Si smarrì, barcollò sulla sedia, si alzò, mosse un poco le mani in aria e chiese soffrendo: - Che c'è? non capisco... cioè temo di capir troppo. O Dio, Flora, m'inganno o è dunque vero, è dunque vero quel che io temo da un pezzo?

- Noi dobbiamo essere sinceri, Cresti: sì, noi dobbiamo essere forti e sinceri - ripigliò la signorina del Castelletto rianimandosi, alzandosi essa pure come per darsi quella forza di cui aveva bisogno. - Io non posso ingannare, Cresti vuol essere ingannato. Oggi sono troppo necessaria a quella povera gente, perchè possa pensare di abbandonarla.

- Io... non dico che si abbia ad abbandonare nessuno - balbettò il poverino - ma chiedo solo se Flora è venuta a portarmi la morte.

- Cresti, mio buon Cresti! - proruppe con un vivo abbandono di cuore la fanciulla, afferrando la mano inerte del povero amico, che si era oscurato tutto e quasi rattrappito nel suo tetro dolore.

- Oggi le cose son tutte mutate. Una grande disgrazia, un grande castigo ha colpito quel poverino. Dio non vuole che io l'abbandoni. Il mio posto è accanto a lui. Era scritto che io doveva essere per lui qualche cosa. Non potendo essere altro, sarò la sua infermiera, la sua guida. Devo vivere per aiutare lui a vivere: devo volere e vedere per lui: devo accompagnarlo fin dove Dio vorrà, per quella strada che Dio vorrà, consacrandomi a lui, tutta a lui che non vedrà più la luce del sole. Sento che l'anima sua è nella mia mano. -

La voce di Flora dapprima esitante s'era andata via via rinfrancando con un calore di convinzione che non poteva non ferire il suo timido amico. Dopo aver cercato invano due o tre volte di sorridere alle nobili declamazioni della signorina e a quel gesto con cui faceva vedere di stringere un'anima in pugno, uscì finalmente a dire con un tono tra l'amaro e il beffardo:

- Dio, già, già: è così comodo questo benedetto Iddio che è peccato non credergli...

- Egli parla attraverso il nostro cuore.

- Come in un fonografo... Eh via, è una commedia! - aggiunse con asprezza quel pover'uomo oltraggiato. - Ho diritto anch'io a qualche rispetto. -

Flora sentì alla sua volta il colpo degli oltraggi ch'egli le gettava in viso e si lasciò cadere sulla sedia.

Seguì un minuto di silenzio gelido, duro, pieno di oscure tristezze, durante il quale si fece sentire la pioggia battere contro ai vetri.

Fu ancora essa la prima a uscirne. L'uomo si sentiva così irrigidito nel male, che temeva quasi di dover spezzarsi e cadere in frantumi al minimo sforzo che avesse fatto per parlare. L'unica idea che gli andava al capo investendolo come una fiamma era quella che aveva già espresso colle parole: «Ho diritto anch'io a qualche rispetto...» Ma dai denti non usciva che un sibilo morto.

- C'è qualche cosa che è sempre più forte di noi, amico Cresti: e se il nome di Dio la offende in questo momento, ebbene la chiami pure fatalità: ma preferisco essere disprezzata e odiata piuttosto che avvilirmi ad ingannare la bontà d'un uomo giusto. Questa confessione non deve offenderla, Cresti, perchè ella sa che non è storia di ieri. Siam cresciuti quasi insieme, come fratello e sorella, Ezio ed io: insieme è cresciuta in me quell'affezione che ora si fa prepotentemente sentire e ch'è più forte di me e delle mie promesse. Avevo potuto rinunciare a lui quand'era superbo e felice: non posso abbandonarlo ora che è così misero. Amo il suo dolore. Io non ho cercato questi avvenimenti; lo sa: ero quasi superba d'aver rinunciato a lui; ma la fatalità fu più forte di noi tutti. Oggi quella pover'anima ha così bisogno di me che io non potrei essere d'altri senza rimorso e senza raccapriccio. È illogico? ebbene il mio buon Cresti non potrà accusarmi di egoismo e di grettezza di cuore. Sento tutto il male che faccio al mio vecchio amico: sento che non potrei in un modo peggiore ricompensare la sua devozione, il suo affetto: sento che per poco lo rendo il giuoco della mia volubilità: ma qui davanti a lui, nella sua casa, io non devo ragioni ad altri che a lui e non voglio essere quel che non sono.

Egli mi deve giudicare perchè appartengo più a lui che a me, ed egli conosce la storia del mio cuore più di quanto la conosco io stessa. So tutto il bene che perdo e non so a quale destino di miseri dolori mi consacro: ma oggi non posso abbandonarlo, no, senza esporre la sua anima debole e vacillante ai pericoli d'una nera disperazione. Dio mi ha messa nella mano un'anima e non posso allargare la mano. Un mio amico protettore mi offre amore, ricchezza, agiatezza, pace con decoro, per sempre: questo povero cieco non mi può offrire che tristezze. Per Cresti potevo essere più che una sorella, sarei stata una regina. Per Ezio... che cosa potrò essere? non so, non oso cercare. Non sarà Dio che parla attraverso al cuore, ma sento che una forza invincibile mi chiama a compiere questo dovere.

- Dovere? - mormorò con ironica meraviglia - non storpiamo i nomi più sacri.

- Il mio posto...

- E nell'assurdo.

- No, Cresti: nella sincerità. -

Era un'aspra sentenza in una dolce parola che veniva a cadergli sul capo. Illogico, assurdo o mostruoso, che valeva ormai contrastare a ciò che fatalmente era andato tanto avanti? Sincerità voleva dire partita perduta. Del resto, se tornava indietro col pensiero, quel che la signorina del Castelletto era venuta a dire non era interamente ignoto a lui che per molti anni aveva assistito al lungo e silenzioso aspettare di quell'amore. Più d'una volta aveva preso parte egli stesso ai dubbiosi dibattiti di quel cuore e aveva sofferto delle ingiurie che gli erano state fatte: ora non vedeva che avverarsi in un atto per lui mollificante, ma non imprevisto, le mille apprensioni, i mille oscuri sospetti, le segrete paure e le gelosie del suo stesso amore. Era dunque fatale che ciò avvenisse.

- E la mamma che dirà? - provò a chiedere.

Il colloquio fu interrotto dall'entrare di Angiolina che portava il caffè. Il padrone tolse di mano alla donna il servizio e colla minuzia dell'uomo ordinato e casalingo versò egli stesso il caffè e porse la chicchera alla signorina.

- Sediamoci, Flora - riprese a dire poco dopo sottovoce, mentre rimestava col cucchiaino nella sua chicchera. - Sediamo e lasciamo riposare un momento il cuore. Posso dire di avere sempre temuto questo istante doloroso, quantunque l'avessi più temuto che preveduto. Può essere che domani mi sembri la cosa più naturale del mondo e che l'assurdo sia io: e dovrà essere così, perchè non per nulla un uomo come son io ha potuto vegetare fin quasi a quarant'anni in una vita solitaria, scontrosa, senza scopo e senza corrispondenza di spirito. Io son stato assurdo quel che ho potuto credermi degno di qualche considerazione.

- Non dica questo - cercò di protestare Flora che sentiva lo strazio di quelle parole. - La nostra riconoscenza...

- Oh, la vostra riconoscenza non mi potrà mancare, lo so: anzi farete di tutto per pagarmela in lire soldi e quattrini.

- No, no, Cresti.

- Sì, sì, non vi mancheranno i mezzi per pagarmi e ve ne dovrò rilasciare ampia ricevuta, perchè non abbiate ad averne il più piccolo scrupolo. Così sarà fatta la volontà di Dio. -

La voce dell'uomo ferito rantolò, l'occhio addolorato si accese di una tenue fiamma d'orgoglio. Egli si mosse di nuovo come se scattasse da irti aculei, girò per la stanza lottando con tutto stesso, portando ora una mano ora l'altra alla bocca quasi per voglia di mordere, finchè voltando le spalle alla signorina Polony si fermò davanti ai vetri di una finestra vibrando in tutti i muscoli del suo piccolo corpo robusto, reso quasi cieco da un velo di lagrime morte che non sapeva più trattenere.

Flora ebbe pietà di quel gran dolore: ma non avendo più parole per consolarlo, nascose la testa fra le mani e stette così piangente in un'attitudine di umile colpevole.

Durante questo nuovo silenzio si sentì ancora la pioggia cruda battere contro i vetri e fremere sulle depresse foglie del giardino.

Le case a riva parevano agli occhi del povero Cresti sprofondate in una oscura lontananza, il cielo basso e ristretto, le cose tutte chiuse in una grigia tristezza.

E una grigia tristezza pioveva nel suo cuore. Qualche cosa di vitale si accorse che cominciava a venir meno in lui. Qualcuno già piangeva sul povero Cresti che una forza brutale trascinava a morire nel ridicolo e nell'umiliazione.

A sentir singhiozzare si voltò e vide Flora scossa dal pianto, che riempiva di lagrime il fazzoletto. Eran lagrime di sincera pietà per il male che era venuta a portare colle sue mani. Essa per la prima era la vittima delle cose. Qual colpa aveva lei se non poteva offrire un amore che non era mai nato? bisognava tener conto del suo coraggio, della sua sincerità; e perchè era venuta a deporre ai piedi di un vecchio amico la confessione del suo cuore, bisognava non negare un segno di riconoscimento a quell'atto di coraggiosa sincerità.

Non bisognava infine denudar troppo un vecchio e poco attraente amor proprio, non avvilir troppo un'antica dignità, non rimpicciolirsi troppo nelle proprie sconfitte. Cresti insomma davanti a quella bambina piangente si sentì ancora il più forte, forse perchè volle essere il più orgoglioso. Vecchio amico e protettore sentì che toccava a lui a dir la parola definitiva e si affrettò a cercarla.

- La mamma non sa nulla.... dunque....

- No.

- E non immagina nemmeno.

- Essa non vuol nemmeno che io accompagni la zia Vincenzina.

- Capisco che ella non possa approvare.... perchè... via.... quali sono i vostri progetti? ma io non voglio saper nulla di quello che non mi riguarda. Dirò solamente alla mamma le ragioni per le quali può parere utile che Flora accompagni la zia e resti per qualche mese in Riviera: le farò capire che potrei accompagnarvi o raggiungervi dopo qualche tempo e che intanto il nostro matrimonio si ritarda: va bene? -

E dopo un'altro istante di combattimento riprese: - Per ora mi pare inutile turbare la pace della povera mamma con delle spiegazioni che essa non capirebbe e che ci metterebbero tutti in un grave imbarazzo. E così anche alla gente si potrà dire che il matrimonio è rimandato a tempo indeterminato.... va bene? - a poco a poco potremo preparare la così detta opinione pubblica ad accettare i fatti compiuti. Tra noi due però resta inteso che fin d'ora tutto è.... (e compì il pensiero soffiando un poco sulle dita), mettiamo d'aver fatto un sogno.... va bene, Flora? -

E finì quasi ridendo.

- Amico mio, o come devo dire? mio protettore? - sorse a dire Flora ponendogli una mano sulla spalla - ero sicura, venendo qui, che avrei trovato indulgenza e soccorso. Nessuno al mondo - mi ero detto - mi darà ragione: ma Cresti sì. Lui solo mi aiuterà a compiere un pietoso dovere perchè Cresti è buono e mi ama come una sua figliuola.

- E allora chiamami papà - disse confusamente il vecchio amico, stringendo fra le tozze mani annerite dal sole la fulva testa di Flora, a cui accostò il viso contratto e lasciò che la grande battaglia degli spiriti combattenti passasse tutta. Flora aspettò che la battaglia finisse, poi portò le mani dell'amico alle labbra e le baciò più volte.

Non parlavano più, perchè erano arrivati a quel punto di elevazione in cui la più piccola parola può rompere la serenità del bene, come basta un sassolino a smuovere una rovina nei declivi delle altissime rupi.

Si strinsero tre o quattro volte le mani in segno muto di pace, di promessa e di alleanza. Cresti promise come potè di scendere la sera stessa al Castelletto a persuadere la mamma e a dimostrarle che un mese di Riviera avrebbe fatto bene a tutti: e accompagnò la fanciulla smarrita che non trovava più la via di uscire fino al principio del viale, mentre, cessata la pioggia, un raggio sparso di sole veniva a battere sulle grigie muraglie.

Il tuono fuggiva morendo lontano nelle alpi e dai rotti del nembo uscivano lembi di sereno, da cui veniva una fresca brezzolina a scuotere le frasche grondanti dei pergolati.

Flora si voltò una volta ancora a salutare colla mano quando fu al cancelletto e scomparve. Egli rispose colla mano e si lasciò andare sui gradini del portichetto come uomo affranto da una inesprimibile stanchezza.

Era fatale che ciò avvenisse. Non avrebbe saputo dire il come il quando, ma da un pezzo il cuore gli andava dicendo che egli seguitava a camminare per una strada sbagliata. Flora aveva per lui della buona amicizia, della stima, della riconoscenza, ma tutte queste cose messe insieme e condite dalla migliore volontà non bastano ancora a fare un boccone d'amore.

L'amore vien dal lievito dell'anima. L'amore va solo anche senza il corteo delle venerate virtù, va al tristo, al povero, al malato, al mendicante, allo storpio, al cieco: ma non c'è catena che possa trascinarlo per forza. Amore sale dove la sua natura ignea lo porta, abbrucia tanto il palazzo di marmo, come la capanna di paglia: ma tu non puoi suscitare una scintilla in un cuore di ghiaccio.

Si mosse, col corpo indolenzito, come se uscisse dalle verghe. Si trascinò verso casa, rientrò nel salotto dove morivano gli ultimi tizzoni della fiammata nella cenere. Il sole entrava per le finestre ancora sgocciolanti di piova: ma l'aria pareva fatta scura, i mobili rimpiccioliti. Sulla tavola, presso il servizio di caffè era rimasto un piccolo guanto che essa aveva dimenticato, un piccolo guanto ancor pieno della sua mano, ch'egli raccolse e strinse nel pugno, portò alla bocca per strozzarvi il singhiozzo mortale che gli usciva dal cuore.

Aveva fatto un sogno. Amen!

 

*

* *

 

A villa Serena non rimase che la Bernarda a custodire la casa. A poco a poco i balconi e i terrazzi si spogliarono dei loro vasi, le barche vennero chiuse nella darsena, le palme rivestite di paglia e gli ultimi scarsi soli d'autunno morirono silenziosi sopra i muri tristi e desolati.

più liete scesero le giornate al Castelletto dove la signora Matilde rimase sola senz'altra distrazione che qualche visita poco allegra del vecchio amico del Pioppino, che dopo aver implorato e concesso un congedo a Flora, si faceva un dovere di venire con qualche giornale in mano a leggere qualche fatterello di cronaca o sedeva ad attizzare i primi focherelli nel caminetto per combattere i brividi crescenti dell'aria.

Quando arrivava qualche lettera dalla Riviera, la signora Matilde che aveva già mille ragioni d'essere malcontenta: - Ecco - diceva amaramente - tutta la sua famiglia è . Avrei creduto che Flora avesse più cuore per la sua mamma e per gli amici.

- Il cuore c'è, poverina... provava a risponder il vecchio misantropo, accatastando fuscellini su fuscellini nella cenere - ma il cuore non ha l'obbligo di ragionare.

- Ha l'obbligo d'esser giusto. Che posto è il suo in quella casa? di dama di compagnia? di suora di carità? d'infermiera? di serva? e intanto non pensa che a casa c'è la mamma mezza malata. Io non avrei dato questo permesso, caro Cresti: lei oggi ha diritto di comandare e di volere.

- Ci vuol pazienza... - seguitava a ripeter lui con aria rassegnata: ma tutti coloro che erano abituati a vederlo passare prima, svelto come una saetta, si meravigliavano che in poco tempo si fosse fatto così secco ed appassito, fin trasandato nei vestiti, lui sempre così pulito ed elegante.

- Sento che morirò di questo dispiacere - diceva qualche altra volta colla sua querula cantilena la malaticcia signora, che cominciava a veder buio nell'avvenire. Cresti, in faccia a lei, si mostrava paziente e disposto a rimandare il matrimonio a gennaio, o anche a primavera: ma non ci voleva una straordinaria penetrazione per vedere che la pazienza di Cresti avrebbe avuto un limite e che al tornar dell'inverno si sarebbe ricaduti in una tremenda tristezza. Flora era una testa romantica, di quelle che non si arrestano davanti a nessuna poesia e a nessuna stravaganza: ed era anche naturale che Ezio nel suo egoismo, rincrudito ora dal castigo, trovasse comodo e bello d'aver vicino un aiuto in una così cara infermiera. Suo padre aveva anche lui trovato comodo e bello sacrificare una ragazza ancor giovine a' suoi umori bisbetici, calpestando i diritti d'un fratello. Fin che ci saranno uomini ci saranno egoisti: ma Flora aveva altri doveri: poteva ora dimenticarli: avrebbe potuto sposare un cieco: poteva rimanere a lungo in questa posizione assurda. L'unica sua giustificazione erano i suoi capelli che dicevano una testa esaltata, com'era stato suo padre, com'era stata la nonna Celina, tutta gente che si sarebbe fatta ammazzare per una idea fissa.

- Peggio per noi che ne abbiamo troppe di idee....! - soggiungeva malinconicamente il vecchio amico.

Questi tristi discorsi non facevano che lasciar indietro tristezze sempre più oscure, che andavano crescendo coll'accorciarsi delle giornate, coll'allungarsi dei crepuscoli, coi freddi preludi dell'inverno, che sul lago si fa annunciare non di rado prima del dei Morti con piccole burrasche di pioggia e di neve.

Il Ravellino era stato bruscamente chiuso, i lavori interrotti, gli operai mandati via, la roba lasciata accatastata sopra i mobili fuori di posto: ed era bene che le nebbie scendessero folte tra l'una e l'altra riva del lago a togliere fin la vista di quella casa in cui troppe illusioni morivano di freddo.

Dopo che Flora era perduta, Cresti non vedeva che ci fosse una ragione perchè il sole splendesse nel cielo. Quella ragazza aveva riempita dell'immagine sua tutti i contorni de' suoi pensieri. Far senza di lei era come togliere la luce a un quadro. Ecco perchè le cose perdevano intorno a lui ogni colore e i desideri cadevano fracidi come le foglie del suo giardino sotto le pioggie d'autunno. Il domani non prometteva nulla a un disgraziato che non aveva nulla da ricordare della sua vita... di questa povera vita, che dondola tra una memoria e una speranza.

Mentre negli altri anni, al venir meno dei giorni caldi il solerte giardiniere prendeva cura de' suoi vasi delicati, o riordinava le serre, copriva i palmizi, riponeva le uve mangiereccie, riempiva la legnaia e dava mano alle molte faccende che porta con il primo soffio freddo, questa volta lasciò che le cose andassero come volevano andare, non toccò nulla, non mutò nulla, non provvide a nulla.

Le sue giornate le passava seduto nel vano d'una finestra, colle mani strette intorno a un ginocchio, cogli occhi immobili sui vetri al di dei quali non vedeva che una nebbia confusa, vuota di cose e di pensieri, come se cominciasse anche per lui una fatale cecità. Non riceveva più nessuno, non apriva la bocca nemmeno colle vecchie ragazze di casa che credevano di conoscere il motivo di quel mutamento, che inutilmente si sforzavano di distrarlo, di farlo mangiare, di provocarne le care impazienze, che per le donne rappresentavano un necessario tormento nella loro vita senza casi e senza varietà.

A implorare una grazia, le due zitelle facevano accendere tutte le sere la lampada alla cappelletta dell'Immacolata.


 

 

 




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