VIII.
Verso le tenebre.
Pioveva a dirotto quando Cresti la
vide venire per il viale delle mortelle sotto un piccolo ombrello, che riparava
a stento la testa, colle gonnelle raccolte sui fianchi per difenderle contro i
colpi di vento.
A tutta prima stentò a
riconoscerla: poi disse correndole incontro: - Flora? al Pioppino con questo
tempo?
- Proprio io. Mi son fidata un po'
troppo del tempo e l'acquazzone mi ha colta a mezza via: ma d'altra parte non
potevo tardare - soggiunse correndo a ripararsi sotto il portichetto, dove
depose in un cantuccio l'ombrello grondante e scosse la pioggia dalle vesti.
- Entriamo in casa dove faremo una
fiammata. Ma che idea con questo tempo?
- Avevo urgente bisogno di
parlarle, Cresti.
- Sarei venuto io stesso abbasso.
- No, ho bisogno di parlarle qui,
in casa sua, senza testimoni.
- O diavolo, un affar diplomatico -
soggiunse lo sposo, offrendole il braccio e guidandola verso il salotto. Quando
furon nell'andito, abbassando un poco la voce, riprese in tono carezzevole: -
Non si era rimasti d'accordo di trattarci un po' più in confidenza? che cos'è
questo lei, che imbroglia tanto tutt'e due? -
Flora rispose con un moto del capo
e con un freddo sorriso: ma Cresti capì che per quanto cercasse di farsi forza,
la fanciulla aveva lo spirito agitato.
Il fuoco fu presto acceso. Cresti
accostò una poltrona e invitò la fanciulla ad asciugarsi i piedi. Flora si levò
il cappello e accomodò un poco colle mani la testa scomposta.
- Dunque a che cosa devo attribuire
questa visita straordinaria?
- Ora dirò. Ma prima mi dia la sua
mano, me la dia da vecchio amico e mi prometta di essere buono.
- Quando fui cattivo con.... lei,
signorina? - mormorò egli, piegando un poco la testa per cercare uno sguardo
d'incoraggiamento: ma Flora guardava fissa nel fuoco.
- È forse necessario chiudere anche
la porta? - chiese di lì a poco il padrone di casa, dopo aver ordinato
all'Angiolina un caffè molto caldo.
- Non avremo bisogno di leticare.
- È però un grande discorso, da
quel che vedo.
- Sì, grande. Avrei potuto
scrivere, ma ho detto: «No, è meglio che vada io stessa e che gli parli.» La
mamma non sa che son qui e non mi approverebbe se potesse indovinare perchè son
venuta. - Flora lottò ancora un istante contro l'affanno che l'opprimeva, poi
soggiunse:
- Ho una lettera della zia
Vincenzina per lei, Cresti: veda - e gliela porse.
- Donna Vincenzina? in che cosa
posso servirla? - E fattosi più presso la finestra per aver più luce, scorse
lentamente i pochi periodi con cui si faceva appello alla sua indulgenza.
- Sta bene l'idea d'un soggiorno in
Riviera; certamente farà bene a tutti. Sicuro che si rimanda ancora alle
calende greche il nostro matrimonio, ma non vorrei aver l'aria di un tiranno.
Che cosa pensa la mamma di questo progetto?
- Povera mamma! sento che io sono
una cattiva figliuola per lei, come sono una cattiva amica per il mio buon
Cresti, e una cattiva compagna per me stessa.
- Qualche volta sì - approvò con
una punta di canzonatura il romito del Pioppino. - Ma veniamo al nostro caso.
Per quanto il rimandare di qualche mese ancora quel che dovrebbe essere già
fatto mi pesi un poco, tuttavia, per non dir di no alla zia, ci si potrebbe
intendere.
Il Ravellino non è ancor pronto; ma
sentiamo: ottobre, novembre.... bastano? -
Cresti tenne alzate le due dita
aperte, agitandole nell'aria, poi riprese: - Possiamo far i conti almeno per la
Madonna di dicembre?
- Non so! - rispose faticosamente
la sposina senza togliere gli occhi dalla fiamma.
- Io non voglio, nè saprei essere
un tiranno: ma ho pur bisogno di far i miei conti. Non parlo, s'intende, de'
miei diritti e delle mie legittime impazienze; ma via, se la Riviera deve far
bene anche a noi, giorno più giorno meno, non è quel che conta. Che cosa dice
la mamma?
- Non sa nulla - rispose con tono
asciutto e pauroso la signorina. Il segreto pensiero che l'aveva condotta a
questo colloquio s'irrigidì quasi visibilmente nei tratti del suo volto pallido
e stanco.
- Cioè.... intendiamoci - balbettò
il pover'uomo che cominciava a non capire. - Questo viaggio sarebbe per caso un
pretesto per... per... -
Flora si coprì gli occhi colla
mano, in cui raccolse tutte le rughe della sua fronte dolente.
Cresti credette questa volta di
capir troppo e s'impaurì. Che diavolo voleva dire questo improvviso
scoraggiamento, questo parlar sibillino? Si smarrì, barcollò sulla sedia, si
alzò, mosse un poco le mani in aria e chiese soffrendo: - Che c'è? non
capisco... cioè temo di capir troppo. O Dio, Flora, m'inganno o è dunque vero,
è dunque vero quel che io temo da un pezzo?
- Noi dobbiamo essere sinceri,
Cresti: sì, noi dobbiamo essere forti e sinceri - ripigliò la signorina del
Castelletto rianimandosi, alzandosi essa pure come per darsi quella forza di
cui aveva bisogno. - Io non posso ingannare, nè Cresti vuol essere ingannato.
Oggi sono troppo necessaria a quella povera gente, perchè possa pensare di
abbandonarla.
- Io... non dico che si abbia ad
abbandonare nessuno - balbettò il poverino - ma chiedo solo se Flora è venuta a
portarmi la morte.
- Cresti, mio buon Cresti! -
proruppe con un vivo abbandono di cuore la fanciulla, afferrando la mano inerte
del povero amico, che si era oscurato tutto e quasi rattrappito nel suo tetro
dolore.
- Oggi le cose son tutte mutate.
Una grande disgrazia, un grande castigo ha colpito quel poverino. Dio non vuole
che io l'abbandoni. Il mio posto è accanto a lui. Era scritto che io doveva
essere per lui qualche cosa. Non potendo essere altro, sarò la sua infermiera,
la sua guida. Devo vivere per aiutare lui a vivere: devo volere e vedere per
lui: devo accompagnarlo fin dove Dio vorrà, per quella strada che Dio vorrà,
consacrandomi a lui, tutta a lui che non vedrà più la luce del sole. Sento che
l'anima sua è nella mia mano. -
La voce di Flora dapprima esitante
s'era andata via via rinfrancando con un calore di convinzione che non poteva
non ferire il suo timido amico. Dopo aver cercato invano due o tre volte di
sorridere alle nobili declamazioni della signorina e a quel gesto con cui
faceva vedere di stringere un'anima in pugno, uscì finalmente a dire con un
tono tra l'amaro e il beffardo:
- Dio, già, già: è così comodo
questo benedetto Iddio che è peccato non credergli...
- Egli parla attraverso il nostro cuore.
- Come in un fonografo... Eh via, è
una commedia! - aggiunse con asprezza quel pover'uomo oltraggiato. - Ho diritto
anch'io a qualche rispetto. -
Flora sentì alla sua volta il colpo
degli oltraggi ch'egli le gettava in viso e si lasciò cadere sulla sedia.
Seguì un minuto di silenzio gelido,
duro, pieno di oscure tristezze, durante il quale si fece sentire la pioggia
battere contro ai vetri.
Fu ancora essa la prima a uscirne.
L'uomo si sentiva così irrigidito nel male, che temeva quasi di dover spezzarsi
e cadere in frantumi al minimo sforzo che avesse fatto per parlare. L'unica
idea che gli andava al capo investendolo come una fiamma era quella che aveva
già espresso colle parole: «Ho diritto anch'io a qualche rispetto...» Ma dai
denti non usciva che un sibilo morto.
- C'è qualche cosa che è sempre più
forte di noi, amico Cresti: e se il nome di Dio la offende in questo momento,
ebbene la chiami pure fatalità: ma preferisco essere disprezzata e odiata
piuttosto che avvilirmi ad ingannare la bontà d'un uomo giusto. Questa
confessione non deve offenderla, Cresti, perchè ella sa che non è storia di
ieri. Siam cresciuti quasi insieme, come fratello e sorella, Ezio ed io:
insieme è cresciuta in me quell'affezione che ora si fa prepotentemente sentire
e ch'è più forte di me e delle mie promesse. Avevo potuto rinunciare a lui
quand'era superbo e felice: non posso abbandonarlo ora che è così misero. Amo
il suo dolore. Io non ho cercato questi avvenimenti; lo sa: ero quasi superba
d'aver rinunciato a lui; ma la fatalità fu più forte di noi tutti. Oggi quella
pover'anima ha così bisogno di me che io non potrei essere d'altri senza
rimorso e senza raccapriccio. È illogico? ebbene il mio buon Cresti non potrà
accusarmi di egoismo e di grettezza di cuore. Sento tutto il male che faccio al
mio vecchio amico: sento che non potrei in un modo peggiore ricompensare la sua
devozione, il suo affetto: sento che per poco lo rendo il giuoco della mia
volubilità: ma qui davanti a lui, nella sua casa, io non devo ragioni ad altri
che a lui e non voglio essere quel che non sono.
Egli mi deve giudicare perchè
appartengo più a lui che a me, ed egli conosce la storia del mio cuore più di
quanto la conosco io stessa. So tutto il bene che perdo e non so a quale
destino di miseri dolori mi consacro: ma oggi non posso abbandonarlo, no, senza
esporre la sua anima debole e vacillante ai pericoli d'una nera disperazione.
Dio mi ha messa nella mano un'anima e non posso allargare la mano. Un mio amico
protettore mi offre amore, ricchezza, agiatezza, pace con decoro, per sempre:
questo povero cieco non mi può offrire che tristezze. Per Cresti potevo essere
più che una sorella, sarei stata una regina. Per Ezio... che cosa potrò essere?
non so, non oso cercare. Non sarà Dio che parla attraverso al cuore, ma sento
che una forza invincibile mi chiama a compiere questo dovere.
- Dovere? - mormorò con ironica
meraviglia - non storpiamo i nomi più sacri.
- Il mio posto...
- E nell'assurdo.
- No, Cresti: nella sincerità. -
Era un'aspra sentenza in una dolce
parola che veniva a cadergli sul capo. Illogico, assurdo o mostruoso, che
valeva ormai contrastare a ciò che fatalmente era andato tanto avanti?
Sincerità voleva dire partita perduta. Del resto, se tornava indietro col
pensiero, quel che la signorina del Castelletto era venuta a dire non era
interamente ignoto a lui che per molti anni aveva assistito al lungo e
silenzioso aspettare di quell'amore. Più d'una volta aveva preso parte egli
stesso ai dubbiosi dibattiti di quel cuore e aveva sofferto delle ingiurie che
gli erano state fatte: ora non vedeva che avverarsi in un atto per lui
mollificante, ma non imprevisto, le mille apprensioni, i mille oscuri sospetti,
le segrete paure e le gelosie del suo stesso amore. Era dunque fatale che ciò
avvenisse.
- E la mamma che dirà? - provò a
chiedere.
Il colloquio fu interrotto
dall'entrare di Angiolina che portava il caffè. Il padrone tolse di mano alla
donna il servizio e colla minuzia dell'uomo ordinato e casalingo versò egli
stesso il caffè e porse la chicchera alla signorina.
- Sediamoci, Flora - riprese a dire
poco dopo sottovoce, mentre rimestava col cucchiaino nella sua chicchera. -
Sediamo e lasciamo riposare un momento il cuore. Posso dire di avere sempre
temuto questo istante doloroso, quantunque l'avessi più temuto che preveduto.
Può essere che domani mi sembri la cosa più naturale del mondo e che l'assurdo
sia io: e dovrà essere così, perchè non per nulla un uomo come son io ha potuto
vegetare fin quasi a quarant'anni in una vita solitaria, scontrosa, senza scopo
e senza corrispondenza di spirito. Io son stato assurdo quel dì che ho potuto
credermi degno di qualche considerazione.
- Non dica questo - cercò di
protestare Flora che sentiva lo strazio di quelle parole. - La nostra
riconoscenza...
- Oh, la vostra riconoscenza non mi
potrà mancare, lo so: anzi farete di tutto per pagarmela in lire soldi e
quattrini.
- No, no, Cresti.
- Sì, sì, non vi mancheranno i
mezzi per pagarmi e ve ne dovrò rilasciare ampia ricevuta, perchè non abbiate
ad averne il più piccolo scrupolo. Così sarà fatta la volontà di Dio. -
La voce dell'uomo ferito rantolò,
l'occhio addolorato si accese di una tenue fiamma d'orgoglio. Egli si mosse di
nuovo come se scattasse da irti aculei, girò per la stanza lottando con tutto
sè stesso, portando ora una mano ora l'altra alla bocca quasi per voglia di
mordere, finchè voltando le spalle alla signorina Polony si fermò davanti ai
vetri di una finestra vibrando in tutti i muscoli del suo piccolo corpo
robusto, reso quasi cieco da un velo di lagrime morte che non sapeva più
trattenere.
Flora ebbe pietà di quel gran
dolore: ma non avendo più parole per consolarlo, nascose la testa fra le mani e
stette così piangente in un'attitudine di umile colpevole.
Durante questo nuovo silenzio si
sentì ancora la pioggia cruda battere contro i vetri e fremere sulle depresse
foglie del giardino.
Le case a riva parevano agli occhi
del povero Cresti sprofondate in una oscura lontananza, il cielo basso e
ristretto, le cose tutte chiuse in una grigia tristezza.
E una grigia tristezza pioveva nel
suo cuore. Qualche cosa di vitale si accorse che cominciava a venir meno in
lui. Qualcuno già piangeva sul povero Cresti che una forza brutale trascinava a
morire nel ridicolo e nell'umiliazione.
A sentir singhiozzare si voltò e vide
Flora scossa dal pianto, che riempiva di lagrime il fazzoletto. Eran lagrime di
sincera pietà per il male che era venuta a portare colle sue mani. Essa per la
prima era la vittima delle cose. Qual colpa aveva lei se non poteva offrire un
amore che non era mai nato? bisognava tener conto del suo coraggio, della sua
sincerità; e perchè era venuta a deporre ai piedi di un vecchio amico la
confessione del suo cuore, bisognava non negare un segno di riconoscimento a
quell'atto di coraggiosa sincerità.
Non bisognava infine denudar troppo
un vecchio e poco attraente amor proprio, non avvilir troppo un'antica dignità,
non rimpicciolirsi troppo nelle proprie sconfitte. Cresti insomma davanti a
quella bambina piangente si sentì ancora il più forte, forse perchè volle
essere il più orgoglioso. Vecchio amico e protettore sentì che toccava a lui a
dir la parola definitiva e si affrettò a cercarla.
- La mamma non sa nulla....
dunque....
- No.
- E non immagina nemmeno.
- Essa non vuol nemmeno che io
accompagni la zia Vincenzina.
- Capisco che ella non possa
approvare.... perchè... via.... quali sono i vostri progetti? ma io non voglio
saper nulla di quello che non mi riguarda. Dirò solamente alla mamma le ragioni
per le quali può parere utile che Flora accompagni la zia e resti per qualche
mese in Riviera: le farò capire che potrei accompagnarvi o raggiungervi dopo
qualche tempo e che intanto il nostro matrimonio si ritarda: va bene? -
E dopo un'altro istante di
combattimento riprese: - Per ora mi pare inutile turbare la pace della povera
mamma con delle spiegazioni che essa non capirebbe e che ci metterebbero tutti
in un grave imbarazzo. E così anche alla gente si potrà dire che il matrimonio
è rimandato a tempo indeterminato.... va bene? - a poco a poco potremo preparare
la così detta opinione pubblica ad accettare i fatti compiuti. Tra noi due però
resta inteso che fin d'ora tutto è.... (e compì il pensiero soffiando un poco
sulle dita), mettiamo d'aver fatto un sogno.... va bene, Flora? -
E finì quasi ridendo.
- Amico mio, o come devo dire? mio
protettore? - sorse a dire Flora ponendogli una mano sulla spalla - ero sicura,
venendo qui, che avrei trovato indulgenza e soccorso. Nessuno al mondo - mi ero
detto - mi darà ragione: ma Cresti sì. Lui solo mi aiuterà a compiere un
pietoso dovere perchè Cresti è buono e mi ama come una sua figliuola.
- E allora chiamami papà - disse
confusamente il vecchio amico, stringendo fra le tozze mani annerite dal sole
la fulva testa di Flora, a cui accostò il viso contratto e lasciò che la grande
battaglia degli spiriti combattenti passasse tutta. Flora aspettò che la
battaglia finisse, poi portò le mani dell'amico alle labbra e le baciò più
volte.
Non parlavano più, perchè erano
arrivati a quel punto di elevazione in cui la più piccola parola può rompere la
serenità del bene, come basta un sassolino a smuovere una rovina nei declivi
delle altissime rupi.
Si strinsero tre o quattro volte le
mani in segno muto di pace, di promessa e di alleanza. Cresti promise come potè
di scendere la sera stessa al Castelletto a persuadere la mamma e a dimostrarle
che un mese di Riviera avrebbe fatto bene a tutti: e accompagnò la fanciulla
smarrita che non trovava più la via di uscire fino al principio del viale,
mentre, cessata la pioggia, un raggio sparso di sole veniva a battere sulle
grigie muraglie.
Il tuono fuggiva morendo lontano
nelle alpi e dai rotti del nembo uscivano lembi di sereno, da cui veniva una
fresca brezzolina a scuotere le frasche grondanti dei pergolati.
Flora si voltò una volta ancora a
salutare colla mano quando fu al cancelletto e scomparve. Egli rispose colla
mano e si lasciò andare sui gradini del portichetto come uomo affranto da una
inesprimibile stanchezza.
Era fatale che ciò avvenisse. Non
avrebbe saputo dire nè il come nè il quando, ma da un pezzo il cuore gli andava
dicendo che egli seguitava a camminare per una strada sbagliata. Flora aveva
per lui della buona amicizia, della stima, della riconoscenza, ma tutte queste
cose messe insieme e condite dalla migliore volontà non bastano ancora a fare
un boccone d'amore.
L'amore vien dal lievito
dell'anima. L'amore va solo anche senza il corteo delle venerate virtù, va al
tristo, al povero, al malato, al mendicante, allo storpio, al cieco: ma non c'è
catena che possa trascinarlo per forza. Amore sale dove la sua natura ignea lo
porta, abbrucia tanto il palazzo di marmo, come la capanna di paglia: ma tu non
puoi suscitare una scintilla in un cuore di ghiaccio.
Si mosse, col corpo indolenzito,
come se uscisse dalle verghe. Si trascinò verso casa, rientrò nel salotto dove
morivano gli ultimi tizzoni della fiammata nella cenere. Il sole entrava per le
finestre ancora sgocciolanti di piova: ma l'aria pareva fatta scura, i mobili
rimpiccioliti. Sulla tavola, presso il servizio di caffè era rimasto un piccolo
guanto che essa aveva dimenticato, un piccolo guanto ancor pieno della sua
mano, ch'egli raccolse e strinse nel pugno, portò alla bocca per strozzarvi il
singhiozzo mortale che gli usciva dal cuore.
Aveva fatto un sogno. Amen!
*
* *
A villa Serena non rimase che la
Bernarda a custodire la casa. A poco a poco i balconi e i terrazzi si
spogliarono dei loro vasi, le barche vennero chiuse nella darsena, le palme
rivestite di paglia e gli ultimi scarsi soli d'autunno morirono silenziosi
sopra i muri tristi e desolati.
Nè più liete scesero le giornate al
Castelletto dove la signora Matilde rimase sola senz'altra distrazione che
qualche visita poco allegra del vecchio amico del Pioppino, che dopo aver
implorato e concesso un congedo a Flora, si faceva un dovere di venire con
qualche giornale in mano a leggere qualche fatterello di cronaca o sedeva ad
attizzare i primi focherelli nel caminetto per combattere i brividi crescenti
dell'aria.
Quando arrivava qualche lettera
dalla Riviera, la signora Matilde che aveva già mille ragioni d'essere
malcontenta: - Ecco - diceva amaramente - tutta la sua famiglia è là. Avrei
creduto che Flora avesse più cuore per la sua mamma e per gli amici.
- Il cuore c'è, poverina... provava
a risponder il vecchio misantropo, accatastando fuscellini su fuscellini nella
cenere - ma il cuore non ha l'obbligo di ragionare.
- Ha l'obbligo d'esser giusto. Che
posto è il suo in quella casa? di dama di compagnia? di suora di carità?
d'infermiera? di serva? e intanto non pensa che a casa c'è la mamma mezza
malata. Io non avrei dato questo permesso, caro Cresti: lei oggi ha diritto di
comandare e di volere.
- Ci vuol pazienza... - seguitava a
ripeter lui con aria rassegnata: ma tutti coloro che erano abituati a vederlo passare
prima, svelto come una saetta, si meravigliavano che in poco tempo si fosse
fatto così secco ed appassito, fin trasandato nei vestiti, lui sempre così
pulito ed elegante.
- Sento che morirò di questo
dispiacere - diceva qualche altra volta colla sua querula cantilena la
malaticcia signora, che cominciava a veder buio nell'avvenire. Cresti, in
faccia a lei, si mostrava paziente e disposto a rimandare il matrimonio a
gennaio, o anche a primavera: ma non ci voleva una straordinaria penetrazione
per vedere che la pazienza di Cresti avrebbe avuto un limite e che al tornar
dell'inverno si sarebbe ricaduti in una tremenda tristezza. Flora era una testa
romantica, di quelle che non si arrestano davanti a nessuna poesia e a nessuna
stravaganza: ed era anche naturale che Ezio nel suo egoismo, rincrudito ora dal
castigo, trovasse comodo e bello d'aver vicino un aiuto in una così cara
infermiera. Suo padre aveva anche lui trovato comodo e bello sacrificare una
ragazza ancor giovine a' suoi umori bisbetici, calpestando i diritti d'un
fratello. Fin che ci saranno uomini ci saranno egoisti: ma Flora aveva altri
doveri: nè poteva ora dimenticarli: nè avrebbe potuto sposare un cieco: nè
poteva rimanere a lungo in questa posizione assurda. L'unica sua
giustificazione erano i suoi capelli che dicevano una testa esaltata, com'era
stato suo padre, com'era stata la nonna Celina, tutta gente che si sarebbe
fatta ammazzare per una idea fissa.
- Peggio per noi che ne abbiamo
troppe di idee....! - soggiungeva malinconicamente il vecchio amico.
Questi tristi discorsi non facevano
che lasciar indietro tristezze sempre più oscure, che andavano crescendo
coll'accorciarsi delle giornate, coll'allungarsi dei crepuscoli, coi freddi
preludi dell'inverno, che sul lago si fa annunciare non di rado prima del dì
dei Morti con piccole burrasche di pioggia e di neve.
Il Ravellino era stato bruscamente
chiuso, i lavori interrotti, gli operai mandati via, la roba lasciata là
accatastata sopra i mobili fuori di posto: ed era bene che le nebbie scendessero
folte tra l'una e l'altra riva del lago a togliere fin la vista di quella casa
in cui troppe illusioni morivano di freddo.
Dopo che Flora era perduta, Cresti
non vedeva che ci fosse una ragione perchè il sole splendesse nel cielo. Quella
ragazza aveva riempita dell'immagine sua tutti i contorni de' suoi pensieri.
Far senza di lei era come togliere la luce a un quadro. Ecco perchè le cose
perdevano intorno a lui ogni colore e i desideri cadevano fracidi come le
foglie del suo giardino sotto le pioggie d'autunno. Il domani non prometteva
nulla a un disgraziato che non aveva nulla da ricordare della sua vita... di
questa povera vita, che dondola tra una memoria e una speranza.
Mentre negli altri anni, al venir
meno dei giorni caldi il solerte giardiniere prendeva cura de' suoi vasi
delicati, o riordinava le serre, copriva i palmizi, riponeva le uve
mangiereccie, riempiva la legnaia e dava mano alle molte faccende che porta con
sè il primo soffio freddo, questa volta lasciò che le cose andassero come volevano
andare, non toccò nulla, non mutò nulla, non provvide a nulla.
Le sue giornate le passava seduto
nel vano d'una finestra, colle mani strette intorno a un ginocchio, cogli occhi
immobili sui vetri al di là dei quali non vedeva che una nebbia confusa, vuota
di cose e di pensieri, come se cominciasse anche per lui una fatale cecità. Non
riceveva più nessuno, non apriva la bocca nemmeno colle vecchie ragazze di casa
che credevano di conoscere il motivo di quel mutamento, che inutilmente si
sforzavano di distrarlo, di farlo mangiare, di provocarne le care impazienze,
che per le donne rappresentavano un necessario tormento nella loro vita senza
casi e senza varietà.
A implorare una grazia, le due
zitelle facevano accendere tutte le sere la lampada alla cappelletta
dell'Immacolata.
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