X.
Amore e rimorso.
Ezio, fatto pratico dei luoghi,
amava passeggiare solo lungo la bella strada litorale, soffermarsi davanti alle
case dei pescatori che impararono a conoscerlo e aver pietà di lui, scendere
qualche volta nelle loro barche e andar con loro alla pesca. Le donne e i
ragazzetti lo circondavano con pietosa curiosità e amavano raccontargli la
storia della loro vita non più varia di quella delle ostriche.
Qualche volta spingevasi oltre le
ultime case del paese fino a uno scoglio, su cui sorgeva un modesto caffè detto
dell'Aurora che dava con un terrazzo direttamente sul mare. La sora
Cecchina, quando lo vedeva comparire, metteva a scaldare l'acqua del tè e
mandavagli incontro Sabinetta, una sua bambina di undici anni, che aveva
trovato nel signor Ezio il suo angelo ausiliario.
Sabinetta andava a scuola e non era
delle ultime nel leggere e nello scrivere: ma c'era il terribile scoglio
dell'aritmetica e dei quesiti ad risolvere, che eran cagione di pianti e di
guai. Ezio aveva la pazienza di ascoltare questi piccoli corrucci e a poco a
poco aiutava la bambina a dipanare le piccole matasse de' suoi conti col vinaio
e col mercante d'olio.
In compenso voleva che ella gli
facesse sentire qualche bella poesia del suo libro di lettura.
Sedevano a un tavolino sulla
terrazza, alla brezza viva del mare, e mentre la mamma preparava il tè,
Sabinetta declamava il suo Metastasio e il suo Parzanese colle modulazioni
d'una piccola artista.
Nella voce argentina e nelle
emozioni della fanciulla, che aveva graziette tutte sue, pareva a Ezio di
vedere le movenze delicate d'un'anima e il suo cuore s'inteneriva d'un piacere
quasi paterno. Tra le altre amava farle ripetere una lirica sulla Cecità,
che il libro dava come tradotta dal tedesco:
Me pur lontan la giovine
Inquieta pupilla un dì traea;
Sul mio capo le aeree
Nubi, in un mar di luce, errar
vedea.
Pei campi fino all'ultimo
Orizzonte scorrea lo sguardo anelo,
Dove in azzurra linea
Si confondono insiem la terra e il
cielo...
Or quegli anni fuggirono;
Serena luce, ahimè perduta, addio!
Nella più fitta tenebra
S'è rinchiuso, per sempre, il
guardo mio.
Se me più non allietano
I rai del dì, sovra il mio triste
fato
Non versate una lagrima:
Gioje novelle ora gustar m'è dato.
Io son siccome un reduce
Da lochi estranei al suo paterno
ostello;
Non è, credete, l'intimo
Mondo dell'altro esterior men
bello.
Come in Sacrario, l'anima
Quanto di grato in lei scende,
ritiene;
Ciò che vale a commoverla,
Internamente suo tosto diviene.
La ragazzina diceva questi versi
colla dolce cantilena che le avevano insegnato a scuola e non sempre il suo
pensiero penetrava nel senso delle cose: ma Ezio non ne restava meno commosso.
Un giorno egli tornava dall'Aurora,
solo, col bastoncello in mano che gli apriva il passo, ripetendo a voce alta i
versi
«Io son siccome un reduce
Da lochi estranei al suo paterno
ostello»...
quando a un tratto gli parve di
sentirsi chiamare per nome. Si fermò una prima volta dubbioso d'aver ben
inteso. Un passo leggiero suonava accanto sulla terra asciutta del viale.
- Ezio... - mormorò ancora la voce
di prima un po' meno paurosa. E questa volta sentì nello spazio la presenza
d'una persona che non osava appressarsi.
- Chi mi chiama?
- Son io, Ezio: io, Liana...
- Ah! - fece il giovine, alzando
meccanicamente il bastone in atto di difesa. E dopo esser rimasto alquanto
perplesso, riprese: - Ebbene, che cosa vuoi? perchè ti metti sulla mia strada?
- Sai che ti ho voluto bene -
riprese la voce dolente.
- O ti pare? fammi la carità,
lasciami andare per la mia strada.
- Tu non sai quanto piangere
faccio...
- Tu... piangi?
- O Ezio! - proruppe questa volta
la voce piena di singhiozzi - perchè non sono morta io cento volte prima?
perchè mi hai cacciata via?
- Io son cieco e sordo per te... Ma
insomma che cosa vuoi?
- Il tuo perdono.
- Non so che cosa io debba
perdonare a te. Tu non mi hai fatto alcun male...
- Sì sì, io sono stata tutta la
colpa...
- Di che? o inutile che tu venga a
farmi altre scene. Va per la tua strada; la mia è un'altra. -
E agitando il bastone, come per
aprirsi una via, mosse qualche passo.
- Io mi rodo del mio rimorso. Ho
bisogno del tuo perdono, Ezio. Son io che ti ha ridotto in questo stato, io
donna maledetta... -
Il modo con cui la donna pronunciò
queste parole fu di una veemenza così dolorosa e sincera, che il cieco fu
arrestato da un sospetto: - Tu? che cosa hai fatto?
- Io ho scritto al barone.
- Tu?
- Vi ho denunciati come una spia.
- Tu? - balbettò con un lieve
fremito d'ira.
- Ti amavo tanto Ezio... - proruppe
di nuovo la ragazza, cercando di afferrare la mano del giovine.
- Ah! - esclamò egli, alzando le
mani per non lasciarsele toccare - tu mi hai amato troppo, Liana. - E quando
gli parve di aver dominato abbastanza il primo impeto di collera che aveva
suscitato nel suo spirito quella improvvisa rivelazione, movendo qualche passo,
le disse con voce soffocata e raccolta: - -Ebbene, Dio ti perdoni, disgraziata.
- No, no: è il tuo perdono che
voglio, Ezio; tu hai diritto di uccidermi. Son qui ai tuoi piedi, Ezio: non
lasciarmi così... - Il giovine si sentì stretta la mano da due piccole mani
ardenti e intralciata la via da una persona che s'era inginocchiata a' suoi
piedi.
- Che cosa fai? una scena, qui,
sulla pubblica strada?
- Tu devi pronunciare la mia
sentenza, Dimmi che cosa devo fare per espiare il mio delitto. Lascia che io
venga con te.
- Oh, va, va, che cosa dici? -
riprese egli con asprezza, cercando di liberare la mano ch'essa teneva
prigioniera? - Rispetta la mia disgrazia, ragazza.
- Voglio essere l'ultima delle tue
serve.
- Va, sii quel che puoi essere e
prega Dio che ti aiuti. Io non posso far nulla per te. -
E con un moto repentino e brusco si
tolse da lei che rimase sul terreno a piangere colla faccia nella sabbia.
Ezio, che conosceva il carattere
tragico della bella avventuriera, molto amica delle scene melodrammatiche,
affrettò il passo per sottrarsi a un fastidioso senso di stizza, che per poco
non gli fece alzare il bastone sopra le spalle d'una donna.
- Sciagurata! - mormorò tra i
denti, ripensando all'antica scenata di Liana contro la baronessa nei pubblici
giardini di Nizza. - Vipere, non donne... - tornò a dire, fermandosi con animo
sdegnato su questa nuova confessione di lei, che chiariva un punto oscuro del
triste episodio. Se il barone s'era trovato quella sciagurata mattina sopra i
suoi passi, il merito era stato di questa donna perduta che... gli voleva bene.
Era giusto che il rimorso la
rodesse: ma, disgraziato lui! per troppo poco egli aveva perduta la bella luce
del sole!
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