XI.
Addio....
Nuovi pensieri gli fecero ben
presto dimenticare questo episodio. Andreino aveva letto bene nell'intenzione
che spingeva il suo disgraziato amico a intraprendere un viaggio lungo e forse
avventuroso, pel quale mancavagli il lume dagli occhi, che è il piacere più
vivo di chi va in cerca di nuovi orizzonti. Più che la speranza di ritrovare
nei miracoli del dottor Gibbon la grazia della vista, lo menava lontano il pensiero
di mettere tra lui e Flora un lungo intermezzo di silenzio, un impedimento
materiale, uno spazio insuperabile, nel quale egli potesse svincolarsi e
spogliarsi del nuovo fascino che la vicinanza di lei esercitava sul suo spirito
stanco e bisognoso.
Ezio aveva paura della sua
debolezza morale, la quale spesso si adagia a vivere della vita degli altri ed
è non meno vorace nel suo parassitismo di quel che sia il più feroce egoismo.
Dal giorno che lo zio Massimo,
leggendogli qualche malinconiosa lettera della zia Matilde, aveva richiamato la
sua attenzione su questo nuovo pericolo e sugli obblighi che aspettavano Flora
a casa sua e sui diritti che il vecchio amico del Pioppino vantava sopra di
lei, era entrata nel suo cuore la convinzione che ora toccasse a lui il dovere
di essere il più forte perchè non poteva rispettare in nessun miglior modo
Flora, se non col restituirle la libertà d'essere fedele a' suoi doveri.
La sua sventura non gli dava altro
diritto oltre a quello che si risolve nel meritare le lagrime dell'altrui
compassione. Voler di più sarebbe stata nella sua meschinità fisica un'abbietta
usurpazione, una violenza che avrebbe deturpata la santità del dovere.
Toccava a lui, toccava a lui essere
non solo il più forte per conto suo, ma sorgere difensore non chiesto della
naturale debolezza di lei, già inclinata al sacrificio, già trascinata da mille
memorie, già fin troppo intenerita da troppe lagrime.
Poichè gli amici Jameson parlavano
di voler essere per le feste di Natale nel seno delle loro famiglie, Ezio pensò
di approfittare del loro replicato invito e affrettò con Andreina segretamente
i preparativi del viaggio. Egli era persuaso che Flora l'avrebbe seguito col
pensiero... ma ogni parola di addio non poteva essere tra lor due che uno
strazio inutile o una volgare menzogna.
Il silenzio o l'eloquenza del
sacrificio.
Il Morning Star, il grazioso
yackt dell'amico americano era venuto a prendere i vicini Jameson per
una gita notturna da farsi al chiaro di luna e a cielo stellato, una gita che
doveva spingersi questa volta fin quasi alle coste di Marsiglia. Ezio e
Andreino Lulli furono invitati a prendervi parte. Donna Vincenzina e Massimo,
occupati nei preparativi del loro matrimonio si scusarono e approfittarono di
quest'occasione per far una corsa a Genova a finir certe spese.
Flora rimase quel giorno sola a
custodire la casa e a preparare la cena.
Dalla terrazza della villa si
poteva vedere il Morning Star ancorato nella piccola baia: e se dalla
sera si doveva arguire la notte, il viaggio di quei signori sarebbe stato
delizioso. Col canocchiale Flora potè assistere all'imbarco degli amici quando
salivano a bordo, mentre il sole cominciava a discendere dietro il promontorio,
su cui l'antica chiesa diroccata sfolgorava in una gloria d'oro, versando nel seno
tranquillo delle acque un tesoro infinito di gemme.
Poco dopo vide spuntare a bordo un
primo lume e dalla finestrella della stiva accendersi il fuoco della macchina,
mentre un leggero sibilo e un pennacchietto di fumo annunciavano la prossima
partenza. Poi credette di veder sventolare qualche cosa di bianco, a cui ella
rispose agitando il fazzoletto: e stette a seguire il corso del piccolo legno
finchè, rimpicciolito, scomparve dietro la punta di terra,
Allora si ritirò dalla loggia
mentre già cominciava a imbrunire: e per far venire l'ora in cui gli zii
sarebbero tornati da Genova, accese le candele e sedette al pianoforte a
evocare dalla tastiera reminiscenze musicali a cui mescolava le sue
improvvisazioni come scaturivano naturalmente dalle dita.
Una tenera frase di Chopin, venuta
da sè a frammischiarsi tra le note d'un confuso rondò, volse l'animo suo a un
senso misterioso di malinconia, che richiamò immagini riposte di cose morte e
lontane. Pensò alle tristi giornate del Castelletto, a sua madre, agli amici di
laggiù: e intanto che le mani illanguidivano sugli avori, gli occhi si
fissavano inerti alla fiamma della candela.
- Signorina, un lettera per lei -
disse la cameriera entrando - l'ha portata una ragazzina.
Era una soprascritta grande, di mano
inesperta, una vera scrittura di bambina di scuola. Chi poteva essere? Aprì la
carta, e lesse nella prima riga: «Scrivo... colla manina di Sabinetta.»
Corse a vedere in fondo al foglio.
Era lui, Ezio. Che aveva a dirle? purchè le aveva fatto scrivere? Il cuore ebbe
un primo sussulto. Capì subito e le mani le caddero un istante sui ginocchi.
Stette così cogli occhi chiusi, finchè le parve che la breve vertigine fosse
passata, poi mormorò: - Doveva esser così. -
*
* *
La lettera, scritta sotto la dettatura
di Ezio dalla manina di Sabinetta, continuava: «Quando riceverai questa mia, io
sarò già lontano da te, lontano per non tornare troppo presto. Sbarcheremo
forse a Marsiglia io e Andreino, da dove c'imbarcheremo più tardi sopra un
piroscafo della Navigazione francese. Gli amici Jameson ci raggiungeranno per
la via di Genova a Barcellona o a Gibilterra, per compiere insieme il viaggio
fino a New York. Addio, Flora..
«Ho creduto utile andarmene così, insalutato
hospite, per non essere obbligato a ringraziarti. Lo zio Massimo che è a
parte della congiura ti dirà quel che è inutile che io ti scriva. Addio,
Flora...
«Starò lontano forse due, forse tre
o quattro mesi, ma non tornerò se non quando mi sentirò ben sicuro di me
stesso, più fermo in quella persuasione che dev'essere d'ora in poi il
fondamento della mia vita.
«Pomponio Labeone non sa trovare le
belle frasi; ma non può andarsene senz'invocare anche da lontano la benedizione
di Flora, che dev'essere come il fascio di luce che lo accompagni attraverso a
questo deserto di tenebre.
«Tu sai perchè vivo, sai perchè
parto, sai quel che sono e quel che posso essere, perchè tutto quello che resta
in me di non morto non è che l'opera delle tue mani: ma l'uomo non paga il suo
Creatore.
«Parto adunque tuo debitore nella
cara idea che io non potrò mai pagarti del tutto, che ti dovrò sempre qualche
cosa e che dovrò vivere fin che tu potrai vantare qualche credito sopra di me.
«Addio, Flora...
«Troverò quel che mi promettono al
di là dell'Atlantico? La luce del sole, tu dicesti una volta, non è che un
raggio di una luce più universale che penetra gli spiriti delle cose: in questa
luce potrò sempre trovare me stesso.
«Addio, Flora. Fa che io abbia
presto a Barcellona o a Gibilterra la tua assoluzione e la notizia che tu hai
ripreso a camminare serenamente per il tuo sentiero, lieta di te stessa. Tu mi
insegnasti a tenere asciutta, sopra i flutti amari, la bandiera del dovere.
«Baciami caramente la mamma e
stringi per me due volte la mano al tuo Cresti.
«Addio, Flora... Addio, Flora...
Addio, Flora!
EZIO».
*
* *
Doveva esser così!
Dal momento che essi non potevano
camminare sulla medesima strada, era bene che si dividessero prima che la forza
morale della loro resistenza li abbandonasse.
Ezio aveva risparmiato con questa
specie di fuga clandestina un'ora di inutili spasimi e di dubbiezze; ma il
cuore della donna non poteva rimanere impassibile davanti all'ultima parola di
un lungo dramma, che aveva riempiuto or bene or male tutti gli anni della sua
vita.
Tutto ciò che finisce, anche un
grande dolore, lascia dietro di sè una specie di vuoto in cui pare che l'anima
si sprofondi. Ma per Flora finiva con questa scena tutto il dramma della sua
giovinezza e cominciava la stagione in cui non si aspetta più nulla.
Era bene che tutto fosse finito con
dignità, con ragionevolezza, colla coscienza d'aver voluto il bene; ma la
sbiadita bandiera del suo dovere sventolava sopra una grande rovina.
Sentendosi soffocare da un improvviso
senso di scoraggiamento, uscì di nuovo sulla terrazza e corse coll'occhio verso
la punta del promontorio, dietro il quale era scomparso il piccolo legno.
In quel momento una stella cadente
attraversò lo spazio e parve spegnersi nelle acque.
Ah sì: la tela cadeva sopra un
dramma assai triste e inconcludente. Ezio, fuggendo davanti a lei, per timore
di intralciare la via de' suoi doveri, aveva inconsapevolmente portato con sè
la ragione del suo sacrificio. Nè essa poteva tornare indietro a dar la vita a
speranze deluse, nè poteva continuare a fabbricarsi delle illusioni. Con parole
crude si dovrebbe dire che essa non poteva restituire a Cresti l'elemosina che
Ezio sdegnava di ricevere.
Nessun epilogo poteva essere più
triste; ma la storia dei nostri mali non è mai ragionevole. Era a sperare che
il tempo rinnovasse in lei nuovi desideri di bene; ma intanto non poteva
proibire a sè stessa di piangere.
Le lagrime scendevano mute e calde,
mentre gli occhi cercavano le stelle nel cielo.
La notte si faceva sempre più
oscura su quel mare oscuro, che nella sua placidità conteneva la forza di tante
tempeste.
Piangeva ancora in silenzio, quando
le parve di sentire parlare nel giardino. Credendo che fossero gli zii di
ritorno, si asciugò in fretta gli occhi e il volto e cercò di raccogliere tutte
le forze di cui aveva bisogno in quel momento.
- Venga avanti, signora - diceva la
cameriera, precedendo col lume una signora imbacuccata in una mantiglia pesante
da viaggio, col volto coperto da un fitto velo.
- Signorina! - chiamò la ragazza,
entrando nel salotto.
- Chi è? - chiese Flora, fissando
gli occhi sulla signora forestiera.
- Sono io - disse questa, levandosi
il velo dal viso.
- La mamma, la mia mamma? - gridò
Flora allargando le braccia. - Oh sei tu? - e se la strinse e vi si appoggiò
tutta. Aveva bisogno di chi la sorreggesse.
- M'hanno scritto che potevi aver
bisogno di me e son partita subito.
- Sì, sì: ora non vivo che per te,
mamma. -
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