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Emilio De Marchi Col fuoco non si scherza IntraText CT - Lettura del testo |
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XVII.
Un triste viaggio.
Portato dal soffio di questo suo grosso affanno si trovò senz'accorgersi a Villa Serena, dove incontrò donna Vincenzina in giardino con Massimo, mentre i barcaiuoli preparavano la gondola. La vecchia Bernarda, il giardiniere, i servitori atterriti, immobili sui gradini della casa, non avevano voce per augurare un buon viaggio qualunque a quella povera gente. Una grande ombra pesava sul verde e sulla casa, che parevan fatti per le gioie perpetue della vita. Il viaggio fu rapido, triste, senza parole. La ferrovia di Menaggio li condusse prima a Porlezza, scavalcando il monte, e di là s'imbarcarono sul battello per Lugano. Il lago era quel dì d'un azzurro verde senza una ruga; e scendeva dai dossi delle montagne, che lo serrano come una pietra preziosa, il soffio caldo e alacre delle ore calde che asciugano i prati. Ma nè donna Vincenzina aveva occhi per vedere, nè Massimo aveva parole per distrarla. In quanto a Cresti era come un uomo schiacciato tra due dolori, il suo e quello degli amici. Egli si era illuso che Ezio potesse essere morto nel cuore di Flora: ma era invece a credere che il colpo di pistola del barone lo avesse fatto improvvisamente risuscitare. Ma se era male augurar male, non era bene nemmeno pensar troppo a sè in un momento in cui la vita d'un povero ragazzo pendeva attaccata a un filo sopra un abisso. Massimo, che nelle forti trepidazioni perdeva di vista i contorni delle cose, durante il mesto viaggio non fece che asciugarsi la testa sudata e cercare la mano di donna Vincenzina per stringergliela e per farle sentire che doveva contare fino ai più estremi casi sulla pietà, sull'aiuto, e sulla devozione d'un vecchio amico. Essa era pallidissima, quantunque il caldo le accendesse un poco le sporgenze del viso. Gli occhi grandi e sereni tratto tratto si riempivano di lagrime, che essa raccoglieva nel finissimo fazzoletto dolcemente profumato. Nel gran cappello di paglia a tesa floscia e cascante il suo volto di fanciulla buona e obbediente si rimpiccioliva con vantaggio, talchè Massimo avrebbe potuto in certi istanti non ricordarsi più che eran passati dodici anni dal giorno che il Ministro della guerra l'aveva improvvisamente richiamato sotto le armi: ma se pur ne sentiva il misterioso fascino, non osava goderne in sì triste momento. Nel sentirsi a lei così vicino e così utile, il suo cuore riposava in una compiacenza tutta paterna, che sarebbe scomparsa se avesse potuto definirla. Allo sbarco del battello trovarono il Bersi, che stava ad aspettarli con ansietà. - Dunque? - chiese affannosamente donna Vincenzina per la prima, andandogli incontro. - Coraggio, non c'è più pericolo... - esclamò con un respiro di sollievo il Bersi. E i nuovi arrivati trassero anche loro quel fiato, che da tre ore pesava loro sul cuore. Massimo cercò un'altra volta la mano di donna Vincenzina, mormorando: - C'è una provvidenza. - È salvo? sarebbe stato troppo orribile ve'... - pronunciò con brusca franchezza il Cresti, lieto di sentir anche il suo cuore libero e contento. E come se si sentisse salvo anche lui dopo un passo scabroso, da questo momento fu il più agile e il più ciarliero. - Non c'è pericolo, ma intendiamoci, il caso è sempre grave - continuò il Bersi, mentre faceva segno a una carrozza a due cavalli di avvicinarsi. - Dove si va? - Mezz'ora fuori di città a una villa che potremo tenere a nostra disposizione fin che sarà necessario. Per ora l'infermo non è trasportabile. - Dove si sono battuti? - In una villa in vendita. - Lo avete fatto una bella réclame - conchiuse il Cresti, che sentiva arrivata l'ora di agitar l'aria e di far coraggio anche a Massimo, che pareva asfissiato. - In mezzo alla sua disgrazia, Ezio ebbe la fortuna che fosse da ieri arrivato all'Hôtel Excelsior un famoso chirurgo dell'esercito russo, che gli levò il proiettile senza farlo troppo soffrire. - Dove fu ferito? - chiese il Cresti, socchiudendo gli occhi quasi per non voler vedere la risposta. - La palla entrò di qui e s'infossò qui - il Bersi, che la scossa morale faceva parer più vecchio di dieci anni, segnò coll'indice l'osso frontale sopra l'occhio sinistro e col pollice il lobo posteriore. - Madonna, Madonna! - pianse donna Vincenzina, premendo le dita delle mani sugli occhi. - Ringraziamo Dio che non sia stato peggio - mormorò Massimo, posando e dimenticando la sua mano pesante sul ginocchio di lei. - E il barone? - chiese il Cresti. - Si comportò con perfetta cortesia, nè volle partire, se non quando seppe che l'operazione era riuscita bene. - E com'è lo spirito del povero ragazzo? - Buono. Ride, scherza, fuma. Ha sopportato l'operazione con mirabile fortezza. - Senza cloroformio? - Il dottore non trovò prudente di servirsene in vista della gran perdita di sangue che aveva già indebolito il soggetto. Ora ha raccomandato un assoluto riposo, un'oscurità perfetta per tutto il tempo che sarà necessario, sian quindici, sian venti giorni: ma grazie al cielo non è più questione che di pazienza. Ezio dovrà forse cangiare un poco di pettinatura. - Mi persuado sempre più che l'uomo è il meno furbo degli animali - commentò sogghignando il filosofo del Pioppino, mentre la carrozza attaccava al passo la strada dei colli, che si arrampica tra ville e giardini. - Non far il Catone, vecchio selvatico - protestò il Bersi. Cerca d'innamorarti anche tu seriamente d'una donna, e se sarà necessario, ti batterai anche tu come l'ultimo degli imbecilli. - La risposta andò a colpire un cuore malato. Cresti crollò un poco il capo, e sentendo d'arrossire, volse la faccia verso lo sfondo sottoposto, in cui andava spiegandosi la bella cittadina nell'arco azzurro del lago. Poco dopo, la carrozza, svoltando tra i pilastri d'un ricco cancello dalle lande dorate, penetrava nelle dense ombre d'un giardino principesco, per cui si saliva a una villa, che aveva già una storia di avventure galanti, di fallimenti, di suicidi e di duelli. Rifabbricata cinquant'anni indietro da un negoziante tedesco sulle rovine d'un collegio di monache, era caduta ultimamente nelle mani di un cantante, che vi aveva ospitato più d'una vagabonda bellezza mimico-danzante. Morto il cantante di febbre gialla al Perù, i creditori vi avevano sloggiata l'ultima ninfa, sequestrando casa e mobili in attesa di qualche principe che ne volesse vivificare la leggenda: e intanto l'Hôtel Excelsior se ne serviva come di una dépendance per piccole partite di caccia, per pranzi sociali e offriva le placide ombre ospitali anche a coloro che avessero una briga da comporre con due colpi di pistola o necessità di farsi un occhiello nel ventre. Essendo il duello severamente proibito dalla legge della Confederazione, i danni, se ce n'erano, restavano a carico dei signori avventori. L'Hôtel, a richiesta, poteva però offrire il medico e i mezzi di trasporto senza aumento sur le prix des consommations. Il luogo era veramente bello e delizioso. Dal viale principale, che si svolgeva come un nastro largo e lento nella selva, distaccavansi molti sentieruzzi, che or salivano in rampe e scalinate a più alti passi, ora parevano precipitare e nascondersi in vallette folte d'erba, popolate di statue nel fresco mormorìo d'acque cascanti. Il viale metteva a una spianata, dall'alto della quale l'occhio correva libero sulla stesa del lago e sulla scena dei monti davanti a una palazzina, che in un arzigogolato stile gotico-francese, più che la nobiltà d'un edificio spirava l'odore d'un grosso pasticcio di zucchero tostato. Ma se la linea non era bella, il soggiornarvi doveva avere mille incanti per quel poco che si poteva vedere dal lato dove giaceva il ferito. Il sequestro vi aveva imprigionato non soltanto il grosso dei mobili, ma anche le piccole raffinatezze della ninfa saltellante, che vi aveva passato le ultime estati e che forse sognava di ballarvi le ultime contraddanze della vita. Al rumore che fecero le ruote sulla sabbia, uscì dalla casa don Andreino Lulli, a cui il trambusto di quella sciagurata spedizione, l'affanno di molte ore di ansia, la paura e le cure prestate al paziente durante la terribile operazione non avevano fatto perdere la contenance. Per quanto scosso e reso bianco come una candela, quando seppe dai telegrammi del cavalier Cresti che sarebbe venuta anche donna Vincenzina, procurò di andarle davanti con un vestito non troppo voyant: un tutto grigio con cravatta mauve gli parve una mezza condoléance, che doveva esprimere e riassumere abbastanza bene il lieto e il triste della situazione. Colla faccia patita e quasi cerea, rigido e stecchito nel collare alto che gl'incastrava il mento tra due trincetti di moda, strinse la mano di donna Vincenzina tra le sue, tutte ossa e nervi, con due forti scosse, una di compatimento, l'altra d'incoraggiamento. Quand'ebbe riconosciuto il cavalier Cresti lo pregò di presentarlo al commendatore Bagliani. - Tout va comme sur des roulettes.... non c'è febbre; ma abbiamo un e...eoe di più. - La debolezza dell'erre non stava mica male alla costituzione magra, sottile, allungata e di trasparenza aristocratica di don Andreino Lulli. Se per necessità di professione o per ambizione di popolarità avesse dovuto agitare davanti alla folla i grandi principii della libertà, della rivoluzione, dei diritti popolari e di tutte quelle altre cose di cui l'erre è l'elemento più forte e più articolato, o se, in più modesta condizione avesse dovuto bestemmiare Cristo e i sacramenti per far andare un magro ronzino, certamente quel suo difetto avrebbe potuto nuocere al risultato delle cose: ma per discorrere in una questione di sport e di cravatte non stava male quel non so che di rotto e di strofinato che si strisciava ne' suoi discorsi, inzuccherati di bons mots e di amabilità sempre pronte e rispettose. Sentendosi quasi obbligato a fare gli onori di casa, don Andreino precedette i nuovi arrivati per un atrio a vetri sino ad un salotto semichiuso pieno di mobili coperti, dove il maggiordomo dell'albergo si mise ai loro ordini. Intanto il giovine conte andava ad annunciare delicatamente al ferito la presenza dei parenti. L'ordine medico era la massima quiete e la più assoluta oscurità: ma una stretta di mano e una carezza da parte de' suoi non avrebbero potuto che fargli bene, povero figliuolo. Tornò a riprendere gli ospiti, e passando leggermente per la gran sala del biliardo, non rischiarata che dalla luce della porta, entrarono in una stanza d'angolo posta verso il lato più fresco, dove Ezio giaceva in una grande oscurità col capo fasciato da un grosso turbante insanguinato. - O cari, cari... - pronunciò con voce molle e ridente l'infermo, allungando le braccia fuori dal letto. - Sai gli ordini - disse don Andreino assumendo quel tono alto e imperativo che usava nel comandare un cotillon. - Sai gli ordini: silenzio e immobilità. Noi siamo qui tutti per te nulla ti può mancare, ma il dottore ha parlato chiaro: «attenti all'emorragia.» Dunque, se ci vuoi bene, obbedienza, coraggio e rassegnazione. - Che bagolon! - disse sottovoce Ezio con quello spirito caustico che era quasi l'aroma del suo carattere. - Non vedo nessuno ma vi sento. - Stese la mano a donna Vincenzina, dicendo: - Grazie, grazie! - E riconosciuto alla voce lo zio, gli disse: - Crepi l'astrologo! - E quando gli dissero che c'era anche Cresti, gli domandò: - Come vanno i conigli? - Don Andreino, fedele alla consegna ricevuta, volle che uscissero presto presto dalla camera, di cui socchiuse anche la porta e pose in sentinella una vecchia donna che aveva assunta come infermiera. Ripreso il discorso col maggiordomo, si accordarono intorno ai modi di rimanere alla villa, finchè il malato fosse in grado di ritornare a casa; e fu stabilito che donna Vincenzina e Massimo avrebbero occupato il quartierino a terreno nell'angolo verso il boschetto delle magnolie, don Andreino avrebbe piantato un letto da campo nella sala del biliardo per esser pronto alle chiamate dell'infermo: per la cucina, l'albergo avrebbe provveduto nel miglior modo e col minore disturbo dei signori. Meno necessario risultò il Cresti, che accettò volentieri di tornar subito lo stesso giorno a portar le notizie al Castelletto dov'erano rimaste altre anime in pene. E con il Cresti partì anche il Bersi, che da parecchi giorni non vedeva la sposina. Mentre scendevano insieme a piedi per il viale ombroso, commentando il doloroso accidente, il Bersi condusse il compagno a visitare il campo della battaglia dove aveva avuto luogo lo scontro, un praticello segregato da due parti dall'alto muro di cinta, che vi faceva angolo, da un terzo lato dal fianco roccioso del colle e chiuso sul davanti da una fitta siepe di agrifoglio. Il vecchio negoziante tedesco vi aveva avuto il suo giuoco dei birilli; ma l'erba era cresciuta sul terreno, l'ombra era diventata più fitta in mezzo ai grandi alberi. - Ecco, si sono battuti qui, stamattina, alle sei - disse il Bersi, precedendo il Cresti nel chiuso campicello. - Si era fatto di tutto, da parte di noi padrini per veder di ridurre lo scontro ai minimi termini, o, se era possibile di appianare la vertenza con quattro righe di verbale, ma pare che Ezio non si sentisse di fare certe dichiarazioni e una volta esclusa l'arme da taglio, perchè il barone non vede più in là del suo naso, non restava che la pistola: due colpi in aria alla americana colle novantanove probabilità che lo spavento fosse tutto degli uccelli. Il barone, che non è un guerriero romano, avrebbe accettata volentieri una soluzione diplomatica, purchè fosse salva la sua dignità maritale: e nemmeno Ezio una gran voglia di ammazzare e di farsi ammazzare non se la sentiva. Nè l'uno nè l'altro portarono il cuore sul terreno. Si può battersi e anche morire per una donna, ma non per la tenera figlia del sor Paoleto, un'ideale che pesa a occhio e croce una settantina di chilogrammi: ma queste ragioni non si possono dire al colto pubblico e non si possono scrivere in un verbale. Per quanto il barone consideri sua moglie come un mobile decorativo della sua casa, per quanto gli affari della Italo-Elvetica siano per avviarsi bene e abbiano bisogno di tutta l'attività del suo cattivo stomaco, tuttavia non poteva dimenticare che nel banchiere c'è anche il marito; che l'offesa era stata pubblica, che la gente ne parla, che non si può per il credito stesso della ditta, lasciar credere ai clienti che si speculi sulle acquiescenze: e quindi bisognava battersi.... ma è così facile battersi, per modo di dire... Se non che, quei due suoi padrini, quel tedesco e quel napoletano, presero la cosa troppo sul serio e vennero sul terreno come se andassero ad una messa cantata. Col codice dell'Angelini alla mano e in nome della correttezza cavalleresca questi due ostinati don Chisciotti della Mancia contrastarono tutti gli sforzi, con cui io e Lolò, cercammo di alleggerire le condizioni dello scontro. Più cocciuto fu il napoletano, che messo in suggezione dal compagno svizzero, trattò la cosa come se fosse in giuoco l'onore stesso della patria e come se quei quattro inglesi che pigliano il fresco a Cadenabbia rappresentassero l'Europa. Per poco non mi accapigliavo con questo ignorante ostinato che faceva piovere le sue massime dall'alto, come se per ammazzarsi sia necessario ricorrere alla metafisica: e allora si avrebbero avute due teste rotte invece di una sola. Ezio fu calmo, sorridente per quanto avesse un po' di febbre addosso. Il barone fu un po' ridicolo con quel suo fare impacciato, con quegli occhi bigi che non distinguevano la pistola dal suo astuccio. Domandò il permesso di tenersi il panciotto, con la scusa che l'aria gli porta i reumi: e, sul panciotto sì, sul panciotto no, s'intavolò tra Lulli e il napoletano una quistione accademica, in cui credo sia stato citato anche Omero e Senofonte. Poi ci fu un'altra piccola bega anche per gli occhialetti, se si potevano permettere; ma finalmente, contati i passi.... Ma anche qui nacque una contestazione. Le gambe del commendator Zuccani sono più lunghe delle mie, la bellezza di dieci centimetri: e Lulli ha un passetto che è la metà del mio. Chi doveva contare i passi? capisci che nove o dieci centimetri di più o di meno per passo, sopra un percorso di trenta o di quaranta metri, fanno una differenza molto sensibile, specialmente quando uno dei combattenti è miope di primo grado. Dopo un gran misurare di gambe, finalmente trovammo una gamba media nel buon svizzero di Zurigo, che cercò di abbondare nella misura col suo bel passo di scavalca montagne. Come vedi, il luogo non poteva essere più adatto. Non pare la valletta descritta dal Tasso nel famoso duello di Argante e Tancredi? Il barone, che dovette proprio levarsi il panciotto e che perdeva bretelle da ogni parte, prima di prender posto votò il fondo della sua bottiglia di Wichy; quindi i due avversari sorteggiarono ciascuno una pistola carica, e si lasciarono collocare ai relativi posti, voltandosi le spalle. Il povero barone era livido come un panereccio, ma a forza di ostinazione morale si sostenne bene. Ezio sogghignava... Io contai a voce alta uno, due... al tre si voltarono, spararono immediatamente senza mirare. La palla di Ezio andò a conficcarsi qui nel tronco di questo faggio due spanne sopra la testa del barone: quella del miope dalle bretelle cascanti si fermò nella testa di Ezio, che senza gettare un grido venne a cader correndo nel mezzo del prato. - Il Bersi si arrestò un istante per indicare all'amico il luogo preciso: - Uno spruzzo sottile di sangue si sparse sul verde dell'erba, che abbiamo fatto segar subito per non lasciar noie agli azionisti dell'albergo. Convien dire però che le cose furono condotte con molta prudenza, perchè non si è visto nè un gendarme nè un ispettore federale. Il barone potè partire senza seccature, lasciando i suoi biglietti da visita: a me nessuno domandò nulla: un vero ideale di paese libero. - Il Cresti, dopo aver sogghignato un pezzetto e riassunte le sue osservazioni con una nervosa contorsione di spalle uscì a dire come morale della favola: - Poco fa, ho detto, che l'uomo è il meno furbo degli animali: ho sbagliato. Dovevo dire, la più bestia. -
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