III
Infatti all’allarme delle sirene
tutti i veicoli nella zona avevano rallentato indagando con i fari; e la
pericolosa audacia dello sconosciuto avrebbe potuto coronarsi di fortuna se non
ci fosse stata l’imperizia del signor Hans Schimdt.
Hans Schimdt
era un garzone berlinese della « Autotrasporti Anseatico-Mediterranei ». La combinazione volle che fosse
quella la prima volta che guidasse per quella società. Precedentemente
aveva lavorato con le « Primizie Agricole Export » e aveva compiuto sempre
corse con autocarri riempiti di materiale voluminoso ma di poco peso. Adesso
invece trasportava un carico di bulloni a filettatura speciale richiesti
urgentemente in Sorrento alla Krupp di Essen. Abituato ai carichi
leggeri si era dimenticato di avere dietro le spalle non dieci ma novanta
tonnellate.
Alla velocità di circa duecento chilometri l’ora quella
massa immagazzinava tanta energia cinetica contro cui
l’abituale sistema di frenatura dolce doveva valere meno di un temperino di tre
centimetri contro una mola di un metro.
Quello che successe, come successivamente
ammise lo stesso signor Hans Schimdt,
fu un momento di confusione.
Il muggito delle sirene. Lenta frenatura meccanica anziché
elettrica. Un rallentamento irrisorio. L’ombra di un uomo in
senso trasversale a cento metri tosto ridotti a cinquanta, a trenta, a dieci.
La coscienza del gran peso del furgone sopravvenuta in tempo
per sconsigliare una violenta sterzata. Energica frenatura elettrica
solo a quattro metri. L’ombra trasversale a due metri, a
uno dalle ruote anteriori...
Un millesimo di secondo e un urto fece
traballare tutto l’avancarro. E quasi il pesante veicolo
avesse puntato non contro una creatura umana ma contro un blocco compatto di
calcestruzzo, un gran fracasso di lamiere squarciate fece capire che tutta la
parte anteriore se ne andava in pezzi.
Hans Schmidt
col petto dolorante per la botta sul volante era disceso urlando.
E allora vide una cosa che anche i
conduttori delle altre auto vicine poterono in seguito confermare. Vide il
furgone scrollarsi come se fosse diventato più leggero di un paniere di
fragole. Vide il groviglio dei parafanghi contorti dilatarsi come fasci di caucciù e uscirne un essere che entro agli abiti a
brandelli mostrava membra illese.
Membra in movimento che, fra l’accecante luce dei fari e fra
la cupa tenebra della notte, apparvero un momento all’attonito Hans, scure ma con lucide chiazze, come — tale fu il
pittoresco paragone di cui quel testimone si servì — « come quelle di un negro
sottoposto a una bizzarra galvanoplastica ».
Prima però che una parola potesse
essere detta, una recriminazione elevata, l’ignoto era di nuovo in piedi e
mentre le sirene che avevano taciuto riprendevano adesso il loro muggito al
rinnovarsi della sua marcia trasversale, con snellezza da ginnasta aveva
raggiunto l’altro estremo dell’autostrada, con elasticità da acrobata aveva
scavalcato il muricciuolo precipitando al di là per
la scarpata. E come per un applauso alla rovescia le sirene coronarono quella
bravura con un repentino silenzio che parve fondo e
profondo dopo il precedente frastuono.
Fu in quel silenzio che il povero Hans
si accorse di non avere respirato più; annichilito, non bene sapeva, se di orrore o di stupore.
Non aveva udito un grido, un gemito, un lagno. Raccolse una
sciarpa di seta bianca senza iniziali la quale doveva restargli per sempre
invidiato o prezioso ricordo di una realtà simile a un
incubo e fu quella tutta la prova che egli ebbe di avere investito
sull’autostrada Roma-Firenze, nelle prime ore del 29
maggio, in piena fine del secolo XX, un misterioso essere dall’apparenza
d’uomo.
Questi, rotolato in fondo alla scarpata, quasi si proponesse solo di ricuperare quel mezzo minuto di mortale
ritardo in cui era incorso, accelerò la corsa fino all’inverosimile. Saltò muricciuoli e ordegni agricoli
per i prati senza mai un passo falso. Traversò quasi di un solo slancio il
fascio di binari che dalla strada ferrata si sventagliavano per tutta quella
zona di stabilimenti e di opifici e giunse ai cantieri
Falqui, non più uno sconosciuto ma qualcuno, adesso,
per cui si trepidava e si aspettava.
Pronunciati senza tradire, dopo tanta corsa, il menomo
affanno, ordini, in codice e in registri fonici diversi fecero illuminare ali
dell’edificio, squillare suonerie, andare e venire ombre silenziose.
Senza tuttavia dimettere la sua fretta il nuovo venuto aveva
traversato varî locali giungendo a una stanza che la
dicitura sull’uscio qualificava « Direzione ». Alcune parole pronunciate
chiaramente; e una gran porta prima affatto invisibile si aprì rivelando una
scala che conduceva nel sottosuolo. Lo sconosciuto la discese, traversò altri
corridoi, dei laboratorî attrezzati e in ordine, e giunse di fronte a una porta vetrata con un’altra scritta « Direzione —
Privato ».
L’ombra di un uomo che andava su e giù
concitatamente si proiettava ogni tanto sulla vetrata. All’udire un
passo pesante e sincrono che si approssimava nel corridoio si era fermato
gridando rabbiosamente : — Zeta Otto! Zeta Otto!... Cosa accade? Cosa vuoi fare?
E lo sconosciuto che era stato chiamato in quel modo girò la maniglia spingendo l’uscio.
Lungo lo spessore del muro in cui la porta era praticata si
rivelavano adesso alla luce che li investì i tubi di quarzo infrangibili per i
micidiali raggi ultravioletti ad alto potenziale. E il ronzio elettrico di allarme che si era prodotto al solo apparire del
frettoloso individuo davanti all’uscio, dimostrava che erano bene in funzione e
che nessun essere vivente avrebbe mai potuto oltrepassare vivo quella soglia.
Colui infatti che aspettava all’interno si era ben
guardato, nonostante l’impazienza che lo rodeva di avvicinarsi.
Non si comprende perciò come il sopraggiunto osasse oltrepassarla, non solo, ma restarvi, con sovrana
indifferenza, fermo nel mezzo.
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